La recente entrata in vigore della legge 7 marzo 2001, n. 62 Nuove
norme sull’editoria e sui prodotti editoriali e modifiche alla legge 5 agosto
1981, n. 416 ha sollevato un vespaio di polemiche e reazioni indignate.
In realtà, a ben vedere, la legge è solo un ennesimo intervento -
approssimativo e pasticciato come i precedenti - del legislatore nella
disciplina giuridica di Internet, intervento che, tuttavia, è stato
immediatamente bollato come un intollerabile attentato alla libertà di
informazione.
Si è così voluto leggere, dietro alle brutte, insignificanti ed ambigue
disposizioni della legge 62/2001. più di quello che, probabilmente, il
legislatore, se avesse saputo scrivere e, soprattutto, se avesse conosciuto la
Rete, avrebbe voluto dire e si è scritto che la nuova legge sull'editoria
violerebbe la disciplina dell'Unione europea e che essa tenderebbe a limitare e
comprimere la libertà di informare e comunicare di quanti - persone fisiche o
giuridiche - hanno deciso di approfittare delle risorse della Rete per far
conoscere le proprie idee, i propri pensieri o, semplicemente, le proprie
impressioni.
Tale reazione - che, forse, mai prima d’ora si era registrata attorno ad un
problema giuridico della Rete - ha comprensibilmente messo in moto un meccanismo
che neppure l'ambiguità delle disposizioni della nuova legge era riuscita ad
azionare: dalla sera alla mattina tutti i titolari di un sito internet si sono
ritrovati ad interrogarsi sul da farsi ed a chiedersi ed a chiedere in giro -
spesso purtroppo senza trovare risposte pacate, serene e razionali - se la
propria attività fosse stata "dichiarata" fuori legge per edictum
principis.
In un momento in cui, sebbene il nostro vocabolario si stia progressivamente
arricchendo di "neologismi informatici", il nostro Paese sta, solo
timidamente scoprendo la Rete, il clima di incertezza ed ambiguità che si è
così creato attorno alla legge 62/2001 rischia di avere un effetto
disincentivante sull’uso delle tecnologie telematiche ben maggiore di quello
prodotto dalla semplice entrata in vigore della nuova legge che, pure, è
innegabilmente scritta in modo impreciso, disorganico e distratto senza alcuna
visione d'insieme della legislazione sull'editoria ma, soprattutto, del
vastissimo mondo dell'informazione in Rete.
Nel porre mano alla legge il legislatore si è mosso come un architetto che
avesse preteso di progettare il famoso ponte sullo stretto senza preoccuparsi di
scendere a dare un'occhiata a Messina e dintorni, di verificare la forza delle
correnti e la profondità del tratto di mare che separa la Sicilia dallo
stivale.
In maniera, se possibile, ancor più superficiale il legislatore della L.
62/2001 si è dimenticato di fare anche solo un giro in Rete: se lo avesse fatto
si sarebbe reso conto che Internet è essenzialmente un nuovo dirompente mezzo
di comunicazione e che, quindi, tutto ciò che vi circola è informazione.
Pertanto se si vuole imporre degli obblighi o riconoscere dei privilegi ad
alcuni soggetti della Rete non ci si può limitare a scrivere - come, purtroppo,
si è fatto nella nuova legge sull'editoria - :"chi fa informazione alzi la
mano" perché il risultato non può che essere lo stesso che otterrebbe chi
entrasse in un ufficio di collocamento e chiedesse: "chi vuole un lavoro
alzi la mano". In entrambi i casi tutti i presenti alzerebbero la mano ed
alla fine nessuno capirebbe più nulla.
Nonostante tale convinzione non riesco a condividere l'allarmismo che nelle
ultime settimane ha attraversato la Rete e che, a mio avviso, rischia di far
peggio di quanto non avrebbe fatto la legge, da sola, abbandonata al suo destino
nel mare magnum dell'ordinamento.
A leggere alcuni commenti - mi riferisco, tra gli altri, a quello di Stefano
Valentino pubblicato su questa stessa rivista (vedi La
legge sull’editoria viola le norme europee) - viene il sospetto che il
punto di partenza sia un generico rifiuto di accettare anche l'unico principio
corretto contenuto nella L. 62/2001 ossia che l'editoria e l'informazione
telematiche debbano essere assoggettate alla medesima disciplina dettata per le
corrispondenti attività del mondo reale, ovviamente, adottando le opportune
accortezze attuative rese necessarie dalle peculiarità del mezzo.
Partendo da questo presupposto, infatti, il Valentino dopo aver scritto che
nella nuova normativa sull’editoria il legislatore avrebbe inventato una nuova
definizione di prodotto editoriale con una "formulazione prolissa che non
è altro che un sinonimo di giornale" conclude che l’applicabilità anche
al prodotto editoriale così definito delle disposizioni di cui all’art. 2 -
ed in taluni casi all’art. 5 - della legge sulla stampa costituirebbe una
"chiara messa al bando dei tanti notiziari web puri, anche detti web-zines...fino
ad oggi non registrati".
Se non ci inganniamo ciò significa che, ad avviso dell’autore, a prescindere
dall’evidente ambiguità che caratterizza la nuova legge sull’editoria, è
la stessa idea di poter equiparare l’informazione telematica a quella
tradizionale ad essere sbagliata.
Pur apparendo condivisibile il timore manifestato dal Valentino circa il
rischio che un’eccessiva burocratizzazione dell’attività di informazione
telematica potrebbe comportare la chiusura di "centinaia di piccoli siti
più o meno d’informazione, che sopravvivono attualmente grazie a qualche
milione di lire al mese di introiti pubblicitari" non altrettanto può
dirsi per il fondamento giuridico di una simile conclusione.
In altre parole, non si capisce perché se Internet è davvero solo un mezzo –
per quanto straordinario ed innovativo – di informazione e comunicazione
determinate fattispecie dovrebbero essere disciplinate diversamente da come lo
sono nel mondo tradizionale solo perché svolte on line.
Alla luce delle medesime considerazioni, a maggior ragione, non può essere
condivisa l’affermazione secondo cui "l’estensione dell’obbligo di
registrazione ai giornali on line" risulterebbe "inammissibile in
virtù della normativa UE" e, in particolare, della direttiva
2000/31/CE
relativa a taluni aspetti del commercio elettronico che all’art. 4 vieterebbe
"agli Stati membri di restringere l’accesso alla prestazione dei SSI,
facendo salvi solo i regimi restrittivi più ampi che non colpiscono
specificamente ed esclusivamente le attività svolte on line, ma si riferiscono
ad attività preesistenti ad Internet".
Tale disposizione, infatti, tende evidentemente a scongiurare il rischio che
alle attività svolte per via telematica sia riservato - negli ordinamenti dei
Paesi membri - un trattamento deteriore e più gravoso - in termini
burocratico-amministrativi - rispetto a quello riservato alle corrispondenti
attività tradizionali.
Tuttavia se tale interpretazione - che appare, invero l'unica possibile –
è corretta non si vede come le disposizioni contenute nella nuova legge
sull'editoria che, in buona sostanza, mirano proprio a sancire la piena
equiparazione dell'editoria telematica a quella tradizionale, possano essere
considerate in contrasto con la direttiva 31/2001.
A ben vedere, infatti, è la stessa normativa UE a richiedere agli Stati membri
di riservare ai servizi della società dell’informazione il medesimo
trattamento giuridico delle equivalenti attività esercitate attraverso i canali
tradizionali.
In altre parole a leggere – come peraltro fa lo stesso Valentino – dietro
alla brutta definizione di prodotto editoriale contenuta nell’art.1 della
legge 62/2001 un concetto assai prossimo a quello di "giornale tradizionale
diffuso per via telematica" non può muoversi alcuna contestazione –
almeno sotto il profilo della violazione della Direttiva UE – al nostro
legislatore per aver esteso anche alle fattispecie telematiche gli obblighi
sanciti nella legge 47/48.
Peraltro, proprio al riguardo, non va dimenticato che lo stesso legislatore
comunitario al 9° considerando ha espressamente previsto che "la presente
Direttiva non è volta ad incidere sui principi e sulle norme fondamentali
nazionali in materia di libertà di espressione".
In una prospettiva de jure condendo potrà, quindi, semmai discutersi
circa l’attualità o meno dei limiti e dei legacci imposti nel nostro Paese
– attraverso ordini professionali e inefficaci sistemi di schedatura e
registrazione – alla libertà di manifestazione del pensiero ma, allo stato,
non può configurarsi alcuna violazione della normativa dettata dall’Unione
europea.
Non è dunque sul principio astratto dell’equiparabilità dell’informazione
on line a quella tradizionale che può muoversi un qualche rimprovero al
legislatore perché, sotto tale profilo, l’iniziativa potrà forse essere
giudicata politicamente non auspicabile ma giuridicamente risulta quantomeno
fondata.
Il vero pasticcio della legge 62/2001 consiste, piuttosto, nell'aver lasciato
aperto e, se possibile, reso più complicato uno dei più grandi problemi del
diritto dell'informazione in Rete: la distinzione tra informazione professionale
o professionistica e tutte le altre forme di comunicazione libera che affollano
il WEB.
Al riguardo il legislatore ha scelto – più o meno consapevolmente – di
tacere e così facendo ha ingenerato l'equivoco - invero poi ingigantito a
dismisura da taluni commentatori, giornalisti e giornalai - secondo il quale in
Internet non vi sarebbe più spazio per i due binari dell'informazione e della
comunicazione (quello professionale e quello personale) che, da sempre, esistono
nel mondo tradizionale.
In realtà che questa non sia stata la ratio ispiratrice del
legislatore emerge - sebbene, certamente, non con grande chiarezza - da due
distinti indici rivelatori:
a) non bisogna, in primo luogo, dimenticare che la legge 62/2001, proprio
come la vecchia legge sull’editoria, è volta, in primo luogo, a stabilire
tutta una serie di condizioni e requisiti ai quali le imprese editrici debbono
rispondere per poter usufruire dei contributi all’editoria all’uopo
stanziati dallo Stato.
Pensare, dunque, che con l’ambigua definizione di prodotto editoriale
contenuta nell’art. 1 della nuova legge il legislatore abbia inteso abbattere
ogni distinzione tra informazione professionale e non professionale, equivale ad
ammettere che il Palazzo abbia deciso di riconoscere contributi e provvidenze a
milioni e milioni di italiani, quanti sono i titolari di siti internet nel
nostro Paese.
Che ciò non sia possibile e che, quindi, non sia stata questa l’intenzione
del legislatore è conclusione che non richiede ulteriori spiegazioni.
Già sotto tale profilo, dunque, si deve ritenere che se il legislatore avesse
conosciuto meglio la Rete avrebbe scritto più semplicemente: "sono
ammesse alle speciali provvidenze sull’editoria anche tutte le imprese
editrici che pubblicano on-line giornali, testate e periodici analoghi per
contenuti, scopi e finalità a quelli tradizionali".
(b) la stessa conclusione appare inoltre legittimata dal tenore letterale del
combinato disposto degli artt. 1 e 2 lett. a) della nuova legge attraverso il
quale il legislatore ha dettato, rispettivamente – innovando, in realtà,
assai poco rispetto al passato - le definizioni di prodotto editoriale e di
impresa editrice.
Sebbene, come già si è detto, questa parte definitoria sia certamente quella
meno ragionata e, conseguentemente, più ambigua, infatti, non può negarsi che
la sensazione complessiva che si respira dalla lettura di dette disposizioni sia
che il legislatore abbia avuto di mira esclusivamente, come beneficiarie delle
provvidenze all’editoria e, quindi, come destinatarie del corrispondente
regime speciale, solo le imprese editrici "professionali".
Tanto l’art. 1 – totalmente nuovo rispetto alla normativa previgente –
che la lettera a) dell’art. 2 - solo lievemente ritoccato rispetto alla
previsione di cui all’art. 1 della legge 416/1981 - infatti, aggiungono poco o
nulla all’assetto complessivo della normativa vigente in materia, fatta salva,
appunto, l’estensione dell’ambito di applicazione anche all’attività
editoriale "tradizionale" svolta attraverso lo strumento telematico.
Solo la giurisprudenza e la dottrina potranno poi, in concreto, individuare -
come d’altra parte avviene per centinaia e centinaia di altre leggi e leggine
che affollano il nostro ordinamento - dei sicuri indici rivelatori dell’applicabilità
della nuova legge a determinati prodotti o soggetti.
Per completezza di informazione va, infine, rilevato che nel progetto di
legge C.6946 originariamente presentato al Parlamento era incluso anche un
articolo 15 recante "Testo unico sull’editoria" che prevedeva che
"il Governo" avrebbe provveduto " entro due anni dalla data di
entrata in vigore della presente legge, al riordino delle disposizioni in
materia di editoria, di provvidenze alla stampa ed alle emittenti radiofoniche e
televisive locali e di iscrizione ai registri stampa presso i tribunali.
Se tale previsione non fosse stata poi inspiegabilmente stralciata nel corso dei
lavori preparatori essa costituirebbe la miglior prova della circostanza che con
la nuova legge il Palazzo non ha inteso mettere alcun cerotto alla libertà di
informazione ma, più semplicemente, tentare un primo goffo e mal riuscito
intervento in materia di disciplina dell’informazione in Rete.
Un giorno, forse, anche Re Tentenna, scoprirà la Rete ed imparerà a
scrivere leggi migliori ma, nel frattempo, certamente i cittadini del
ciberspazio sapranno difendere i propri diritti come da sempre sono abituati a
fare nel mondo reale.
|