SENTENZA N. 284
ANNO 2002
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Cesare RUPERTO Presidente
- Massimo VARI Giudice
- Riccardo CHIEPPA "
- Gustavo ZAGREBELSKY "
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli
artt. 1, 10 e 25 del regio decreto legge 21 febbraio
1938, n. 246, recante la "Disciplina degli
abbonamenti alle radioaudizioni", convertito
dalla legge 4 giugno 1938, n. 880; e degli artt. 15 e
16 della legge 14 aprile 1975, n. 103, recante
"Nuove norme in materia di diffusione radiofonica
e televisiva", "e norme ivi citate",
promosso con ordinanza emessa l’11 maggio 2001 dal
Tribunale di Milano, iscritta al n. 780 del registro
ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno
2001.
Visti gli atti di intervento della
RAI-Radiotelevisione Italiana s.p.a. e del Presidente
del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 7 maggio 2002 il
Giudice relatore Valerio Onida;
uditi gli avvocati Massimo Luciani e Filippo Satta
per la RAI-Radiotelevisione Italiana s.p.a. e l’avvocato
dello Stato Ivo M. Braguglia per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
2.– La RAI, Radio Televisione Italiana s.p.a., ha
depositato un atto difensivo, chiedendo di dichiarare
ammissibile il suo intervento nel giudizio
incidentale, in quanto, pur non essendo essa parte nel
giudizio principale, sarebbe tuttavia titolare di un
interesse giuridicamente qualificato e differenziato,
che potrebbe essere compromesso o soddisfatto dall’esito
dell’incidente di legittimità costituzionale.
In proposito la RAI ricorda innanzitutto le
considerazioni svolte nella sentenza n. 31 del 2000,
che superavano l’interpretazione letterale del dato
normativo, in ordine all’accesso al giudizio di
ammissibilità del referendum abrogativo di soggetti
ulteriori rispetto ai promotori, ed osserva che anche
il giudizio incidentale di legittimità
costituzionale, pur essendo sovente destinato ad
incidere sulle situazioni soggettive dei singoli, si
connota come un controllo di diritto oggettivo sulla
costituzionalità delle norme censurate, sicchè,
anche se nel giudizio possono esservi parti, esso non
concerne le situazioni giuridiche delle parti, ma le
norme nella loro oggettività. Richiama poi le
decisioni di questa Corte che hanno "aperto"
l’accesso al giudizio incidentale a soggetti diversi
dalle parti nel giudizio principale, nei casi in cui l’interesse
che si vuol far valere sia giuridicamente qualificato,
differenziato e protetto (viene citata, tra le altre
decisioni, la sentenza n. 178 del 1996, che ammise l’intervento
della Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova
nel giudizio relativo alla previsione della
indeducibilità ai fini IRPEF delle elargizioni
liberali da parte dei fedeli, in quanto, pur essendo
estranea al giudizio tributario a quo, "essa é
portatrice di un interesse specificatamente proprio e
qualificato per il fatto di essere destinataria della
elargizione liberale della cui deducibilità si
discute nel giudizio a quo"). Nella specie,
infatti, la società interveniente assume di essere
titolare di un interesse diretto ed individualizzato
– che non potrebbe far valere in sede diversa –
perchè principale destinataria delle somme ricavate
dai versamenti del canone di abbonamento, ai sensi
dell’art. 27, comma 8, della legge 23 dicembre 1999,
n. 488 ("Il canone di abbonamento alle
radioaudizioni circolari e alla televisione é
attribuito per intero alla concessionaria del servizio
pubblico radiotelevisivo, ad eccezione della quota
già spettante all’Accademia di Santa
Cecilia"), e di un interesse specificamente
proprio, in quanto l’esito del presente giudizio
avrebbe effetti diretti sui suoi diritti patrimoniali.
L’Amministrazione finanziaria, competente alla
riscossione coattiva del canone, provvede a
corrispondere "le quote dei canoni di abbonamento
spettanti alla concessionaria … sulla base delle
previsioni complessive di entrata del bilancio dello
Stato e delle riscossioni effettuate, mediante acconti
trimestrali posticipati e salvo conguaglio alla fine
di ciascun anno finanziario" (art. 31 del d.P.R.
8 febbraio 2001, recante l’approvazione del
contratto di servizio tra il Ministero delle
comunicazioni e la RAI), mentre la RAI si limita a
formare gli elenchi dei soggetti tenuti a
corrispondere il canone. L’interveniente, quindi,
pur essendo rimasta estranea al giudizio a quo,
vedrebbe gravemente incisa la propria posizione dall’accoglimento
dell’opposizione proposta in detto giudizio, che
conseguirebbe all’accoglimento della presente
questione, sicchè – sostiene – deve far valere le
proprie ragioni nel giudizio di legittimità
costituzionale.
Passando all’esame della questione, la difesa
della RAI ne eccepisce l’inammissibilità per
difetto di motivazione sulla rilevanza e, nel merito,
l’infondatezza.
Non vi sarebbe dunque spazio per una dichiarazione
di illegittimità costituzionale fondata sulla
irragionevolezza della attribuzione alla RAI dei
proventi del canone, in quanto le disposizioni
costitutive della obbligazione non assumono a causa
giustificatrice il finanziamento del servizio pubblico
radiotelevisivo, ma la polizia e l’amministrazione
dell’etere, su cui lo Stato é sovrano (viene
richiamata, in proposito, la sentenza di questa Corte
n. 535 del 1988). Nell’ordinanza di rimessione,
precisa la RAI, si sovrapporrebbero i due piani dell’imposizione
del tributo e delle sue ragioni giustificatrici, e
della destinazione dei relativi proventi, mentre le
censure, di sapore prettamente politico, riferite al
secondo profilo, area di piena discrezionalità
amministrativa, verrebbero utilizzate per colpire il
primo di essi.
Nel giudizio a quo, in ogni caso, non troverebbero
applicazione le norme sulla ripartizione dei proventi
del canone, sicchè la relativa questione, adombrata
in apertura dell’ordinanza – l’asserita
discriminazione dei soggetti tenuti al pagamento del
canone in ragione della corresponsione dei proventi
alla sola RAI e non già a tutti i concessionari
esercenti attività radiotelevisiva −, sarebbe
inammissibile per irrilevanza.
Quanto all’argomento, invero non formulato come
profilo di incostituzionalità, relativo alla
disparità di trattamento rispetto ai possessori di
altro apparecchio, come un elaboratore elettronico
munito di apposita scheda, esso sarebbe privo di
fondamento, in quanto anche tali apparecchi integrano
il presupposto dell’obbligazione tributaria in
discorso, a norma dell’art. 1 del r.d.l. n. 246 del
1938, formulato in modo conforme al canone di
eguaglianza e di non discriminazione.
Nella seconda parte dell’atto, la difesa della
RAI replica alle argomentazioni dell’ordinanza di
rimessione intese ad equiparare la stessa RAI agli
altri concessionari radiotelevisivi per destituire di
fondamento il canone, compiendo un ampio excursus
sulla storia giuridica delle radioaudizioni nel nostro
Paese, a partire dalla legge 30 giugno 1910, n. 395,
con la quale lo Stato riservò a se medesimo l’impiego
delle onde hertziane ai fini, tra l’altro, di
radiodiffusione, con facoltà di accordare l’esercizio
delle relative attività a soggetti pubblici o privati
mediante concessioni o licenze, e poi dal r.d. 14
dicembre 1924, n. 2191, istitutivo del servizio,
affidato in concessione alla società URI, concessione
cui accedeva una convenzione contenente prescrizioni
relative al contenuto dei programmi e agli altri
obblighi gravanti sulla concessionaria: già allora il
fondamento del servizio pubblico delle radioaudizioni
si rinveniva nel "suo carattere di pubblica
utilità in relazione agli scopi, cui esso risponde,
di ordine educativo, artistico e culturale che
interessino la generalità dei cittadini". Con l’entrata
in vigore della Costituzione repubblicana, il servizio
pubblico radiotelevisivo avrebbe trovato in essa
diretto fondamento, e quel che prima era frutto di
scelta legislativa sarebbe divenuto "atto
necessario", come avvertito da questa Corte già
dalla sentenza n. 59 del 1960, e quindi, dopo l’apertura
del settore radiotelevisivo ai soggetti privati
(infine con la legge n. 223 del 1990), con la sentenza
n. 826 del 1998.
Infine, sarebbe inesistente la questione relativa
alle modalità di disdetta del canone, di cui all’art.
10 del r.d.l. n. 246 del 1938, essendo menzionata la
disposizione, non applicabile nel giudizio a quo, solo
nell’incipit dell’ordinanza, cui non segue alcuna
motivazione. Tale questione, in ogni caso, sarebbe
infondata, considerata la non onerosità delle
formalità prescritte dalla norma.
5. – Con ordinanza allegata, letta in udienza, l’intervento
della RAI-Radiotelevisione Italiana s.p.a. é stato
dichiarato ammissibile.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale di Milano solleva questione di
legittimità costituzionale, in riferimento agli
articoli 2, 3, 9 e 21 della Costituzione, degli
articoli 1, 10 e 25 del regio decreto legge 21
febbraio 1938, n. 246 (Disciplina degli abbonamenti
alle radioaudizioni), convertito dalla legge 4 giugno
1938, n. 880, "e successive integrazioni e
modificazioni", nonchè degli articoli 15 e 16
della legge 14 aprile 1975, n. 103 (Nuove norme in
materia di diffusione radiofonica e televisiva),
"e norme ivi citate".
Il r.d.l. n. 246 del 1938 contiene la disciplina,
tuttora in vigore, del canone di abbonamento alle
radioaudizioni e alla televisione. In particolare, l’art.
1, primo comma, del decreto detta la norma
fondamentale in materia, secondo cui "chiunque
detenga uno o più apparecchi atti o adattabili alla
ricezione delle radioaudizioni é obbligato al
pagamento del canone di abbonamento". L’art. 10
detta le condizioni e le procedure attraverso le quali
chi non intenda o non possa più usufruire delle
radioaudizioni circolari pur continuando a detenere l’apparecchio,
ovvero intenda cedere l’apparecchio, può ottenere
di essere dispensato dal pagamento del canone. L’art.
25 disciplina la riscossione e il versamento dei
canoni e delle relative sopratasse e pene pecuniarie.
Le tre disposizioni impugnate sono vigenti nel loro
testo originario, non avendo subito alcuna
modificazione o integrazione.
A sua volta, l’art. 15 della legge n. 103 del
1975 stabilisce fra l’altro che "il fabbisogno
finanziario per una efficiente ed economica gestione
dei servizi di cui all’articolo 1" – vale a
dire il servizio pubblico di "diffusione
circolare di programmi radiofonici via etere o, su
scala nazionale, via filo e di programmi televisivi
via etere, o, su scala nazionale, via cavo e con
qualsiasi altro mezzo" – "é coperto con i
canoni di abbonamento alle radioaudizioni ed alla
televisione di cui al r.d.l. 21 febbraio 1938, n.
246", nonchè con i proventi della pubblicità e
con altre entrate (primo comma); e precisa che
"il canone di abbonamento e la tassa di
concessione governativa, di cui al n. 125 della
tariffa annessa al d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641,
sono dovuti anche dai detentori di apparecchi atti o
adattabili alla ricezione di trasmissioni sonore o
televisive via cavo o provenienti dall’estero"
(secondo comma), e che "la misura dei canoni é
determinata secondo le norme dell’articolo 4 del
d.lgs.lgt. 19 ottobre 1944, n. 347" (terzo comma:
vale a dire dal Comitato interministeriale dei prezzi,
con provvedimento emanato "dai ministri
competenti").
Questo complesso normativo é ritenuto dal giudice
remittente in contrasto con i citati principi
costituzionali, essenzialmente sotto il profilo che,
essendo – a suo giudizio – presupposto dell’imposizione
del canone il cosiddetto "dominio dell’etere"
da parte dello Stato, il quale assegna alle emittenti
le bande di frequenza, non sarebbe oggi più
giustificabile, e risulterebbe irragionevole, tale
imposizione, collegata al semplice possesso dell’apparecchio,
indipendentemente dalla effettiva fruizione dei
servizi, e a favore del solo concessionario del
"servizio pubblico", cioé della
RAI-Radiotelevisione italiana: ciò sia perchè si
imporrebbe ai cittadini un onere economico per la
fruizione di un diritto la cui realizzazione
rientrerebbe per dettato costituzionale fra i compiti
primari della Repubblica, sia perchè, caduto il
monopolio statale delle trasmissioni radiotelevisive,
il servizio reso dalla RAI non si differenzierebbe da
quello "offerto al pubblico" dalle emittenti
radiotelevisive private. Il sistema vigente creerebbe
poi una disparità di trattamento fra chi riceve le
trasmissioni televisive attraverso l’apparecchio
televisivo e chi le ricevesse invece con altri mezzi
tecnici (scheda adattata al computer) o non le
ricevesse affatto.
2.– La questione non é fondata.
Il cosiddetto canone di abbonamento alle
radioaudizioni e alla televisione, benchè all’origine
apparisse configurato come corrispettivo dovuto dagli
utenti del servizio riservato allo Stato ed esercitato
in regime di concessione, ha da tempo assunto, nella
legislazione, natura di prestazione tributaria,
fondata sulla legge, come questa Corte riconobbe
quando dichiarò non fondati i dubbi di legittimità
costituzionale prospettati sotto il profilo della
pretesa incompatibilità della tutela penale, allora
apprestata in relazione all’adempimento del relativo
obbligo, con l’asserita natura contrattuale del
rapporto fra l’utente e la concessionaria (sentenza
n. 81 del 1963). E se in un primo tempo sembrava
prevalere la configurazione del canone come
"tassa", collegata alla fruizione del
servizio, in seguito lo si é piuttosto riconosciuto
come imposta, facendo leva sulla previsione
legislativa dell’art. 15, secondo comma, della legge
n. 103 del 1975, secondo cui il canone é dovuto anche
per la detenzione di apparecchi atti alla ricezione di
programmi via cavo o provenienti dall’estero
(sentenza n. 535 del 1988).
Sul piano costituzionale, ciò comporta che la
legittimità dell’imposizione debba misurarsi non
più in relazione alla possibilità effettiva per il
singolo utente di usufruire del servizio pubblico
radiotelevisivo, al cui finanziamento il canone é
destinato, ma sul presupposto della sua
riconducibilità ad una manifestazione,
ragionevolmente individuata, di capacità
contributiva. Ed é sotto tale profilo che questa
Corte, chiamata a pronunciarsi in riferimento all’art.
53 della Costituzione, dichiarò non fondate le
relative questioni, aventi ad oggetto gli articoli 1,
10 e 25 del r.d.l. n. 246 del 1938, ritenendo che l’indice
di capacità contributiva consistente nella mera
detenzione di un apparecchio radiotelevisivo non
potesse considerarsi irragionevole (ordinanze n. 219 e
n. 499 del 1989).
3.– L’odierno remittente, nell’impugnare
ancora una volta le stesse norme, non ripropone però
questo profilo schiettamente tributario della
questione, ma piuttosto contesta la legittimità dell’imposizione
ritenendola irragionevole, e in contrasto con i
principi costituzionali in tema di promozione dello
sviluppo della cultura e di libertà di manifestazione
del pensiero, in quanto destinata quasi per intero al
finanziamento della concessionaria del servizio
pubblico radiotelevisivo, la cui attività non sarebbe
più dato di distinguere da quella degli altri
concessionari, privati, di reti ed emittenti
televisive. Se la diffusione di programmi
radiotelevisivi – così ragiona il giudice a quo –
costituisce un servizio pubblico essenziale a
carattere di preminente interesse generale, avente la
finalità di ampliare la partecipazione dei cittadini
e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del
Paese, come si esprime l’art. 1 della legge n. 103
del 1975, non si giustificherebbe l’imposizione di
un onere economico a carico degli utenti, e comunque
non si giustificherebbe l’obbligo di corrispondere
il canone a favore della sola concessionaria del
servizio pubblico radiotelevisivo, poichè questa,
oggi, non svolgerebbe una funzione diversa da quella
di tutti gli altri concessionari, una volta venuta
meno l’esclusiva del servizio a favore della RAI
medesima.
E’ però evidente, in primo luogo, come non vi
sia alcuna incompatibilità fra il carattere di
interesse generale del servizio pubblico
radiotelevisivo e l’imposizione di una prestazione
economica, nella specie collegata alla detenzione
degli apparecchi radiotelevisivi, diretta a finanziare
detto servizio. Al contrario, proprio l’interesse
generale che sorregge l’erogazione del servizio
pubblico può richiedere una forma di finanziamento
fondata sul ricorso allo strumento fiscale. Il canone
radiotelevisivo costituisce in sostanza un’imposta
di scopo, destinato come esso é, quasi per intero (a
parte la modesta quota ancora assegnata all’Accademia
nazionale di Santa Cecilia), alla concessionaria del
servizio pubblico radiotelevisivo (art. 27, comma 8,
della legge 23 dicembre 1999, n. 488).
4.– La censura mossa nell’ordinanza di
rimessione si regge dunque, in definitiva,
essenzialmente sull’assunto secondo cui, venuto meno
il regime di monopolio pubblico delle emissioni
televisive anche a carattere nazionale, sarebbe
irragionevole la imposizione di un canone destinato
alla sola concessionaria RAI.
Ma questo assunto muove da un equivoco. Il venir
meno del monopolio statale delle emissioni televisive
– dapprima, a seguito di pronunce di questa Corte,
con riguardo alle trasmissioni provenienti dall’estero
(sentenza n. 225 del 1974) e con riguardo alle
trasmissioni in ambito locale (sentenze n. 226 del
1974 e n. 202 del 1976), quindi, per scelta del
legislatore, anche con riguardo alle trasmissioni via
etere in ambito nazionale, prima in via transitoria
(d.l. 6 dicembre 1984, n. 807), poi in via definitiva
(legge 6 agosto 1990, n. 223) – non ha fatto venir
meno l’esistenza e la giustificazione costituzionale
dello specifico "servizio pubblico
radiotelevisivo" esercitato da un apposito
concessionario rientrante, per struttura e modo di
formazione degli organi di indirizzo e di gestione,
nella sfera pubblica.
Il remittente cita l’art. 1 della legge n. 103
del 1975, che definiva la diffusione circolare di
programmi televisivi via etere come un "servizio
pubblico essenziale ed a carattere di preminente
interesse generale, in quanto volta ad ampliare la
partecipazione dei cittadini e concorrere allo
sviluppo sociale e culturale del Paese in conformità
ai principi sanciti dalla Costituzione", servizio
riservato per questo allo Stato; e indicava l’indipendenza,
l’obiettività e l’apertura alle diverse tendenze
politiche, sociali e culturali, nel rispetto delle
libertà garantite dalla Costituzione, come
"principi fondamentali della disciplina del
servizio pubblico radiotelevisivo". Ma quella
legge disciplinava un sistema che, all’epoca, era
ancora di monopolio statale delle emissioni televisive
di ambito nazionale. Oggi si deve fare riferimento all’art.
1 della legge n. 223 del 1990, che da un lato conferma
il "carattere di preminente interesse
generale" della diffusione di programmi
radiofonici o televisivi (comma 1), e conferma che il
pluralismo, l’obiettività, la completezza e l’imparzialità
dell’informazione, nonchè l’apertura alle diverse
opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali e
religiose, nel rispetto delle libertà e dei diritti
garantiti dalla Costituzione, rappresentano "i
principi fondamentali del sistema
radiotelevisivo" (comma 2); ma dall’altro lato
stabilisce che tale sistema "si realizza con il
concorso di soggetti pubblici e privati" (ancora
comma 2).
Fermi dunque i principi comuni che debbono
informare il sistema, la legge del 1990 fa una netta
distinzione fra il "servizio pubblico
radiotelevisivo", che é "affidato mediante
concessione ad una società per azioni" (oggi non
più a totale partecipazione pubblica:" art. 2,
comma 2), e la radiodiffusione di programmi
radiofonici e televisivi che "può essere
affidata mediante concessione" a soggetti privati
"diversi dalla concessionaria pubblica"
(art. 2, comma 1, e art. 16, comma 1), realizzando
così quel "concorso di soggetti pubblici e
privati" di cui é parola nell’art. 1, comma 2,
della legge.
L’esistenza di un servizio radiotelevisivo
pubblico, cioé promosso e organizzato dallo Stato,
non più a titolo di monopolista legale della
diffusione di programmi televisivi, ma nell’ambito
di un sistema misto pubblico-privato, si giustifica
però solo in quanto chi esercita tale servizio sia
tenuto ad operare non come uno qualsiasi dei soggetti
del limitato pluralismo di emittenti, nel rispetto, da
tutti dovuto, dei principi generali del sistema (cfr.,
in proposito, la sentenza n. 155 del 2002), bensì
svolgendo una funzione specifica per il miglior
soddisfacimento del diritto dei cittadini all’informazione
e per la diffusione della cultura, col fine di
"ampliare la partecipazione dei cittadini e
concorrere allo sviluppo sociale e culturale del
Paese", come si esprime il citato art. 1 della
legge n. 103 del 1975. Di qui la necessità che la
concessione preveda specifici obblighi di servizio
pubblico (si vedano, oggi, la convenzione approvata
con il d.P.R. 28 marzo 1994, e il contratto di
servizio per il triennio 2000-2002 approvato con il
d.P.R. 8 febbraio 2001) e imponga alla concessionaria
l’obbligo di assicurare una informazione completa,
di adeguato livello professionale e rigorosamente
imparziale nel riflettere il dibattito fra i diversi
orientamenti politici che si confrontano nel Paese,
nonchè di curare la specifica funzione di promozione
culturale ad essa affidata e l’apertura dei
programmi alle più significative realtà culturali.
In questa prospettiva si giustifica l’esistenza
di una forma di finanziamento, sia pure non esclusiva,
del servizio pubblico mediante ricorso all’imposizione
tributaria, e nella specie all’imposizione del
canone. L’altra maggiore fonte di finanziamento
della diffusione di programmi radiotelevisivi
liberamente accessibili (al di fuori dunque delle
forme di televisione a pagamento) é infatti la
raccolta pubblicitaria, la quale a sua volta, oltre
che dai limiti imposti dalla legge a tutela degli
utenti e degli altri mezzi di comunicazione, e dalle
libere scelte degli operatori del settore e degli
inserzionisti, é di fatto condizionata dalla
quantità degli ascolti. Il finanziamento parziale
mediante il canone consente, e per altro verso impone,
al soggetto che svolge il servizio pubblico di
adempiere agli obblighi particolari ad esso connessi,
sostenendo i relativi oneri, e, più in generale, di
adeguare la tipologia e la qualità della propria
programmazione alle specifiche finalità di tale
servizio, non piegandole alle sole esigenze
quantitative dell’ascolto e della raccolta
pubblicitaria, e non omologando le proprie scelte di
programmazione a quelle proprie dei soggetti privati
che operano nel ristretto e imperfetto
"mercato" radiotelevisivo.
E’ questa caratteristica del servizio pubblico
radiotelevisivo, chiaramente ricavabile dal sistema
normativo, che offre fondamento di ragionevolezza alla
scelta legislativa di imposizione del canone destinato
a finanziare tale servizio: mentre esulano,
evidentemente, dall’ambito della questione proposta
le valutazioni circa l’adeguatezza in concreto dell’attività
svolta alla natura dei compiti affidati al servizio
pubblico.
5.– Il giudice a quo, pur ricordando che l’eccezione
di legittimità costituzionale sollevata dalla parte
ricorrente concerneva inizialmente le modalità
imposte dall’art. 10 del r.d.l. n. 246 del 1938 al
possessore di apparecchio che intenda liberarsi dall’obbligo
di pagare il canone, non sviluppa poi specifiche
censure a questo proposito.
Egli lamenta bensì il fatto che l’obbligo
colpisca l’utente per il solo fatto di possedere un
apparecchio potenzialmente atto a ricevere le
trasmissioni della concessionaria del servizio
pubblico, "e, per assurdo, anche nel caso che la
ricezione risulti, di fatto, impossibile". Ma il
collegamento dell’obbligo di pagare il canone alla
semplice detenzione dell’apparecchio, atto o
adattabile alla ricezione anche solo di trasmissioni
via cavo o provenienti dall’estero (art. 15, secondo
comma, della legge n. 103 del 1975: e cfr., per la
sottolineatura del rilievo di questa norma, la
sentenza n. 535 del 1988), indipendentemente dalla
possibilità e dalla volontà di fruire dei programmi
della concessionaria del servizio pubblico, discende
dalla natura di imposta impressa al canone, che
esclude ogni nesso di necessaria corrispettività in
concreto fra obbligo tributario e fruizione effettiva
del servizio pubblico. E dunque anche sotto questo
profilo la questione, riferita all’art. 3 della
Costituzione, si palesa infondata, per le stesse
ragioni già enunciate da questa Corte, sia pure con
riguardo ad una questione allora sollevata in
riferimento al solo art. 53 della Costituzione, nelle
citate ordinanze n. 219 e n. 499 del 1989.
Parimenti non é fondata la censura di disparità
di trattamento tra chi riceva le trasmissioni
televisive attraverso la normale televisione e chi
eventualmente le riceva con altri mezzi, o non le
riceva affatto. Ancora una volta, ciò che viene in
rilievo, come presupposto dell’imposizione, é la
detenzione degli apparecchi (ed é questione di mera
interpretazione della legge stabilire quali siano tali
apparecchi), non rilevando, ai fini della
costituzionalità di tale imposizione, la circostanza
che l’utente riceva o meno le trasmissioni del
servizio pubblico. E la scelta legislativa
discrezionale di fondare l’imposizione
(genericamente) sulla detenzione di apparecchi atti o
adattabili alla ricezione di trasmissioni
radiotelevisive non appare irragionevole.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale degli articoli 1, 10 e 25 del regio
decreto legge 21 febbraio 1938, n. 246 (Disciplina
degli abbonamenti alle radioaudizioni), convertito
dalla legge 4 giugno 1938, n. 880, e degli articoli 15
e 16 della legge 14 aprile 1975, n. 103 (Nuove norme
in materia di diffusione radiofonica e televisiva),
"e norme ivi citate", sollevata, in
riferimento agli articoli 2, 3, 9 e 21 della
Costituzione, dal Tribunale di Milano con l’ordinanza
in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno
2002.
Cesare RUPERTO, Presidente
Valerio ONIDA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 26 giugno 2002.
Allegato:
ordinanza letta all’udienza del 7 maggio 2002
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