La campagna lanciata
dall'associazione Peacelink contro la censura in Rete ha preso spunto da
alcune dichiarazioni di Franco Abruzzo: il presidente dell'Ordine
dei giornalisti lombardo avrebbe sostenuto che la legge sulla stampa
sarebbe stata presto modificata con l'obbligo della registrazione in tribunale
(e quindi la nomina di un "direttore responsabile") per tutti i siti
di informazione. Sempre secondo quanto riportato, a domanda precisa, Abruzzo
avrebbe confermato che il criterio discriminante sarebbe stato solo la frequenza
di aggiornamento, ovvero la presenza di un flusso continuo di notizie. Obbligo
di registrazione, quindi, per tutti, da corriere.it a peacelink.it
passando per pincopallino.it, nel in caso in cui il signor Pinco Pallino
aggiorni quotidianamente il proprio sito personale con il resoconto puntuale di
quanto accade nel proprio condominio.
Quest'ultimo esempio fa sembrare inverosimile la proposta e, nella sostanza,
la rende non realizzabile: nessuno può pensare che un percorso di questo genere
sia la risposta all'esigenza di rendere più moderna la legge sulla stampa, che
è del 1948. Questa legge è in effetti oggetto di verifica proprio in questi
giorni: se ne sta parlando, però, in un contesto diverso, che non c'entra nulla
con Internet e l'informazione on line. Si parla di modifica alla legge sulla
stampa nell'ambito di una rilettura del reato di diffamazione, e di diffamazione
a mezzo stampa: il 5 dicembre la proposta
di legge n. 7292 (presentata il 13 settembre, Anedda come primo firmatario)
e varie altre collegate sono state rimandate dalla Camera in Commissione (II
giustizia) per la valutazione degli emendamenti e alcuni altri interventi.
In tutti quei documenti, però, non c'è traccia di quell'obbligo esteso
di registrazione, anzi. Si parla, infatti, di "direttore responsabile o
comunque di responsabile della pubblicazione", che nel caso di siti come Peacelink
sarebbe il presidente dell'associazione o la persona che ha registrato il
dominio. Insomma, se il problema è la modifica alla legge sulla stampa, il
problema non esiste: l'ipotesi fantasiosa che vorrebbe Pinco Pallino come
direttore responsabile del proprio sito non è nei testi di nessuna proposta.
Che poi qualcuno possa desiderare un percorso del genere, è possibile: si
tratta di un rispettabile pensiero che però non diventerà una norma o una
legge.
Certo, capisco che se un pensiero del genere viene esposto dal presidente
dell'Ordine dei giornalisti, sia logico (o comprensibile o verosimile)
ipotizzare che la stampa italiana voglia mettere le mani anche sulla Rete.
Ipotesi, dunque. Vediamo quali sono, invece, le certezze.
Non sappiamo quale sia la posizione ufficiale dell'Ordine dei giornalisti,
mentre questi giorni sono un po' troppo "caldi" per chiedere una
dichiarazione ufficiale alla FNSI (Federazione nazionale della stampa italiana,
ovvero il sindacato). Esiste tuttavia all'interno della FNSI un dipartimento che
si occupa dell'on line: una struttura giovane (costituita nell'aprile di
quest'anno e del quale il sottoscritto fa parte) che ha come compito - lo dico
in modo un po' romanzato - mettere un po' di Internet nel sindacato. In questi
mesi la FNSI è stata impegnata nel rinnovo del contratto di lavoro dei
giornalisti: è scaduto da oltre un anno e gli scioperi di queste settimane nel
settore dell'informazione sono legati proprio all'ennesima rottura delle
trattative con gli editori (che, nel caso specifico, sono la controparte).
I punti di disaccordo sono svariati, ma uno riguarda proprio Internet. La
richiesta del sindacato e, in particolare, del dipartimento on line di cui
parlavo, circa le testate telematiche è che ne venga resa obbligatoria la
registrazione. Ecco il punto centrale: si chiede che sia registrato il Corriere
della Sera on line, ma nessuno si sogna di chiedere la registrazione di Peacelink.
Per il sindacato il problema è evitare che con la scusa della new economy
vengano spazzati via controlli, obblighi e garanzie. Evitare che grandi editori
costruiscano nuove redazioni di testate telematiche piene di flessibilità varie
(collaboratori, stagisti, contratti a termine) e di figure professionali
perlomeno ambigue (editor, content editor, content manger, publisher,
producer), tutte rigorosamente inquadrate con contratti diversi da quello
giornalistico. Queste nuove redazioni sarebbero totalmente nelle mani
dell'editore e del tutto incapaci di dire anche un solo "no"; il
compito del sindacato è tutelare gli interessi della categoria che rappresenta
e una new economy come quella descritta rappresenterebbe anche la fine dei
giornalisti in quanto tali.
Evviva, penserà qualcuno. E forse molti tra coloro che condividono l'appello
di Peacelink dal quale siamo partiti. Il problema, però, è che
attaccare i giornalisti come categoria in questa fase, significa sostenere di
fatto gli editori, cioè coloro che l'informazione la controllano davvero. Gli
stessi che sono oggetto della lamentela e delle preoccupazioni di Peacelink.
E allora bisogna turarsi il naso e sostenere una categoria di privilegiati, una
lobby parecchio antipatica? Non so, appartengo alla lobby quindi non posso
rispondere. E non posso rispondere nemmeno ad altre domande, che chiunque mi
farebbe dopo aver letto queste righe; per esempio, come si può distinguere
l'informazione del corriere.it da quella di peacelink.it in modo
tale che se è obbligatoria la registrazione in tribunale del primo non lo sia
per il secondo: io penso si possa ragionare sulla differenza che c'è tra
imprese (case editrici) e associazioni, sulla presenza di pubblicità, sul
professionismo (nel senso: il lavoro che uno fa per vivere) e sul volontariato.
Ragionare, perché non ci sono certezze.
Chi pensa ai giornalisti con antipatia dovrebbe anche andare a leggersi gli ultimi
contratti: siamo ancora dei privilegiati, ma non più tanto come forse si
crede; dovrebbe anche andare a fare un giro in qualche redazione, magari lontano
dalle scrivanie più importanti: molti precari, lavoro sempre con l'orologio in
mano, stipendi bassi. Non ci sono certezze, ma i giornalisti devono certamente
prendere spunto da Internet (che, bisogna dirlo, se è una rivoluzione
per molti settori, per chi campa facendo informazione assomiglia più a un terremoto)
per ripensare al proprio ruolo (e ai propri errori); gli editori dovrebbero
ricominciare a pensare alla qualità dell'informazione e usare il pugno di ferro
con chi lavora male.
Personalmente, avrei molta voglia di ragionare sulla libertà di espressione
in Rete e non essere costretto a battaglie (che sembrano di retroguardia, me ne
rendo conto) per difendere, per esempio, il diritto allo sciopero: in questi
giorni di scioperi dei giornalisti molti colleghi sono costretti a lavorare (e
molti proprio sui siti on line) perché la flessibilità della new economy gli
impedisce di dire "no". L'appello di Peacelink è in gran parte
condivisibile, parte da alcune premesse a mio parere errate e non dice una cosa
che, invece, andrebbe detta: chi per scelta, vocazione o necessità, fa
informazione da professionista (cioè, ripeto, campa facendo quel mestiere) deve
essere garantito nella propria indipendenza.
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