INDICE
Schede
di lettura
Quadro normativo
La giurisprudenza della CEDU
La proposta di legge C. 881
(Pecorella-Costa)
La proposta di legge C 4714
Quadro normativo
Il reato di diffamazione, di
cui all’articolo 595 del codice penale,
rientra nella categoria dei delitti contro l’onore,
disciplinati nel Capo II del Titolo XII (Dei delitti
contro la persona) del Libro II del codice e consiste
nel fatto di chiunque, fuori dai casi di
ingiuria di cui all’articolo 594 c.p., comunicando
con più persone offende l’altrui reputazione.
Con
l’incriminazione della diffamazione si tutelano quindi i
riflessi oggettivi dell’onore, vale a dire la
considerazione e la stima di cui l’individuo gode nella
collettività sia sotto il profilo morale che sociale. Il
reato è caratterizzato:
a)
dall’offesa dell’altrui reputazione;
b)
dall’assenza dell’offeso
(tale caratteristica distingue il delitto in esame da
quello dell’ingiuria di cui all’articolo 594); occorre
infatti che questi non sia presente al momento della
condotta criminosa e che non si verifichino quei fatti che
la legge equipara alla presenza (comunicazioni
telefoniche, telegrafiche, scritti o disegni diretti alla
persona offesa);
c)
dalla comunicazione con più persone
ovvero dalla presa di contatto (mediante parole, scritti,
disegni e gesti) con soggetti diversi dall’offeso al
fine di renderli partecipi di fatti lesivi della
reputazione di costui.
La pena
prevista dal codice per la diffamazione, reato punibile
a querela della persona offesa (art. 597 c.p.)
consiste, nell’ipotesi “semplice” del primo comma,
nella multa da 258 a 2.582 euro ovvero nella
permanenza domiciliare da 6 giorni a 30 giorni o nel
lavoro di pubblica utilità per un periodo da 10 giorni a
3 mesi.
Il secondo comma dell’art. 595
sanziona l’offesa consistente nell’attribuzione
di un fatto determinato con le stesse sanzioni
dettate dal primo comma.
Fino all’attribuzione al giudice di pace della
competenza sulle due fattispecie di diffamazione contenute
nel primo e nel secondo comma dell’art. 595 c.p., la
diffamazione semplice era punita con la reclusione fino ad
un anno o con la multa fino a 1.032 euro; l’attribuzione
di un fatto determinato costituiva aggravante punita con
la reclusione fino a 2 anni o con la multa fino a 2.065
euro.
Il D.Lgs. 274/2000 ha attribuito (art. 4) al giudice di
pace la competenza a giudicare sulle fattispecie di
diffamazione dei primi due commi dell’art. 595 c.p. e ha
previsto (art. 52) che: ai reati attribuiti alla
competenza del giudice di pace per i quali è prevista la
pena della reclusione o dell'arresto alternativa a quella
della multa o dell'ammenda, si applica la pena pecuniaria
della specie corrispondente da euro 258 a euro 2.582; se
la pena detentiva è superiore nel massimo a sei mesi, si
applica la predetta pena pecuniaria o la pena della
permanenza domiciliare da sei giorni a trenta giorni
ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità per un
periodo da dieci giorni a tre mesi.
Nelle ipotesi
aggravate del terzo e quarto comma dell’art. 595
c.p., il reato è attribuito alla competenza del
tribunale monocratico.
Il terzo comma prevede la pena
della reclusione da sei mesi a tre anni o della
multa non inferiore a 516 euro se l’offesa
è recata col mezzo della stampa o con
qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto
pubblico. Ratio dell’aggravante sta nella peculiare
potenzialità offensiva del mezzo di pubblicità rispetto
al mezzo privato di comunicazione, nello spazio e nel
tempo.
Se diffamato è, invece, un Corpo
politico, amministrativo o giudiziario, o una sua
rappresentanza od una autorità costituita in collegio, le
pene sono aumentate (fino ad un terzo, ex art. 64
c.p.).
Per la definizione dei termini stampa
e stampati a fini penalistici si fa comunemente
riferimento a quella dettata, ad altri fini,
dall’articolo 1 della cd. legge sulla stampa, legge
8 febbraio 1948, n. 47 (“Disposizioni
sulla stampa”), mentre con l’espressione altro
mezzo di pubblicità, secondo l’interpretazione
dottrinaria comune, si intendono
tutti gli altri mezzi divulgativi, diversi dalla stampa,
quale la trasmissione radiofonica o televisiva, la
rappresentazione cinematografica, la circolare diretta ad
ampia cerchia di persone, le grida, canti, annunci o
espressioni amplificate dall’altoparlante o megafono in
pubbliche manifestazioni o spettacoli. Per atto
pubblico, infine, dovrebbe intendersi non soltanto
quello in senso formale, ma qualsiasi atto destinato alla
pubblicità.
Stante l’uso privilegiato della
stampa come mezzo di commissione dell’illecito, la
disciplina contenuta nella citata legge n. 47 del 1948,
contenendo disposizioni speciali sulla diffamazione, si
integra con quella codicistica penale e civile.
Mentre la diffamazione aggravata per
l’attribuzione di un fatto determinato prevedeva, come
detto, la pena della reclusione fino a 2 anni o la multa
fino a 2.065 euro (dal 2000 sostituita dalla multa da 258
a 2.582 euro ovvero dalla permanenza domiciliare da 6
giorni a 30 giorni o dal lavoro di pubblica utilità per
un periodo da 10 giorni a 3 mesi), più grave risulta la
sanzione per l’identica fattispecie quando l’illecito
è commesso con il mezzo della stampa: ai sensi dell’articolo
13 della legge n. 47 del 1948; infatti, la diffamazione
a mezzo stampa, consistente nell’attribuzione di un
fatto determinato, comporta la pena della reclusione
da uno a sei anni e quella della multa non inferiore a
258 euro.
L’aggravante citata era
prevista originariamente per la sola stampa.
Successivamente, l’articolo 30 della legge L. 6 agosto
1990, n. 223 (“Disciplina del sistema radiotelevisivo
pubblico e privato”) ha esteso l’aggravante
medesima anche alla radio ed alla televisione,
pubbliche e private, eliminandosi così la disparità
di trattamento.
L’art. 8 della
legge sulla stampa reca inoltre la disciplina per le risposte
e le rettifiche.
Prevede infatti che il direttore
o, comunque, il responsabile è tenuto a fare inserire
gratuitamente nel quotidiano o nel periodico o
nell'agenzia di stampa le dichiarazioni o le rettifiche
dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini od ai
quali siano stati attribuiti atti o pensieri o
affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o
contrari a verità, purché le dichiarazioni o le
rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di
incriminazione penale.
Sul versante civilistico, la legge
sulla stampa, all’articolo 11, prevede che
per i reati commessi col mezzo della stampa sono civilmente
responsabili, in solido con gli autori del reato e
fra di loro, il proprietario della pubblicazione e
l’editore.
Secondo l’articolo 12 della legge, poi, il
diffamato a mezzo della stampa può chiedere, oltre il
risarcimento dei danni ai sensi dell’articolo 185 c.p.,
un’ulteriore somma a titolo di riparazione,
la cui entità è determinata dal giudice in relazione
alla gravità dell’offesa e alla diffusione dello
stampato.
In merito al tema della diffamazione
a mezzo stampa va ricordato che la dottrina e la
giurisprudenza (a partire dalla storica sentenza della
Cassazione 18 ottobre 1984, n. 5259).sono ormai
concordi nel riconoscere che l’esercizio del
diritto di cronaca integri gli estremi della causa
di giustificazione di cui all’articolo 51
c.p. (Esercizio di un diritto), in quanto
inerente alla libertà di manifestazione delpensiero ed
alla libertà di stampa riconosciute dall’articolo 21
della Costituzione.
Esso, pertanto, può essere
esercitato anche quando ne derivi una lesione
dell’altrui reputazione purché venganorispettati
determinati limiti che sono stati
individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza nella verità
delle notizia pubblicata, vale a dire nella
corrispondenza tra i fatti accaduti e quelli narrati,
nell’utilità sociale dell’informazione, in
relazione all’attualità e rilevanza dei fatti narrati,
e nell’esigenza che l’informazione sia mantenuta
nei limiti della obbiettività e della serenità e in
una forma espositiva necessariamente corretta
(requisito della continenza).
La carenza anche di uno solo di
questi requisiti, fa rivivere il diritto inviolabile
all’onore del singolo individuo in tutta la sua
pienezza, rendendo illecita la manifestazione del
pensiero; l’esercizio del diritto di cronaca non è più
configurabile ed il fatto integrerà gli estremi del reato
di diffamazione.
L’articolo 596, c.p.
sancisce, al primo comma, il principio dell’esclusione
della prova liberatoria (c.d. exceptio veritatis),
nel senso che il colpevole dei delitti di ingiuria e
diffamazione non è ammesso a provare, a sua
discolpa, la verità o la notorietà del fatto
attribuito alla persona offesa.
Il secondo comma prevede tuttavia
una deroga al suddetto principio, costituita dal deferimento
ad un giurì d’onore del giudizio sulla verità del
fatto, sempre che l’offesa consista nell’attribuzione
di un fatto determinato, vi sia accordo
dell’offensore e dell’offeso sul deferimento, non sia
stata pronunciata sentenza irrevocabile.
Il terzo comma
(introdotto dall’articolo 5 del decreto legislativo
luogotenenziale n. 288/1944) prevede tre ulteriori deroghe
al suddetto principio, stabilendo che quando l’offesa
consiste nell’attribuzione di un fatto determinato
(non, quindi, di un fatto indeterminato o di una mera
qualifica), la prova della verità del fatto
medesimo sia però sempre ammessa nel procedimento penale
se la persona offesa è un pubblico ufficiale ed il
fatto ad esso attribuito si riferisce all’esercizio
delle sue funzioni, se per il fatto attribuito alla
persona offesa è tuttora aperto o si inizia
contro di essa un procedimento penale, se il
querelante domanda formalmente che il giudizio si estenda
ad accertare la verità o la falsità del
fatto ad esso attribuito.
Il quarto comma
prevede, infine, che se la verità del fatto è
provata o se per esso la persona, a cui il fatto è
attribuito, è condannata dopo l’attribuzione del
fatto medesimo, l’autore dell’imputazione non è
punibile, salvo che i modi usati non rendano per
se stessi applicabili le disposizioni dell’articolo 594,
comma 1, ovvero dell’articolo 595, comma 1,
cioè costituiscano come tali ingiuria e diffamazione.
L’articolo 596-bisprevede
poi che, se il delitto di diffamazione è commesso con il
mezzo della stampa, le disposizioni dell’articolo
precedente, riguardanti l’ammissibilità della
prova liberatoria, si applicano anche al direttore
o vice-direttore responsabile, all’editore e allo
stampatore, per i reati previsti negli articoli 57, 57-bis
e 58 (reati commessi col mezzo della stampa periodica, non
periodica e clandestina).
Va inoltre richiamata la
disciplina di cui all’articolo 57 del codice
penale in tema di reati commessi col mezzo della stampa
periodica.
L’articolo citato, nella sua
originaria formulazione, chiamava a rispondere di omesso
impedimento dei reati commessi a mezzo stampa il direttore
o il vice-direttore di giornale e ciò sulla base del
ruolo di supremazia di tali soggetti: si trattava, quindi,
di una forma di responsabilità oggettiva, essendo
sufficiente il fatto oggettivo di una omissione di
controllo da parte dei soggetti indicati, a prescindere
dalla prova del carattere colposo del comportamento
omissivo medesimo.
Con la sentenza n. 3/1956
la Corte costituzionale, pur dichiarando infondata
la questione di legittimità costituzionale dell'art. 57
c.p. allora vigente in adesione alla giurisprudenza della
Cassazione secondo cui la
responsabilità del direttore di un periodico era comunque
fondata sulla colpa, sottolineò
tuttavia le difficoltà interpretative che il testo allora
vigente poneva. Su questa base, intervenne poi la
legge 4 marzo 1958, n. 127 (“Modificazioni alle
disposizioni del codice penale relative ai reati commessi
col mezzo della stampa”) che ha condotto all’attuale
formulazione dell’articolo 57, in base al
quale, “Salva la responsabilità dell’autore della
pubblicazione, e fuori dei casi di concorso, il direttore
o il vicedirettore responsabile, il quale omette di
esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il
controllo necessario ad impedire che col mezzo della
pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di
colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per
tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo”.
Sebbene parte della dottrina
sostenga che l’articolo 57 continui a
configurare un’ipotesi di responsabilità oggettiva,
la dottrina e la giurisprudenza prevalente considerano,
invece, la figura di reato come colposa
a tutti gli effetti: secondo questa
interpretazione, non basta accertare che il direttore
abbia obiettivamente violato l’obbligo di controllo, ma
è necessario verificare che tale omissione sia dovuta a
un atteggiamento di negligenza.
Più precisamente, al direttore
deve potersi rivolgere l’addebito o di non aver
controllato, a causa di un atteggiamento negligente, il
contenuto dell’articolo, ovvero di averne
superficialmente valutato la liceità penale. E’
evidente, poi, che qualora l’omesso controllo del
direttore dipenda non già da negligenza, ma dalla precisa
volontà di assecondare la pubblicazione di un articolo di
contenuto penalmente illecito, si configura una normale
ipotesi di concorso (doloso) del direttore nel
fatto doloso dell’autore dello scritto.
L’articolo 57-bis
dispone poi che nel caso di stampa non periodica, le
disposizioni di cui al precedente articolo si applicano
all’editore, se l’autore della pubblicazione è ignoto
o non imputabile, ovvero allo stampatore, se l’editore
non è indicato o non è imputabile.
L’articolo 58 c.p.,
infine, prevede che le disposizioni di cui agli articoli
57 e 57-bis si applichino anche se non sono state
osservate le prescrizioni di legge sulla pubblicazione e
diffusione della stampa periodica e non periodica.
La giurisprudenza della CEDU
L’art. 10 della Convenzione EDU
(Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti
dell’Uomo) reca:
“1. Ogni persona ha diritto alla
libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà
d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare
informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da
parte delle autorità pubbliche e senza limiti di
frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati
di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di
radiodiffusione, cinematografiche o televisive.
2. L’esercizio di queste libertà,
poiché comporta doveri e responsabilità, può essere
sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o
sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono
misure necessarie, in una società democratica, alla
sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla
pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla
prevenzione dei reati, alla protezione della salute o
della morale, alla protezione della reputazione o dei
diritti altrui, per impedire la divulgazione di
informazioni riservate o per garantire l’autorità e
l’imparzialità del potere giudiziario”.
Nella giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo quello di libera
espressione è considerato un diritto centrale nel sistema
di salvaguardia dei diritti dell’uomo. In questo ambito,
la Corte ha sempre sottolineato il ruolo di ‘cane da
guardia’ esercitato dagli organi di stampa, da cui
consegue la loro funzione di riferire al grande pubblico
su fatti di interesse, e ha considerato le sanzioni a
carico dei giornalisti come un’ingerenza
nell’esercizio di tale diritto.
La Corte EDU ritiene tale ingerenza
legittima solo a tre condizioni: che essa sia prevista
dalla legge; che essa sia un mezzo necessario per
perseguire finalità legittime nel contesto di una società
democratica; che essa sia proporzionata al fatto (per
tutte Steel e Morris c. Regno Unito, 15 febbraio 2005).
Nella sentenza del 2 aprile 2009
(Kydonis c. Grecia) la Corte di Strasburgo condannando la
Grecia al risarcimento di un giornalista ha ritenuto che “le
pene detentive non sono compatibili con la libertà di
espressione” perché “il carcere ha un effetto
deterrente sulla libertà dei giornalisti di informare con
effetti negativi sulla collettività che ha a sua volta
diritto a ricevere informazioni”. La CEDU ha
ribadito come la previsione del carcere sia “suscettibile
di provocare un effetto dissuasivo per l'esercizio della
libertà di stampa”.
Nella giurisprudenza della Corte EDU
non risultano pronunzie che affrontino specificamente il
tema della distinzione tra redattore dell’articolo e
direttore responsabile. Viceversa, vi sono molti
precedenti che offrono criteri alla luce dei quali
valutare la sussistenza del requisito della proporzione.
Sotto questo profilo, la Corte
ammette che tra i criteri di giudizio possano essere la
natura e la misura delle sanzioni (v. ancora la sentenza
Steel and Morris e, in particolare, la sentenza Dupuis c.
Francia, 12 novembre 2007), anche se non risultano
passaggi specificamente inerenti alla diversità tra pene
detentive e pecuniarie.
Nella sentenza Ormanni c. Italia (17
luglio 2007) si rinviene tra i criteri di giudizio ai fini
della proporzione la circostanza che il diffamato abbia
potuto replicare (più specificamente, è stata affermata
nella sanzione al giornalista la sproporzione e, dunque,
la violazione dell’art. 10 CEDU, in ragione del fatto
che oltretutto al diffamato era stata offerta occasione
sulla stessa testata di dare la sua versione dei fatti).
Molte sentenze recenti hanno
constatato una violazione dell’art. 10 e in ciò hanno
generalmente fatto leva sulla mancanza del requisito della
proporzione. E’ stato infatti più volte considerato
eccessivo il peso economico della sanzione sulla persona
accusata di aver diffamato il soggetto assunto a obiettivo
della propria cronaca o critica. Si vedano – oltre alle
citate Dupuis e Ormanni - Riolo c. Italia (17 luglio
2008); Saaristo c. Finlandia (12 ottobre 2010) e Publico
c. Portogallo (7 dicembre 2010).
La proposta di legge C. 881
(Pecorella-Costa)
Il provvedimento in esame, composto
di tre articoli, modifica in particolare la disciplina
della diffamazione a mezzo stampa, sostanzialmente
riprendendo il contenuto di un testo unificato approvato
in prima lettura dalla Camera nelle XIV legislatura ed il
cui iter si è poi interrotto al Senato (A.S. 3176).
Punto qualificante dell’intervento
appare l’eliminazione della pena detentiva per
i delitti contro l’onore (ingiuria e diffamazione),
che tuttavia non vengono depenalizzati ma conservano la
natura giuridica di delitto.
Richiami all’eliminazione della pena
detentiva per il reato di diffamazione sono arrivati
all’Italia da consessi internazionali.
Il Comitato dei Diritti Umani delle
Nazioni Unite del 2006 nelle sue osservazioni
conclusive del 2 novembre 2005 sul rapporto sull’Italia
chiede all’Italia di non punire la diffamazione con la
reclusione, in quanto prerogativa dei regimi autoritari.
Un appello analogo, anch’esso inascoltato, è
venuto nel 2007 dall’Assemblea parlamentare
del Consiglio d’Europa (risoluzione 1577), che ha
suggerito di declassare la diffamazione da reato doloso in
reato colposo.
L'articolo 1 della proposta di
legge propone, anzitutto, una serie di modifiche
alla legge sulla stampa n. 47 del 1948.
Dopo la novella dell’art. 1 con cui
viene precisata l’applicabilità della legge anche
ai siti Internet di natura editoriale (comma 1),
ulteriori modifiche interessano gli articoli 8, 12 e 13
della legge 47, nella quale è poi introdotto un articolo
aggiuntivo (11-bis).
Recente giurisprudenza ha escluso
l’applicabilità della legge sulla stampa in materia
di diffamazione alle testate telematiche (v. Cassazione,
sentenze n. 35510 del 2010 e n. 44126 del 2011).
Il comma 2 dell’art. 1
interviene sull’art. 8della legge sulla stampa in
materia di diritto di rettifica. E’, anzitutto,
specificato (lett. a)), in relazione ai quotidiani, che le
dichiarazioni o le rettifiche della persona offesa devono
essere pubblicate senza commento.
Come sopra ricordato, l’art. 8 della
legge 47/1948, rubricato “Risposte e
rettifiche” prevede che il direttore o, comunque, il
responsabile è tenuto a fare inserire gratuitamente nel
quotidiano o nel periodico o nell'agenzia di stampa le
dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano
state pubblicate immagini od ai quali siano stati
attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti
lesivi della loro dignità o contrari a verità, purché
le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto
suscettibile di incriminazione penale.
Per i quotidiani, le dichiarazioni o le
rettifiche sono pubblicate, non oltre due giorni da quello
in cui è avvenuta la richiesta, in testa di pagina e
collocate nella stessa pagina del giornale che ha
riportato la notizia cui si riferiscono.
Per i periodici, le dichiarazioni o le
rettifiche sono pubblicate, non oltre il secondo numero
successivo alla settimana in cui è pervenuta la
richiesta, nella stessa pagina che ha riportato la notizia
cui si riferisce.
Le rettifiche o dichiarazioni devono
fare riferimento allo scritto che le ha determinate e
devono essere pubblicate nella loro interezza, purché
contenute entro il limite di trenta righe, con le medesime
caratteristiche tipografiche, per la parte che si
riferisce direttamente alle affermazioni contestate.
Qualora, trascorso il termine indicato
per i quotidiani o i periodici, la rettifica o
dichiarazione non sia stata pubblicata o lo sia stata in
violazione di quanto disposto dalle norme sopradescritte,
l'autore della richiesta di rettifica può chiedere al
tribunale, ai sensi dell'articolo 700 c.p.c., che sia
ordinata la pubblicazione.
La mancata o incompleta ottemperanza
all'obbligo di cui al presente articolo è punita con la
sanzione amministrativa da euro 7.746 a euro 12.911.
La sentenza di condanna deve essere
pubblicata per estratto nel quotidiano o nel periodico o
nell'agenzia. Essa, ove ne sia il caso, ordina che la
pubblicazione omessa sia effettuata.
Sono, poi, introdotti due commi
(rispettivamente dopo il terzo e dopo il quarto) che ampliano
l’ambito applicativo dell'istituto della rettifica alle
trasmissioni televisive o radiofoniche, alla stampa non
periodica (ad es. i libri) e ai siti informatici.
La lettera b)estende l’istituto
della rettifica alle trasmissioni televisive o
radiofoniche. Per tali trasmissioni,
il diritto alle dichiarazioni e alla rettifica è
esercitato ai sensi dell’art. 32-quinquies del T.U.
radiotelevisione (D.Lgs 177/2005).
L’art. 32-quinquies del TU
radiotelevisione prevede che chiunque si ritenga leso
nei suoi interessi morali, quali in particolare l'onore e
la reputazione, o materiali da trasmissioni contrarie a
verità ha diritto di chiedere al fornitore di servizi di
media audiovisivi lineari, incluse la concessionaria del
servizio pubblico generale radiotelevisivo, all'emittente
radiofonica ovvero alle persone da loro delegate al
controllo della trasmissione, che sia trasmessa apposita
rettifica, purché questa ultima non abbia contenuto che
possa dar luogo a responsabilità penali.
La rettifica è effettuata entro
quarantotto ore dalla data di ricezione della relativa
richiesta, in fascia oraria e con il rilievo
corrispondenti a quelli della trasmissione che ha dato
origine alla lesione degli interessi. Trascorso detto
termine senza che la rettifica sia stata effettuata,
l'interessato può trasmettere la richiesta all'Autorità
per le garanzie nelle comunicazioni, che provvede ai sensi
del comma 4.
Fatta salva la competenza
dell'autorità giudiziaria ordinaria a tutela dei diritti
soggettivi, nel caso in cui l'emittente, televisiva o
radiofonica, analogica o digitale, o la concessionaria del
servizio pubblico generale radiotelevisivo ritengano che
non ricorrono le condizioni per la trasmissione della
rettifica, sottopongono entro il giorno successivo alla
richiesta la questione all'Autorità, che si pronuncia nel
termine di cinque giorni. Se l'Autorità ritiene fondata
la richiesta di rettifica, quest'ultima, preceduta
dall'indicazione della pronuncia dell'Autorità stessa,
deve essere trasmessa entro le ventiquattro ore successive
alla pronuncia medesima.
Si osserva che il testo fa riferimento all’art. 32 anziché
all’art. 32-quinquies del Testo unico. Stante la non
riferibilità dell’art. 30 all’esercizio del diritto
di rettifica, sembra probabile che si tratti di un refuso.
Anche per i siti informatici,
il termine di pubblicazione della dichiarazione o della
rettifica è di 48 ore dalla richiesta e a questa vanno
date lo stesso rilievo, caratteristiche grafiche e
metodologia di accesso al sito della notizia lesiva cui si
riferiscono.
La lettera c) prevede, per la stampa
non periodica, l’obbligo di pubblicazione a
proprie spese da parte dell’autore dello scritto
ritenuto diffamatorio su non più di due quotidiani
nazionali delle dichiarazioni o rettifiche della persona
offesa, sempre che queste ultime “non abbiano contenuto
suscettibile di incriminazione penale”. La rettifica va
pubblicata entro sette giorni dalla richiesta con adeguato
rilievo e deve far chiaro riferimento allo scritto cui si
riferisce.
Per esigenze di coordinamento con le
modifiche introdotte (in particolare in relazione alla
pubblicazione di rettifiche sui siti informatici), la
lettera d) novella il quinto comma dell’art. 8 della
legge sulla stampa che prevede, trascorsi invano i termini
di pubblicazione della rettifica, il possibile ricorso
dell’interessato all’autorità giudiziaria per
l’adozione di un provvedimento d’urgenza ex art.
700 c.p.c. Tale possibilità, a tutela dell’autore
dell’offesa, è offerta (da un sesto comma aggiunto
dalla lettera e)) in caso di inerzia nella pubblicazione
della smentita o rettifica da parte degli obbligati.
In materia di conseguenze civili
della diffamazione, il comma 3 dell’art. 1 in
esame mira a limitare l’entità del risarcimento
del danno a favore dell’offeso dal reato,
risarcimento, per il quale, ai sensi dell’art. 11 della
legge 47/1948, sono civilmente responsabili, in solido con
gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della
pubblicazione e l'editore (per i giornali telematici, il
proprietario ed editore del sito web, sul quale vengono
diffusi i giornali telematici, v. C. Cost. sent. n. 20 del
2001).
Con un nuovo art. 11-bis
aggiunto alla legge n. 47/1948, si prevede, infatti, che il
giudice - determinando l’ammontare del quantum
risarcitorio - deve tenere conto dell’effetto
riparatorio già conseguito con la pubblicazione della
rettifica.
La nuova disposizione stabilisce,
poi, un limite massimo di 30.000 euro
al risarcimento del danno non patrimoniale che il giudice
determina in via equitativa; tale limite non è tuttavia
vincolante in caso di recidiva nei confronti della stessa
persona, accertata con sentenza definitiva sia civile che
penale.
Secondo la relazione illustrativa, si
è ritenuto opportuno “limitare quantitativamente
l'entità massima del risarcimento del danno non
patrimoniale, qualora questo debba essere liquidato in via
equitativa, al fine di ridurre l'eccessiva discrezionalità
del magistrato nel determinare la somma da risarcire nei
casi in cui non sia possibile utilizzare parametri
oggettivi”.
L’art. 11-bis determina,
infine, in un anno dalla
pubblicazione il tempo della prescrizione
dell’azione civile per il risarcimento del danno da
diffamazione a mezzo stampa nei casi previsti dalla legge
47/1948.
Si ricorda che attualmente il
tempo della prescrizione dell’obbligazione risarcitoria
per la diffamazione a mezzo stampa è determinato, ex
art. 2947 c.c., “in 5 anni dal giorno in cui il fatto si
è verificato” ovvero dalla pubblicazione (cd.
prescrizione breve); qualora invece intervenga una
pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno,
emessa anche a seguito di procedimento penale in favore
del danneggiato costituitosi parte civile, l’azione
civile è soggetta alla prescrizione decennale “ex
iudicato”, ai sensi dell'art. 2953 c.c., con
decorrenza dalla data in cui la sentenza di condanna sia
divenuta irrevocabile (in tal senso, Cassazione, sent. n.
17949 del 2002; Cass., n. 8154 del 2003 e, più
recentemente, n. 4054 del 2009).
La notevole
riduzione del periodo utile alla prescrizione è
giustificato, nella relazione alla p.d.l., dal fatto che
si tratta di “situazioni nelle quali il pregiudizio
perde di intensità con il passare del tempo”.
Il comma 4 dell’art. 1 abroga
l’art. 12 della legge sulla stampa
che prevede, in caso di diffamazione commessa col mezzo
della stampa, la possibile richiesta da parte del
danneggiato - oltre al il risarcimento del danno - di una ulteriore
somma a titolo di riparazione.
Ai
sensi dell'art. 12 della legge n. 47 del 1948, la persona
offesa dal reato può richiedere, oltre al risarcimento
dei danni ai sensi dell'art. 185 c.p., comprensivo sia del
danno patrimoniale che del danno non patrimoniale, una
somma a titolo di riparazione che non rientra nel
risarcimento del danno né costituisce una duplicazione
delle voci di danno risarcibile, ma integra una ipotesi
eccezionale di pena pecuniaria privata prevista per legge,
che come tale può aggiungersi al risarcimento del danno
autonomamente liquidato in favore del danneggiato (Cassazione,
sez. III, 26 giugno 2007, n. 14761).
Il comma
5 dell’art. 1 riformula l’art. 13
della legge sulla stampa, escludendo che la
diffamazione a mezzo stampa consistente
nell’attribuzione di un fatto determinato, possa
essere sanzionata con pena detentiva.
Per il reato in questione è,
infatti, stabilita, al comma 1, la sola pena della multa,
da determinare tra i 5.000 e i 10.000 euro.
Attualmente, l’art. 13 della legge sulla stampa
prevede per la diffamazione a mezzo stampa consistente
nell’attribuzione di un fatto determinato la pena
congiunta della reclusione da 1 a 6 anni e la multa non
inferiore a 258 euro. Come detto, lo stesso reato (non
commesso a mezzo stampa) è, invece, sanzionato dal codice
penale (art. 595 c.p.) con la multa da 258 a 2.582 euro
ovvero nella permanenza domiciliare da 6 giorni a 30
giorni o nel lavoro di pubblica utilità per un periodo da
10 giorni a 3 mesi.
All’eventuale condanna del
giornalista consegue come pena accessoria la
pubblicazione della sentenza ex art. 36 c.p.; solo in
caso di recidiva del condannato, il giudice impone
l’ulteriore pena accessoria della sospensione
dalla professione per un periodo da 1 mese a 6
mesi. La relazione alla proposta di legge, sul punto,
giustifica la maggior severità per i recidivi “in
quanto la reiterazione del reato esclude la buona fede
dell’autore”.
In base al comma 3, è considerato causa
di esclusione della punibilità l’adempimento da
parte dell’autore dell’offesa degli obblighi di
pubblicazione di dichiarazioni e rettifiche previsti
dall’art. 8 della legge (spetterà comunque al giudice
la verifica del corretto adempimento della rettifica).
A seguito della condanna, il giudice
deve trasmettere gli atti all’ordine professionale ai
fini delle determinazioni relative alle sanzioni
disciplinari.
L’articolo 2 della proposta
di legge interviene sul codice penale modificando il
regime dei delitti contro l'onore, l'ingiuria, la
diffamazione e la diffamazione a mezzo stampa, in maniera
coerente rispetto alle scelte effettuate per il delitto di
diffamazione a mezzo stampa per fatto determinato.
Il comma 1 dell’art. 2
novella l’art. 57 c.p. concernente la responsabilità
dei direttori dei periodici in relazione ai contenuti
delle pubblicazioni; si tratta di responsabilità
colposa per omesso controllo sanzionata, in caso di
commissione di un reato, con la pena stabilita per tale
reato, diminuita fino ad un terzo.
L’art. 57
c.p. (Reati commessi col mezzo della stampa periodica)
sanziona a titolo di colpa, salva la responsabilità
dell'autore della pubblicazione e fuori dei casi di
concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile
che omette di esercitare sul contenuto del periodico da
lui diretto il controllo necessario ad impedire che col
mezzo della pubblicazione siano commessi reati; se un
reato è commesso, la pena a suo carico è quella
stabilita per tale reato, diminuita in misura non
eccedente un terzo.
Il contenuto dell’art. 57 è
riformulato ed adeguato, fin dalla rubrica, alle nuove
modalità (oltre alla stampa periodica) con cui possono
essere commessi i reati (ovvero diffusione radiotelevisiva
ed altri mezzi di diffusione), rafforza il nesso di
causalità tra i doveri di vigilanza del direttore e i
delitti commessi, rende obbligatorio per il giudice, in
caso di condanna del direttore, la riduzione di un terzo
della pena prevista per il delitto.
Codice penale vigente
|
Proposta di legge
|
Art. 57 (Reati commessi con il
mezzo della stampa periodica)
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Art.
57 (Reati commessi con il mezzo della stampa, della
diffusione radiotelevisiva o con altri mezzi di
diffusione)
|
Salva la responsabilità
dell'autore della pubblicazione e fuori dei casi di
concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile,
il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico
da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col
mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito,
a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena
stabilita per tale reato, diminuita in misura non
eccedente un terzo
|
Salva la responsabilità dell'autore
della pubblicazione, e fuori dei casi di concorso, il
direttore o il vicedirettore responsabile del
quotidiano, del periodico o della testata giornalistica,
radiofonica o televisiva, risponde dei delitti
commessi con il mezzo della stampa, della diffusione
radiotelevisiva o con altri mezzi di diffusione se il
delitto è conseguenza della violazione dei doveri di
vigilanza sul contenuto della pubblicazione. La pena è in
ogni caso ridotta di un terzo
|
Il
successivo comma 2 della norma in esame sostituisce
l’art. 594 c.p., relativo al delitto di
ingiuria.
L’ingiuria (art. 594
c.p.) – reato attribuito alla competenza del giudice di
pace - è l’illecito commesso da chi offende
l’onore e il decoro di una persona presente ed
è punito con la multa da 258 a 2.582 euro. Alla
stessa pena soggiace chi commette il reato con
comunicazioni telegrafiche, telefoniche, scritti, disegni
o altri mezzi rivolti alla persona offesa.
La stessa multa oppure la pena della permanenza
domiciliare da 6 giorni a 30 giorni o la pena del lavoro
di pubblica utilità per un periodo da 10 giorni a 3
mesi è prevista se l'offesa consiste nell'attribuzione
di un fatto determinato. L'offesa commessa in presenza
di più persone è considerata circostanza aggravante
(art. 64 c.p.) comportando, quindi, un aumento di pena
fino a un terzo.
Prima dell’attribuzione
dell’ingiuria alla competenza del giudice di pace
(con il D.Lgs. 274/2000), il reato era punito con la
reclusione fino a 6 mesi o con la multa fino a 516 euro;
analoga sanzione era applicata se il reato era commesso
con comunicazioni telegrafiche, telefoniche, scritti,
disegni, ecc. L’ingiuria aggravata dall’attribuzione
di un fatto determinato era invece punita con la
reclusione fino a un anno o la multa fino a 1.032 euro; il
reato commesso in presenza di più persone era, invece,
sanzionato con l’aumento di un terzo della pena.
Con il nuovo
art. 594 c.p. l’ingiuria (sia verbale
che commessa con altri mezzi) è sanzionabile con
sola pena pecuniaria della multa, fino a 5.000 euro
(primo comma).
La nuova disposizione raccoglie
insieme, nel terzo comma, con lo stesso aumento di pena le
attuali circostanze aggravanti dell’ingiuria ovvero
l’attribuzione di un fatto determinato nonché la sua
commissione in presenza di una pluralità di persone
(secondo e terzo comma vigenti) prevedendo, in tali
ipotesi, un aumento di pena (fino ad 1/3 ex art. 64
c.p.).
Codice penale vigente
|
Proposta di legge
|
Art. 594 (Ingiuria).
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Art. 594
(Ingiuria).
|
Chiunque offende l'onore o il
decoro di una persona presente è punito con la reclusione
fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516 (1).
Alla stessa pena soggiace chi
commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o
telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona
offesa (1).
La pena è della reclusione fino
a un anno o della multa fino a euro 1.032 se l'offesa
consiste nell'attribuzione di un fatto determinato (2).
Le pene sono aumentate qualora
l'offesa sia commessa in presenza di più persone
|
Chiunque offende l'onore o il
decoro di una persona presente è punito con la multa
fino a euro 5.000.
Alla stessa pena soggiace chi
commette il fatto mediante comunicazione telegrafica,
telefonica o telematica, o con scritti o disegni,
diretti alla persona offesa.
Le pene sono aumentate
qualora l'offesa consista nell'attribuzione di un fatto
determinato, ovvero sia commessa in presenza di più
persone.
|
1) Al reato previsto in questo
comma si applica, ora, la pena pecuniaria della multa
da euro 258 a euro 2.582, ai sensi di quanto disposto
dall'articolo 52, comma 2, lettera a), D.Lgs. 28 agosto
2000, n. 274.
2) Al reato previsto in questo
comma si applica, ora, la pena pecuniaria della multa
da euro 258 a euro 2.582 o la pena della permanenza
domiciliare da sei giorni a trenta giorni ovvero la pena
del lavoro di pubblica utilità da dieci giorni a tre mesi,
ai sensi di quanto disposto dall'articolo 52, comma 2,
lettera a), D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274.
Analogo intervento riguarda il reato
di diffamazione con la riformulazione dell’art.
595 del codice penale da cui è eliminata la
previsione della pena detentiva.
Il nuovo art. 595 sanziona la
diffamazione solo in via pecuniaria, con la multa da
1.500 a 6.000 euro (primo comma).
Cambiano le sanzioni al ricorso delle
aggravanti:
-
l’attribuzione di un fatto determinato aggrava
la pena pecuniaria fino ad un terzo, ex art. 64
c.p. (secondo comma);
-
la diffamazione a mezzo stampa o con
qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto
pubblico comporta una multa da 3.000 a 8.000 euro (terzo
comma).
Anche in relazione a tale
fattispecie, visto il rinvio all’art. 13, comma 3, della
legge sulla stampa, come riformulato (v. ante, art.
1, comma 5, p.d.l.), la pubblicazione da parte
dell’autore del reato di una completa rettifica del
giudizio o del contenuto diffamatorio costituisce causa
di non punibilità per l’autore della
diffamazione (quarto comma).
Alla recidiva nel reato di
diffamazione, come nella diffamazione a mezzo stampa di
cui all’art. 13 della legge 48/1947, consegue
l’applicazione della pena accessoria
dell’interdizione del condannato per un periodo da 1 a 6
mesi dalla professione di giornalista (quinto comma).
Codice penale vigente
|
Proposta di legge
|
Art. 595 (Diffamazione)
|
Art.
595 (Diffamazione)
|
Chiunque, fuori dei casi indicati
nell'articolo precedente, comunicando con più persone,
offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione
fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032 (1).
Se l'offesa consiste
nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è
della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino
a euro 2.065 (1).
Se l'offesa è recata col mezzo
della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità,
ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da
sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro
516.
Se l'offesa è recata a un Corpo
politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua
rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio,
le pene sono aumentate.
|
Chiunque, fuori dei casi indicati
nell'articolo 594, comunicando con più persone,
offende l'altrui reputazione, è punito con la multa da
euro 1.500 a euro 6.000.
La pena è aumentata se l'offesa
consiste nell'attribuzione di un fatto determinato.
Se l'offesa è arrecata con il
mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di
pubblicità, ovvero in atto pubblico, si applica la
pena della multa da euro 3.000 a euro 8.000.
Si applicano le disposizioni di
cui al comma 3 dell'articolo 13 della legge 8 febbraio
1948, n. 47, e successive modificazioni, nel caso in cui
l'autore dell'offesa pubblichi una completa rettifica del
giudizio o del contenuto lesivo dell'altrui reputazione.
Alla condanna consegue la pena
accessoria dell'interdizione dalla professione di
giornalista per un periodo da un mese a sei mesi, nelle
ipotesi di cui all'articolo 99, secondo comma.
Identico
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1) Al reato previsto in questo
comma si applica, ora, la pena pecuniaria della multa
da euro 258 a euro 2.582 o la pena della permanenza
domiciliare da sei giorni a trenta giorni ovvero la pena
del lavoro di pubblica utilità da dieci giorni a tre mesi,
ai sensi di quanto disposto dall'articolo 52, comma 2,
lettera a), D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274.
L’articolo 3 della p.d.l.
aggiunge un comma all’art. 427 del codice di procedura
penale, relativo alla condanna del querelante alle
spese e ai danni.
L’art. 427 c.p.p. prevede che,
nei reati a querela dell’offeso, con la sentenza di non
luogo a procedere perché il fatto non sussiste o
l'imputato non lo ha commesso il giudice condanna il
querelante al pagamento delle spese del procedimento
anticipate dallo Stato (comma 1). La ratio della
disposizione risiede nella dimostrazione della temerarietà
della querela.
In tali ipotesi, dietro domanda, il
giudice condanna inoltre il querelante alla rifusione
delle spese sostenute dall'imputato e, se il querelante si
è costituito parte civile, anche di quelle sostenute dal
responsabile civile citato o intervenuto; in presenza di
giusti motivi, le spese possono essere compensate in tutto
o in parte (comma 2).
Se vi è colpa grave, il giudice può
condannare il querelante a risarcire i danni all'imputato
e al responsabile civile che ne abbiano fatto domanda
(comma 3).
Il comma aggiuntivo 3-bis
prevede che il giudice possa irrogare al querelante una sanzione
pecuniaria da 1.000 a 10.000 euro in caso di querela
temeraria, in favore della cassa delle ammende.
Si legge nella relazione illustrativa
che si “tratta di una norma che potrebbe sembrare
ultronea rispetto al contenuto della proposta di legge, ma
che in realtà è connessa alla ratio del
provvedimento. Infatti, essa è volta a ridurre il rischio
di querele presentate solamente come forma di pressione
psicologica in vista di un risarcimento civile, fenomeno
che vede proprio i giornalisti come le principali
vittime”.
La proposta di legge C 4714
(Genovese)
L’articolo unico della proposta
propone una nuovo formulazione dell’art. 57 del codice
penale. La norma, come accennato, concerne i reati
commessi col mezzo della stampa periodica per la cui
responsabilità di natura omissiva è chiamato in causa il
direttore responsabile della testata (o il suo vice).
Più precisamente, la norma punisce l’omissione
di controllo sui contenuti della pubblicazione
costituente reato; si tratta di omissione colposa
in quanto l’omissione dolosa risulterebbe punibile a
titolo di concorso nel reato ex art. 110 del codice
penale. Al direttore responsabile del periodico il
legislatore attribuisce, quindi, un reato autonomo
punibile a titolo di colpa, consistente non in forme
generiche di negligenza, imprudenza o imperizia, bensì
nell'inosservanza di una specifica regola di condotta,
vale a dire nel mancato esercizio sul contenuto del
periodico del controllo necessario ad impedire che col
mezzo della pubblicazione siano commessi reati.
Come ricordato dalla relazione al provvedimento in esame, tale
responsabilità colposa non è attribuibile ai direttori
dei giornali telematici (Cass. sent. n. 35511 del
2010). Opinione confermata dalla Suprema Corte “sia
per l'impossibilità di ricomprendere detta attività
on-line nel concetto di stampa periodica, sia per
l'impossibilità per il direttore della testata on-line di
impedire le pubblicazioni di contenuti diffamatori
'postate’ direttamente dall'utenza” (Cass., sent. n.
44126 del 2011).
Il testo a fronte che segue evidenzia
le novità introdotte nel testo dell’art. 57 del codice
penale.
Codice penale vigente
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Proposta di legge
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Art. 57 c.p. (Reati commessi con il mezzo della stampa periodica).
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Art. 57 c.p. (Reati commessi con il mezzo della stampa periodica).
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Salva la responsabilità
dell'autore della pubblicazione e fuori dei casi di
concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile,
il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico
da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col
mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito,
a titolo di colpa, se un reato è commesso,
con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura
non eccedente un terzo.
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Salva la responsabilità
dell’autore della pubblicazione e fuori dei casi di
concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile,
il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico
da lui diretto il controllo necessario a impedire che con
il mezzo della pubblicazione siano commessi reati è
punito, se un reato è commesso, con la multa non
inferiore a euro 5.000.
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L’articolo unico della
p.d.l. 4714 detta quindi una riformulazione dell’art. 57
c.p. che, in particolare, elimina la
possibilità dell’applicazione della pena
detentiva prevedendo a carico del direttore
responsabile la sola pena pecuniaria della
multa non inferiore a 5.000 euro.
Va, inoltre, segnalata nel nuovo
testo dell’art. 57 la soppressione dell’inciso “a
titolo di colpa”.
Ai sensi dell’art. 43 c.p. il delitto è colposo, o contro
l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è
voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o
imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini o discipline. Una parte della
dottrina, ora minoritaria, sostiene che l’inciso “a
titolo di colpa” si riferirebbe non al fondamento della
responsabilità, cioè alla colpa come elemento
strutturale della fattispecie, bensì alla disciplina del
fatto “come se fosse colposo” cosicchè
l’art. 57 integrerebbe un’ipotesi di responsabilità
oggettiva (Pisapia). Dottrina e giurisprudenza prevalenti,
invece, ritengono il reato di cui all’art. 57 “colposo
a tutti gli effetti” (Grosso, Fiandaca-Musco,
Padovani)
Occorre considerare, una volta
esclusa la fattispecie di responsabilità oggettiva, quale
sia l’effetto della soppressione dell’inciso “a
titolo di colpa”.
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