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Documenti |
Profili di incostituzionalità
del ddl di riforma del sistema radiotelevisivo
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Documento promosso dall'associazione Articolo 21 -
Firmato dai costituzionalisti Alessadro Pace, Umberto Allegretti,
Adele Anzon, Enzo Balboni, Franco Bassanini, Ernesto Bettinelli,
Roberto Borrello, Paolo Caretti, Agatino Cariola,
Lorenza Carlassare, Paolo Cavalieri, Stefano Ceccanti,
Alfonso Di Giovine, Ottavio Grandinetti, Tania Groppi,
Enrico Grosso, Nicola Lipari, Michela Manetti, Roberto
Mastroianni, Stefano Merlini, Margherita Raveraira,
Francesco Rigano, Antonio Ruggeri, Antonio Saitta,
Giovanni Serges, Stefano Sicardi, Massimo Siclari,
Federico Sorrentino, Antonino Spadaro, Sergio Stammati,
Roberto Zaccaria.
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Il disegno di legge deliberato dal
Consiglio dei Ministri sulla riforma del sistema
radiotelevisivo presenta alcuni profili di
illegittimità costituzionale che conviene
sottolineare preliminarmente.
1) Innanzitutto viola il
principio del pluralismo informativo contenuto nell’articolo
21 della nostra Costituzione e nell'art. 10 della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo attraverso
la sostanziale eliminazione di ogni limite
anticoncentrazione.
Si confonde la tutela del pluralismo (che
impone il divieto di acquisizione di posizioni
dominanti) con la tutela della concorrenza (che,
nelle legislazioni più permissive, si limita a
vietare l’abuso di posizione dominante, anche se per
lo più – e anche nell’ordinamento comunitario -
comporta anch’essa limitazioni alle concentrazioni e
controlli sulle concentrazioni). Ciò costituisce
l’alibi per non porre alcuno specifico limite a
tutela del pluralismo. E finisce col non tutelare né
il pluralismo né la concorrenza.
La scelta piu’ grave e’ cosi’ quella che tende
ad allargare i limiti antitrust, già larghissimi nel
nostro paese, eliminando il limite settoriale per la
televisione (30% del mercato) ed introducendo un
mercato di riferimento più ampio (sistema integrato
delle comunicazioni) cui applicare il limite del 20%.
L’assenza di un divieto specifico di posizione
dominante è comprovata dalla possibilità, data ai
soggetti che già sono dominanti nel mercato, di
crescere ancora.
Si contrabbanda illegittimamente la mancanza del
pluralismo presente e la prospettata soppressione
della funzione riequilibratrice svolta dal servizio
pubblico in termini di pluralismo informativo con
la promessa lontana e futura di un maggior pluralismo
una volta introdotto il sistema digitale terrestre.
Per affermare un principio auspicabile e corretto e
cioè la possibilità degli editori di giornali di
entrare nel settore della televisione, si rinuncia a
qualsiasi criterio di bilanciamento tra grandi e
piccoli imprenditori radiotelevisivi e si consente
alle imprese radiotelevisive di entrare in forze nel
mercato dei quotidiani.
Le indicazioni contenute nelle sentenze della Corte
costituzionale e in particolare nella decisione n. 420
del 1994, sulla necessità di limiti settoriali e
intersettoriali, sono totalmente dimenticate.
Altrettanto dimenticato è il principio enunciato
nella stessa sentenza della Corte costituzionale
riguardo alla impossibilità di considerare
effettivamente pluralistico un sistema radiotelevisivo
in cui competano –così come avviene oggi- reti
nazionali con copertura territoriale del tutto
diseguale.
La soluzione di questo cruciale problema del settore
televisivo è infatti rinviata al 2006, data -peraltro
irrealistica- di integrale passaggio alle trasmissioni
televisive con tecnica digitale, senza che nel
frattempo venga introdotta alcuna misura di
riequilibrio e senza che sia fissato in tale fase
transitoria alcun efficace limite anticoncentrazione
alla titolarità di più reti televisive, da parte di
uno stesso gruppo imprenditoriale.
I cittadini hanno dunque una minore possibilità di
scelta tra le fonti di informazione,e viene loro
negato il diritto all’informazione che la Corte ha
ripetutamente richiamato.
2) La previsione di un’ampia
delega legislativa espropria il Parlamento in una
materia che riguarda le libertà fondamentali e viola
anche il nuovo titolo V della Costituzione nei
rapporti tra Stato e Regione.
Una specifica ragione costituzionale che rende
improponibile l’uso della delega deriva dal nuovo
art. 117 della Costituzione che considera l’ordinamento
della comunicazione come materia di competenza
concorrente tra Stato e Regione. Nelle materie di
competenza concorrente lo Stato può dettare solo i
principi fondamentali, il resto essendo di competenza
del legislatore regionale. Ma, in base all’articolo
76 della Costituzione, la legislazione di principio
non può essere delegata al Governo: in caso di delega
legislativa, i principi devono essere fissati nella
legge di delegazione, approvata dal Parlamento.
Quindi, in materia di competenza concorrente non può
esservi delega al Governo per la definizione dei
principi fondamentali.
E’ preoccupante infine l'estensione della delega al
Governo anche alla attuazione delle direttive
comunitarie: in tal modo si aggirano i precetti
della legge La Pergola e la riserva di legge
di cui all'art. 21 Cost., in quanto le direttive in
materia televisiva contengono spesso norme di
principio e/o scelte tra diverse opzioni
possibili: scelte che, anche da questo punto di vista,
dovrebbero spettare al Parlamento.
3) La nomina del Consiglio di
amministrazione della RAI da parte dell’Esecutivo
viola una precisa indicazione della Corte
costituzionale.
Per la prima volta, dopo il 1975, la nomina del
Consiglio di amministrazione della RAI, viene
ricondotta all’Assemblea degli azionisti e quindi al
Governo che possiede direttamente le azioni della RAI
(una volta realizzata l’incorporazione della RAI in
RAI Holding). E tutto questo e’ appena attenuato da
potere di proposta lasciato ai Presidenti delle
Camere.
La Corte costituzionale nella sentenza n. 225 del 1974
aveva esplicitamente vietato la dipendenza “diretta”
degli organi di governo della RAI dall’Esecutivo e
quel principio e’ rimasto valido per quasi trent’anni
nei confronti del Servizio pubblico.
Il disegno di legge del Governo ignora clamorosamente
questo indirizzo e quindi risulta incostituzionale.
almeno fino alla privatizzazione della maggioranza del
capitale sociale.
I cittadini avranno una televisione pubblica meno
indipendente rispetto alle altre grandi televisioni
pubbliche europee.
4) La privatizzazione integrale
della RAI, in quanto (e finché essa è) società
concessionaria del Servizio pubblico radiotelevisivo,
si pone in contrasto con un altro indirizzo contenuto
nella giurisprudenza costituzionale.
La privatizzazione integrale della RAI, finché essa
è, come nell’attuale ordinamento, società di
interesse nazionale, concessionaria del Servizio
pubblico, legata allo Stato da una convenzione e da un
contratto di servizio che fissa obblighi ed ammontare
di un canone di abbonamento, quasi integralmente
versato alla stessa RAI, non è compatibile con i
principi del nostro sistema costituzionale. A diversa
conclusione si potrebbe arrivare solo in una
ordinamento diverso che risolvesse in altri termini il
problema dell’organizzazione di un servizio pubblico
radiotelevisivo come strumento di garanzia del
pluralismo e della libertà dell’informazione: ma
non è evidentemente il caso del d.d.l. Gasparri.
Fuori da ogni dubbio, la questione si pone in
relazione alla prospetta cessione della totalità del
capitale di una società alla quale viene
precedentemente rinnovata la concessione addirittura
per dodici anni.
Il referendum ha certamente imposto di eliminare il
vincolo del totale controllo pubblico, nel
presupposto, ammesso dalla Corte (sent. n. 7 del
1995), della prevalenza del regime speciale di
servizio pubblico, ma da esso non comporta in alcun
modo la eliminazione di ogni forma di presenza
pubblica.
La Corte in una sua decisione del 1965 (n. 58) aveva
infatti affermato il principio che la concessionaria
del Servizio pubblico dovesse essere comunque una
società a prevalente partecipazione pubblica e questa
impostazione risulta oggi sostanzialmente ribadita
dalla recentissima sent. n. 284 del 2002 che ha
confermato “la esistenza e giustificazione
costituzionale dello specifico servizio pubblico
radiotelevisivo” in quanto “esercitato da
un apposito concessionario rientrante, per struttura e
modo di formazione degli organi di indirizzo e di
gestione, nella sfera pubblica”.
E’ comunque assorbente la considerazione che il
procedimento di privatizzazione, così come
disciplinato, da un lato è irrazionale, dall’altro
danneggia il pluralismo informativo. È infatti
evidente che, mentre le reti RAI potrebbero essere in
tutto o in parte privatizzate, Mediaset potrebbe
mantenere tutte e tre le sue reti.
Il procedimento di privatizzazione è infine
assai nebuloso perché il richiamo alla Legge 474/94
potrebbe anche far ipotizzare che la alienazione delle
partecipazioni mediante O.P.V. possa essere preceduta
da accordi a trattativa privata con soggetti destinati
a costituire un nucleo stabile di controllo della
società (comma 3) I limiti relativi al possesso e al
patto del Sindacato sembrano facilmente eludibili; in
compenso non c’è alcun limite all’acquisto da
parte di altri operatori concorrenti (comma 5).
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