REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. TOMASO PERASSI, Presidente
Avv. GIUSEPPE CAPPI
Prof. GASPARE AMBROSINI
Dott. MARIO COSATTI
Prof. FRANCESCO PANTALEO GABRIELI
Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO
Prof. ANTONINO PAPALDO
Prof. NICOLA JAEGER
Prof. GIOVANNI CASSANDRO
Prof. BIAGIO PETROCELLI
Dott. ANTONIO MANCA
Prof. ALDO SANDULLI
Prof. GIUSEPPE BRANCA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale
degli artt. 1 e 168, n. 5, del Codice postale
approvato con R. D. 27 febbraio 1936, n. 645, promossi
con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 15 luglio 1959 dal Consiglio di
Stato in s. g. , Sez. VI, sul ricorso della Società
"Il Tempo-TV" contro il Ministero delle
poste e delle telecomunicazioni e la
RAI-Radiotelevisione italiana s. p. a, iscritta al n.
92 del Registro ordinanze 1959 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 220 del 12
settembre 1959;
2) ordinanza emessa il 13 maggio 1960 dal Giudice
istruttore del Tribunale di Milano nel procedimento
penale a carico di Figari Gianvittorio, Mazzoldi Luigi
Carlo, Volonteri Attilio e De Marsico Francesco,
iscritta al n. 61 del Registro ordinanze 1960 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 131 del 28 maggio 1960.
Viste le dichiarazioni di intervento del Presidente
del Consiglio dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica del 23 giugno 1960 la
relazione del Giudice Aldo Sandulli,
uditi gli avvocati Antonio Sorrentino e Costantino
Mortati, per "Il Tempo-TV", Giorgio Vigevani
e Carlo Arturo Jemolo, per Figari Gianvittorio, Aldo
Dedin, Paolo Greco ed Egidio Tosato, per la RAI, ed il
sostituto avvocato generale dello Stato Raffaello
Bronzini, per il Ministero delle poste e delle
telecomunicazioni e per il Presidente del Consiglio
dei Ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Con istanza 19 dicembre 1956 la Società "II
Tempo-TV" chiedeva al Ministero delle poste e
delle telecomunicazioni "l'assenso di
massima" per la realizzazione di un servizio di
radiodiffusione televisiva, basato economicamente sui
proventi della pubblicità, da attuare nelle Regioni
del Lazio, della Campania e della Toscana, con
eventuale successiva estensione ad altre regioni.
Dichiarava la Società di voler realizzare tale
programma provvedendo alla costruzione di impianti
trasmittenti, studi di ripresa e ponti-radio mobili
per trasmissioni esterne; di volersi conformare alle
vigenti norme sulla stampa e sulla materia oggetto di
pubblici spettacoli; di voler evitare ogni disturbo
alle trasmissioni di altri servizi, "assumendo
l'obbligo di rispettare tutte le disposizioni
nazionali ed internazionali, legislative e
regolamentari, riguardanti le
radiocomunicazioni". Al fine di "evitare
interferenze con le preesistenti stazioni TV
italiane" (le quali, come é noto, si avvalgono
attualmente di frequenze della gamma VHF), dichiarava
inoltre di intendere utilizzare frequenze della gamma
UHF. Pertanto, chiedeva la riserva in proprio favore
dell'uso di "sei canali TV della banda assegnata
alla radiodiffusione, al di sopra del 470 Mc/s, dalla
convenzione di Atlantic City, canali da scegliersi
opportunamente per garantire la migliore possibile
efficienza delle trasmissioni"; sollecitava
"la indicazione dei criteri tecnici
fondamentali" cui uniformare i programmi in corso
di studio; si riservava di presentare all'approvazione
del Ministero i progetti dettagliati. Con successiva
istanza 19 febbraio 1957 "precisava e
richiedeva", per l'attuazione del suo programma,
dieci canali TV della banda in precedenza indicata,
compresi tra 470 e 547 Mc/s.
Con nota 8 marzo 1957 il Ministero rispondeva che,
siccome in base agli artt. 1 e 168, n. 5, del Codice
postale e delle telecomunicazioni, aveva concesso in
esclusiva alla RAI- Radiotelevisione italiana, fin dal
1952, l'esercizio dei "servizi di radiodiffusione
e di televisione", non poteva "prendere in
considerazione nuove richieste di concessioni per lo
stesso servizio".
Con ricorso notificato il 18 aprile 1957, tale
risposta fu impugnata dalla richiedente innanzi al
Consiglio di Stato, sotto il profilo della
insussistenza, nel vigente ordinamento, di un
monopolio statale del servizio della televisione, e,
subordinatamente, sotto il profilo della
illegittimità costituzionale di tale monopolio, per
eccesso del R.D. 27 febbraio 1936, n. 645 (che
approvava il Codice postale), rispetto alla legge di
delegazione 13 aprile 1933, n. 336, nonché per
contrasto con gli artt. 21, 33 e 41 della
Costituzione.
2. - II Consiglio di Stato, Sez. VI, con decisione
interlocutoria parziale 15 luglio 1959, n. 504,
dichiarava infondato il motivo basato sulla
insussistenza del monopolio statale. Con ordinanza di
pari data n. 505 dichiarava manifestamente infondata
la questione di costituzionalità relativa
all'esorbitanza del Codice postale dai limiti della
delega, e rimetteva a questa Corte - previa
affermazione della rilevanza ai fini del decidere - le
sole questioni relative alla compatibilità con gli
artt. 21, 33 e 41 Cost. ("anche in rapporto
all'art. 43") degli artt. 168, n. 5, e 1 del
Codice postale e delle telecomunicazioni (relativi al
monopolio statale), "per la parte in cui
concernono la televisione".
In relazione all'art. 21 Cost., si osserva nella
ordinanza che "non pare... evidentemente priva di
qualsiasi attendibilità" l'affermazione della
ricorrente, secondo cui tale articolo assicurerebbe ai
particolari, tra l'altro, la "libertà di
diffusione" e la "libertà di uso di ogni
mezzo di diffusione" e, quindi, anche quella
della televisione: donde l'incostituzionalità della
riserva di tale mezzo allo Stato. Non potendo esistere
la "libertà di compiere un atto" senza la
"libertà di fare uso dei mezzi all'uopo idonei o
addirittura indispensabili", non sarebbe
"irragionevole" ritenere incompatibile con
la libertà di diffusione del pensiero riservare allo
Stato l'impianto e l'esercizio della televisione,
"senza nel contempo imporgli l'obbligo di aprire
il servizio al pubblico", inteso nel senso di
"insieme di coloro che aspirano alla diffusione
del loro pensiero con il mezzo televisivo" (in
modo analogo a quanto avviene per i servizi postali,
telegrafico e telefonico, nei quali "il regime di
esclusiva si accompagna all'obbligo per lo Stato, o
per il concessionario, di rendere la prestazione a chi
la richieda, onde non é da temere che la libertà
individuale, che per esplicarsi avesse bisogno di
detti servizi, possa restar vulnerata dal mancato
possesso del mezzo").
L'ordinanza ribatte, al riguardo, una per una le
obbiezioni delle parti resistenti.
A quella secondo cui l'art. 21 non riconoscerebbe il
diritto di utilizzare tutti i possibili mezzi di
diffusione, ma solo i mezzi dei quali si abbia la
disponibilità, osserva che la questione di
costituzionalità consiste nel vedere se sia
consentito alla legge di impedire, a chi ne abbia la
possibilità materiale, la possibilità giuridica di
possedere e usare liberamente un certo mezzo di
diffusione. Pur ammesso però che la libertà di
diffondere il pensiero con un dato mezzo non implichi
la illimitata libertà di possedere quel mezzo e di
farne uso, sarebbe nondimeno "non
irragionevole" "ritenere che il monopolio
statale sia, quanto meno, di ostacolo al pieno
raggiungimento da parte dei singoli del fine tutelato
dall'art. 21": in primo luogo - sotto un profilo
"qualitativo" - poiché "lo Stato
potrebbe escludere dalla diffusione, in base a propri
criteri ideologici, una determinata corrente di
pensiero"; in secondo luogo - sotto il profilo
"quantitativo" -, giacché "lo Stato
potrebbe limitare il quantum del pensiero
diffondibile".
All'obbiezione della impossibilità materiale che la
televisione sia a disposizione di tutti -
impossibilità determinata dalla limitatezza delle
"bande" di "frequenze" disponibili
e dalla necessità di evitare interferenze e disturbi
- l'ordinanza osserva, prima di tutto, che
l'impossibilità di un numero illimitato di
trasmissioni televisive non importa affatto che in
simili condizioni sia indispensabile istituire un
monopolio (una pluralità di impianti, ancorché
limitata, consentendo una maggiore accessibilità dei
mezzi di diffusione, risponderebbe certo meglio
dell'unico impianto monopolistico, al principio della
libera circolazione delle idee). II sistema del
monopolio viene a permettere allo Stato di lasciare
inutilizzata buona parte delle "frequenze"
che gli accordi internazionali consentirebbero di
utilizzare. Né varrebbe opporre che il monopolio non
escluderebbe la possibilità di più concessioni (e,
quindi, di una pluralità di servizi), giacché tale
possibilità é condizionata in via assoluta dalla
discrezionalità (e cioè dal buon volere)
dell'Amministrazione.
All'altra obbiezione, secondo la quale, avendo la
televisione, necessariamente, per oggetto, la
diffusione del pensiero altrui, la questione della
libertà di essa non riguarderebbe la libertà
garantita dall'art. 21 Cost., l'ordinanza replica che,
persino a voler ammettere l'esattezza di tale
interpretazione dell'art. 21 (che non é
"pacificamente accettabile"), "non può
non suscitare perplessità" la tesi che la
televisione non potrebbe servire per la diffusione del
pensiero proprio, giacché non é affatto inverosimile
che un individuo, un ente, un gruppo, un'associazione
desiderino avvalersi di tale mezzo per la diffusione
del proprio pensiero, della propria fede, della
propria ideologia.
All'ulteriore obbiezione, secondo cui solo la riserva
della televisione allo Stato consentirebbe di
assicurare a tutti indistintamente - in conformità
dell'art. 3 Cost. - la possibilità di accesso a tale
mezzo di diffusione del pensiero, resa altrimenti
impossibile dalla limitata disponibilità delle
"frequenze", l'ordinanza - a parte il
rilievo che la sfera dei beneficiari degli artt. 3 e
21 Cost. non coincide (in quanto la seconda comprende
anche gli stranieri) - oppone che la concreta
attuazione del principio enunciato dall'art. 3 non
può prescindere dall'osservanza dell'art. 21. Resta,
cioé, sempre da stabilire se con quest'ultimo sia
compatibile il monopolio statale del servizio di
televisione, "o se, invece, questo postuli la
libertà individuale di disporre del mezzo, o, quanto
meno, l'esclusione di limitazioni in ordine al quantum
e alla specie del pensiero diffondibile, che lo Stato
potrebbe imporre, anche se spontaneamente ammettesse
tutti i cittadini, senza distinzione, ad avvalersi del
mezzo televisivo".
In relazione all'art. 33, primo comma, Cost., che
garantisce la libertà dell'arte e della scienza,
premesso che la disposizione non riguarda soltanto il
momento creativo ma anche "quello della
rappresentazione e comunicazione esteriore",
l'ordinanza osserva che questo ultimo momento
"sembra potersi ricondurre nel più generale
concetto di manifestazione del pensiero" e,
quindi, nell'ambito dell'art. 21. Aggiunge, anzi, che
esistono e potranno svilupparsi in futuro forme di
spettacolo (e, quindi, d'arte) "specifiche per la
televisione"; ed esse, in regime di monopolio
statale del servizio, potrebbero essere "impedite
o limitate da un difforme criterio imposto dallo
Stato". Donde l'esclusione della manifesta
infondatezza della questione di legittimità
costituzionale sollevata in relazione all'art. 33
Cost.
Con riferimento all'art. 41 Cost., che garantisce la
libertà dell'iniziativa economica privata, - premesso
che la relativa questione di costituzionalità attiene
al profilo (non essenziale) della televisione, in
quanto oggetto di impresa economica -, all'obbiezione
che se non dall'art. 41 il monopolio statale sarebbe
consentito dall'art. 43 (il quale ammette che per
"fini di utilità generale" la legge riservi
o trasferisca allo Stato imprese attinenti a
"servizi pubblici essenziali" o a
"situazioni di monopolio" e abbiano
"carattere di preminente interesse
generale"), l'ordinanza replica, innanzi tutto,
che non può escludersi che sulla disciplina
legislativa attinente all'attività economica di
trasmissioni televisive debbano influire i principi
contenuti nell'art. 21: col conseguente dubbio, ad
es., se possano ravvisarsi "fini di utilità
generale" nella riserva allo Stato del servizio
di televisione, ove tale riserva sia riscontrata in
contrasto con l'art. 21. Aggiunge, inoltre, esser
tutt'altro che certo che i servizi di informazione,
soprattutto politica, possano considerarsi
"servizi pubblici essenziali". Spiega, poi,
che la limitatezza del numero delle
"frequenze" utilizzabili "non determina
necessariamente una situazione in tutto equivalente a
quella di monopolio" (cui ha riguardo l'art. 43).
Osserva, infine, esser dubbio che l'art. 43 consenta
di escludere i privati da imprese riferentisi a
situazioni che solo in via eventuale potranno sfociare
in un monopolio.
3. - L'ordinanza del Consiglio di Stato fu notificata
alle parti in causa (Soc. "Il Tempo-TV",
RAI-Radiotelevisione italiana s.p.a. e Ministero delle
poste e delle telecomunicazioni), nonché al
Presidente del Consiglio dei Ministri il 21 luglio
1959, e ne fu data comunicazione ai Presidenti dei due
rami del Parlamento il 28 luglio successivo. Essa é
stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 12
settembre 1959, n. 220.
Si é costituito innanzi a questa Corte, depositando
deduzioni il 20 ottobre 1959, il Ministero delle poste
e delle telecomunicazioni. Si sono anche costituiti,
depositando deduzioni e mandato, la Società "Il
Tempo-TV" il 26 settembre 1959 e la
RAI-Radiotelevisione italiana s. p. a il 1 ottobre
1959.
É, inoltre, intervenuto, con atto depositato il 10
agosto 1959, il Presidente del Consiglio dei Ministri.
4. - Nelle deduzioni della Soc. "Il Tempo
TV" si ribadiscono le osservazioni
dell'ordinanza.
In particolare, si osserva, in polemica con le
argomentazioni svolte dalle controparti in Consiglio
di Stato, che la libertà del contenuto (e cioè della
materia delle trasmissioni) non é conseguibile senza
la libertà di disposizione del mezzo (impianti e
servizi di trasmissione), non diversamente da come
avviene per la stampa: e, come la pubblicazione di
stampati e l'impiego di altoparlanti non possono esser
sottoposti ad autorizzazioni (viene ricordata al
riguardo la sent. n. 1 del 1956 di questa Corte),
così l'impianto di servizi televisivi non potrebbe
esser sottoposto a concessioni. Inconsistente sarebbe,
poi, l'affermazione avversaria che l'esercizio del
servizio televisivo non si differenzierebbe
sostanzialmente da quello dei servizi postale,
telegrafico, telefonico, nonché dalla gestione dei
teatri, nel senso che, non diversamente che nei citati
casi, esso si limiterebbe a porre le attrezzature
occorrenti a disposizione degli interessati che
intendano manifestare il proprio pensiero o
rappresentare spettacoli: per ribattere tale tesi si
osserva che lo Stato ha dato in concessione alla RAI
non soltanto i servizi tecnici di radiotrasmissione,
ma la stessa gestione dei programmi (convenzione
approvata con D.P.R. 26 gennaio 1952, n. 180).
L'esistenza dei controlli statali previsti dalla
legislazione sui programmi radio televisivi (art. 261
Cod. postale e D. lg. 3 aprile 1947, n. 428) e la
disposizione dell'art. 268 Cod. postale, in base alla
quale "il concessionario ha diritto di
radiodiffondere le esecuzioni artistiche dai luoghi
pubblici", sarebbero poi altrettante conferme che
l'attuale monopolio attiene non solo ai servizi
tecnici, ma anche al contenuto delle trasmissioni.
La Società non contesta che esistano ragioni pratiche
e giuridiche che rendono limitato il numero dei
"canali" disponibili (per quanto si
tratterebbe di limiti meno gravi di quelli posti in
evidenza ex adverso), né nega che ciò postuli
una disciplina da parte dello Stato. Tutto ciò non
sarebbe però sufficiente ad autorizzare il monopolio
statale, tanto é vero che analoghi problemi non
impediscono che in altri Paesi si realizzi un sistema
di televisione libera.
La Società nega, poi, nel modo più assoluto che il
sistema monopolistico riesca a realizzare la uguale
possibilità per tutti di utilizzare il mezzo di
trasmissione: lungi dal porlo a disposizione di tutti,
il sistema attuale pone il servizio a disposizione
della sola concessionaria. Inoltre, se fosse esatto il
ragionamento avversario, dovrebbe giungersi alla
affermazione estrema che per garantire ugualmente a
tutti la libera manifestazione del pensiero
occorrerebbe monopolizzare nelle mani dello Stato
l'editoria giornalistica.
5. - Nelle proprie deduzioni la RAI solleva, innanzi
tutto, una eccezione di inammissibilità del giudizio
costituzionale per la parte relativa alla
compatibilità delle disposizioni impugnate con gli
artt. 21 e 33 Cost.: ciò perché l'ordinanza di
rimessione non avrebbe esaminato la rilevanza di tale
aspetto del giudizio di costituzionalità promosso.
Osserva che la "Il Tempo-TV" si proponeva
con la propria istanza al Ministero non finalità di
diffusione del pensiero, della scienza e dell'arte,
bensì soltanto finalità di lucro: di conseguenza
quel che il rifiuto ministeriale poteva ledere era, se
mai, la libertà di impresa economica, non la libertà
di diffusione del pensiero, della scienza e dell'arte.
Se la pretesa violazione della prima libertà, e non
quella della seconda, alimentava l'interesse della
ricorrente, ne discende - dice la RAI - che, al fine
di decidere il giudizio amministrativo, potevano aver
rilevanza le questioni di costituzionalità delle
impugnate disposizioni del Codice postale in relazione
agli artt. 41 e 43 Cost. (riguardanti appunto la
libertà di impresa economica) e non quelle in
relazione agli artt. 21 e 33 (riguardanti la libertà
di diffusione del pensiero e la libertà della scienza
e dell'arte). L'ordinanza del Consiglio di Stato,
avendo mancato di procedere a una valutazione della
rilevanza delle questioni di costituzionalità in
relazione a questi ultimi due articoli, sarebbe,
dunque, irrituale. Né potrebbe far pensare che tale
valutazione vi sia stata, il fatto che l'ordinanza ha
dichiarato "non pacificamente accettabile"
l'osservazione della RAI secondo cui l'art. 21
proteggerebbe soltanto la libertà di diffusione del
pensiero proprio e non anche quella del pensiero
altrui: tale dichiarazione, compiuta in sede di
giudizio circa la non manifesta infondatezza della
questione sollevata dalla "II Tempo-TV", non
implica, infatti, che sia stato compiuto il giudizio
di rilevanza, giacché questo ha autonoma funzione,
consistendo nella valutazione della sussistenza, nella
questione di costituzionalità, di un qualche
carattere pregiudiziale rispetto alla decisione del
giudizio a quo - sussistenza la quale ben può mancare
nonostante la non manifesta infondatezza della
questione. In ogni caso a dimostrare la mancanza del
giudizio di rilevanza dovrebbe bastare il semplice
fatto della omissione di qualsiasi esame circa la
sussistenza di altri caratteri, oltre quelli di lucro,
negli intenti della "Il Tempo-TV". Nel
merito, la RAI premette che gli artt. 1 e 168, n. 5,
Cod. post. - ai quali si limita il giudizio di
costituzionalità (che non si estende anche alle altre
norme relative all'ordinamento del servizio televisivo
e al modo di esercitarlo) - assicurano allo Stato
l'esclusività tanto dei mezzi televisivi (e cioè
degli impianti e del loro esercizio tecnico), quanto
del relativo servizio (e cioè delle trasmissioni),
mentre non riguardano affatto il contenuto delle
trasmissioni (onde la possibilità di utilizzare il
servizio televisivo per effettuare delle trasmissioni
sarebbe "aperta, in via di principio,
indistintamente a tutti", non diversamente da
quanto accade per i servizi postale, telegrafico e
telefonico), e osserva che se la "Il
Tempo-TV", anziché chiedere l'autorizzazione a
realizzare un nuovo servizio televisivo, avesse
chiesto di avvalersi del servizio esistente per
diffondere "manifestazioni di pensiero, di
scienza, di arte, da essa prodotte e propugnate",
avrebbe ricevuto ben altra risposta che quella
impugnata in Consiglio di Stato. Premette anche che ai
fini del giudizio in esame non può farsi alcuna
differenza tra la libertà di diffusione del pensiero
e la libertà di diffusione del pensiero artistico e
scientifico: donde l'opportunità di trattare
congiuntamente della pretesa violazione degli artt. 21
e 33 della Costituzione. Premette, inoltre, la
necessità di tener presente che l'oggetto della
questione di costituzionalità sollevata é soltanto
l'esistenza (in base a certe norme) di una riserva
allo Stato del servizio televisivo, e non anche il
modo in cui il servizio riservato allo Stato sia (in
base ad altre norme) organizzato ed esercitato.
Osserva, poi, con riferimento all'art. 21, primo
comma, Cost., che esso garantisce due diversi diritti:
il primo - sostanziale - alla libera manifestazione
del pensiero; il secondo - strumentale e accessorio
rispetto all'altro - a impiegare la parola, lo scritto
e ogni altro mezzo di diffusione per manifestarlo.
L'art. 21 non specifica però in che cosa si concreti
tale "diritto": non lo individua cioé -
come sembra ritenere il Consiglio di Stato - come un
diritto di "possedere" o di
"usare" dei mezzi di diffusione. Si tratta
dunque di un "diritto" la cui consistenza
deve essere specificata dal legislatore ordinario:
dalla Costituzione risulta soltanto, da un lato, che
né lo Stato, né altri, possono in alcun modo
impedire un qualche mezzo di diffusione del pensiero
(e, quindi, anche quello televisivo), e, dall'altro,
che a ogni soggetto é consentito di avvalersi (di
adoperare, di servirsi) di qualsiasi mezzo (e, quindi,
anche di quello televisivo) per comunicare il proprio
pensiero. Questi sono però i soli limiti in cui il
legislatore ordinario si imbatta al riguardo: onde,
purché li rispetti, può adottare (con legge comune o
con legge speciale), per ciò che riguarda i mezzi di
diffusione, il regime che ritenga più conveniente.
É, quindi, inesatto che l'art. 21 postuli un regime
di disponibilità privata del mezzo televisivo; e
tanto più é inesatto, in quanto la limitatezza delle
"frequenze" a disposizione, consentendo solo
a pochissimi la disponibilità del mezzo, fa sì che
il regime meno compatibile con gli art. 21 e 33 Cost.,
é proprio quello auspicato ex adverso. Del
pari é inesatto, e non provato, e comunque non
rispondente al diritto positivo, che il regime di
disponibilità privata sia il più rispondente ai fini
dell'art. 21: anzi, se la Costituzione nulla dispone
all'art. 21 circa il regime dei mezzi, dagli artt. 3,
41 e 43 si ricavano principi tutt'altro che favorevoli
alla disponibilità privata.
Passando all'esame dell'art. 1 e dell'art. 168, n. 5,
Cod. postale - che sono le sole disposizioni impugnate
- la RAI, ricordato che essi riservano allo Stato, da
un lato, l'impianto e l'esercizio tecnico dei mezzi
televisivi, e, dall'altro, il servizio delle
trasmissioni televisive, si occupa, innanzi tutto, del
primo aspetto. Al riguardo osserva che, lungi dal
costituire un impedimento alla diffusione del pensiero
mediante la televisione, la riserva degli impianti
allo Stato - particolarmente in un regime di
democrazia liberale e sociale - rappresenta in
astratto il miglior sistema per garantire l'uguale
godimento di quel diritto, anche se in concreto possa
esservi qualche pericolo - da combattere con altri
mezzi - di abusi e parzialità. Né la riserva
determina necessariamente una limitazione della
utilizzabilità dei mezzi: in concreto lo Stato si
propone di utilizzare tutte le possibili
"frequenze"; e, comunque, allo Stato é da
riconoscere il potere discrezionale di valutare e
assegnare ai vari servizi (civili e militari, pubblici
e privati) le "frequenze" disponibili.
Qualunque questione circa il quantum di utilizzazione
degli impianti riguarda poi, se mai, la legittimità
delle norme sull'ordinamento dei servizi, e non quella
delle norme sulla riserva degli impianti allo Stato.
In relazione, poi, alla riserva allo Stato del
servizio delle trasmissioni televisive, la RAI osserva
innanzi tutto che, trattandosi, per legge, di un
servizio pubblico, ad esso inerisce istituzionalmente
che deve esser posto a disposizione di tutti gli
interessati a utilizzarlo, né esistono norme
particolari che escludano nel caso tale disciplina,
risultante dai principi istituzionali: in fatto, poi,
sia per ciò che riguarda i così detti utenti passivi
- e cioè i telespettatori -, sia per ciò che
riguarda gli utenti attivi - e cioè quelli che
abbiano interesse a effettuare trasmissioni -, il
servizio é realmente, e nel modo più efficiente (nei
limiti del possibile), a disposizione di tutti.
Naturalmente la "limitatezza del mezzo e del
tempo" non consente di soddisfare tutte le
richieste di trasmissione: ma "anche nell'ipotesi
di una pluralità di enti televisivi che pur sempre
sarebbe limitatissima, e che non servirebbe ad
aumentare di un minuto la possibilità offerta dal
mezzo (perché anche ripartendo questo fra più enti,
resterebbe comunque identico il volume complessivo
delle sue prestazioni)", nondimeno
"l'accesso dei vari interessati alla televisione
per diffondere il loro pensiero non potrebbe avvenire
che in un certo ordine, in base a determinati criteri
di ammissione". Per sua natura, e sempre,
"il diritto all'utenza attiva del mezzo é
fondamentalmente condizionato". "I mezzi
sono quelli che sono, e il servizio é quello che
é".
Quanto all'assunto che la riserva del servizio allo
Stato potrebbe tradursi in una discriminazione del
pensiero diffondibile, in base ai criteri ideologici
del monopolista, la RAI ne pone in luce la gratuità;
il monopolio di uno Stato democratico é in grado di
assicurare l'obbiettività e l'indiscriminatezza del
servizio certo assai meglio di un monopolio o di un
oligopolio privato. Comunque, in concreto, il servizio
é organizzato delle leggi vigenti (e in particolare
dal D. Lg. 3 aprile 1947, n. 428) in base a criteri
validi ad assicurarne l'indipendenza, l'obbiettività
e l'esclusione di discriminazioni, sia in ordine alle
informazioni che in ordine ai programmi. Tali leggi
potranno, forse, anche essere insufficienti o
imperfette; é certo però che esse non contrastano
con gli artt. 21 e 33 Cost.: "esse sono tali da
permettere, senza alcuna eccezione, a chiunque ne
abbia interesse, a qualsiasi corrente e manifestazione
di pensiero, l'accesso per la diffusione al mezzo
televisivo. Tale accesso potrà ulteriormente esser
regolato o garantito attraverso norme più particolari
e specifiche. Ciò non significa che intanto esso
possa arbitrariamente essere ostacolato e
impedito". In realtà "la televisione é
aperta a tutti i settori della scienza e dell'arte,
alle voci di ogni corrente di pensiero e di ogni forma
e manifestazione d'arte".
Sottolinea, infine, la RAI che gli artt. 21 e 33 Cost.
non sono vulnerati neanche dalla possibilità per lo
Stato di attribuire il servizio in concessione.
Infatti, la concessione non incide minimamente sul
diritto degli interessati di avvalersi del servizio
per la diffusione del proprio pensiero. E neppure urta
coi riferiti articoli della Costituzione il sistema
della concessione in esclusiva.
La RAI passa, poi, a dimostrare l'infondatezza delle
censure di incostituzionalità in relazione agli artt.
41 e 43 Costituzione.
Premesso che il principio enunciato nel primo comma
dell'art. 41 é carico di limitazioni e che l'art. 43
non é se non uno sviluppo dei principi fissati
dall'art. 41, "rilevante soprattutto per certe
limitazioni di applicazione che esso tende a
stabilire", osserva che l'art. 41 offre un
fondamento estremamente debole e fragile alla tesi
della "Il Tempo-TV". La limitatezza dei
mezzi televisivi materialmente disponibili non
permetterebbe più di due o tre servizi a base ed
estensione nazionali. In tale situazione, come può
affermarsi che sia "socialmente utile" e
conforme alla "libertà umana" (che
comprende anche il diritto di essere informati) che la
televisione possa ridursi a "un privilegio delle
imprese private che fossero riuscite a ottenere (in
base a quali criteri di concessione?) l'uso dei canali
televisivi necessari ?". Si tratterebbe davvero
di un privilegio, "materiale ed economico da un
lato, ideologico dall'altro", dato che
"l'impresa televisiva privata non può non
essere, per definizione, caratterizzata e qualificata
ideologicamente". Già i limiti posti dall'art.
41 all'iniziativa economica privata sarebbero, dunque,
sufficienti a far escludere che in base a tale
articolo le impugnate disposizioni sarebbero
incostituzionali.
Con particolare riferimento all'art. 43 Cost., la RAI
osserva, innanzi tutto, che, come l'art. 43 non può
legittimare limitazioni alle libertà sancite dagli
artt. 21 e 33 Cost., del pari questi non possono
impedire le applicazioni dell'art. 43 ritenute
necessarie. E le disposizioni vigenti in materia di
televisione rappresentano, appunto, "un esempio,
per quanto perfettibile esso sia, del possibile
coordinamento dell’art. 21 con l’ art. 43
Cost.". Specifica, poi, che l'articolo 43 non si
applica soltanto ai casi di attività esercitate per
fini di lucro. Se una attività presenti i caratteri
di servizio pubblico o di situazione di monopolio,
l'art. 43 é applicabile, anche se, per avventura, non
venga utilizzata a fini di lucro (ma a fini religiosi,
ideologici, culturali, ecc.). Persino l'impresa
giornalistica potrebbe essere statizzata ai sensi
dell'art. 43, anche se, in relazione a tale attività,
le disposizioni sulla stampa contenute nell'art. 21
consentirebbero, secondo alcuni, di porre il problema
in termini assolutamente particolari, e non
suscettibili di essere estesi alla materia della
televisione.
Sostenere, poi, che per il servizio televisivo non
ricorrano quei "fini di utilità generale",
che soli possono legittimare, ai sensi dell'art. 43,
la riserva allo Stato, ritenendo, quindi, che solo la
libera iniziativa privata soddisfi, in connessione con
gli artt. 21 e 33 Cost., ai fini di utilità generale,
significa, da un Iato, sovrapporsi alla valutazione
del legislatore, dall'altro, ispirarsi, in materia di
diritti di diffusione del pensiero e di iniziativa
economica privata, a vieti schemi, superati
dall'ordinamento costituzionale vigente.
Osserva ancora la RAI che la televisione é fuori
dubbio un servizio pubblico "essenziale" nel
senso dell'art. 43 della Costituzione. Il giudizio di
"essenzialità", infatti, é
"storicamente e politicamente condizionato",
ed é riservato al legislatore. Che, poi, si tratti di
un servizio "pubblico" non può esser
dubbio, dovendo definirsi in tal modo tutti i servizi
che "in atto o in potenza, direttamente o
indirettamente", interessino la generalità dei
cittadini. Anche alla coscienza comune, del resto, la
televisione appare un servizio "assolutamente
necessario e indispensabile, di primaria importanza,
cioè " essenziale "".
L'ordinanza - aggiunge la RAI - non contesta che, se
lasciata all'iniziativa privata, la televisione
darebbe naturalmente luogo, data la limitatezza dei
"canali", a situazioni "almeno in parte
monopolistiche". Orbene, questo fatto é per sé
solo sufficiente a legittimare l'avocazione del
servizio allo Stato, ai sensi dell'art. 43 Cost., il
quale riguarda non solo le posizioni di monopolio, ma
anche quelle di monopolio complesso (oligopolio,
duopolio, polipolio), riferendosi a "qualsiasi
situazione di privilegio economico", tanto più,
poi, ove essa sia suscettibile di sfociare nel
"privilegio ideologico, sociale, politico".
Per di più, non é esatto che l'art. 43 non consente
la riserva allo Stato di imprese che solo in via
eventuale potrebbero sfociare in un monopolio. La
"riserva originaria" di imprese allo Stato,
ammessa dall'art. 43, non può riferirsi, infatti, che
alle situazioni eventuali.
La RAI si richiama, infine, al secondo comma dell'art.
3 della Costituzione. Siccome la televisione in mani
private si risolverebbe, a cagione della limitatezza
del mezzo, in un privilegio di pochi, costituendo
"un impedimento al pari diritto di tutti" di
avvalersene, é proprio il combinato disposto degli
artt. 21 (e 33) e 3 della Costituzione a esigere che
la televisione sia "riservata allo Stato a
servizio di tutti". Né vale opporre che l'art. 3
garantisce l'uguaglianza ai soli cittadini, mentre
l'art. 21 riguarda anche gli stranieri. "Che il
diritto di manifestazione del pensiero, come
espressione di una esigenza della natura umana, sia
riconosciuto a tutti, non significa che per questo
esso sia estraneo e sfugga ai compiti che lo Stato ha,
anzitutto, nei riguardi, si intende, dei suoi
cittadini". L'art. 21 e l'art. 3 vanno conciliati
nel senso che una legge ordinaria non potrebbe
consentire agli stranieri la proprietà dei mezzi
televisivi.
La RAI conclude per la dichiarazione di infondatezza
delle questioni di costituzionalità sollevate dal
Consiglio di Stato.
6. - Le stesse conclusioni vengono formulate dal
Ministero delle poste e dalla Presidenza del Consiglio
dei Ministri. Le tesi sostenute nelle due difese
dall'Avvocatura dello Stato coincidono. In generale,
esse non divergono da quelle della RAI, già esposte,
se non in pochi punti ai quali soltanto é il caso di
fare richiamo.
In relazione all'art. 21 Cost., si osserva che la
televisione, per la natura tecnica del mezzo, e per la
sua condizione giuridica, non riceve la tutela di tale
articolo, giacché questo "non può riguardare
che quei mezzi i quali possono, per sé stessi,
"liberamente" usarsi da tutti ed al cui
libero uso una restrizione (come per la parola e per
lo scritto) potrebbe derivare solo da un atto del
potere legislativo ordinario", e non anche quei
mezzi che (come quello in esame ) naturalmente e
istituzionalmente necessitano, per l'impiego, di un
consenso del potere amministrativo. Comunque
"l'inidoneità del mezzo ad assicurare la parità
dei diritti di tutti i cittadini, così come richiesto
dall'art. 21 (che necessariamente va interpretato
anche in relazione all'art. 3 Cost.), porta a
convincere che la televisione non rientra nel campo di
applicazione di detto articolo".
In ordine all'affermazione dell'ordinanza, secondo la
quale l'attuale sistema giuridico non prevede
l'obbligo di aprire il servizio al pubblico,
l'Avvocatura osserva che la mancanza di una
regolamentazione del servizio non può esser causa di
incostituzionalità; e, del resto, la pretesa lacuna
legislativa é automaticamente colmata dall'art. 2597
Cod. civ., in base al quale chi esercita un servizio
in condizioni di monopolio legale ha l'obbligo di dare
la prestazione a chiunque la richieda, osservando la
parità di trattamento. E, del resto, le
"condizioni generali" del servizio vengono
stabilite nel caso in esame dall'autorità di
vigilanza.
Inoltre, siccome il monopolio statale é stato
istituito "per garantire altre finalità
pubbliche degne di tutela (fini sociali e culturali
nonché di sicurezza interna ed esterna)", ogni
eventuale limitazione al diritto previsto dall'art. 21
non rappresenterebbe vizio di costituzionalità.
In ordine all'art. 33 osserva l'Avvocatura che,
siccome gli autori non hanno "un diritto a veder
divulgate o rappresentate le proprie opere",
"le possibili limitazioni derivanti, in concreto,
dalla necessaria selezione delle opere da divulgare o
degli attori da ammettere alla recitazione, non
possono giammai creare i presupposti per il sorgere di
un problema di legittimità costituzionale del
monopolio televisivo".
In ordine all'art. 43 l'Avvocatura osserva che la
natura di "servizio pubblico essenziale"
della televisione non può esser posta in dubbio, in
considerazione della "estensione (del servizio) a
tutto il territorio nazionale e dei fini di sicurezza
interna ed esterna che in ogni tempo devono essere
garantiti". D'altro canto la valutazione della
"essenzialità" del servizio é riservata al
giudizio del legislatore.
Nelle deduzioni per il Ministero delle poste
l'Avvocatura sottolinea che nella generalità degli
Stati europei occidentali il servizio della
televisione ha "un accentuato carattere
pubblicistico", sia pure attraverso "una
gamma di situazioni che dall'ingerenza pressoché
costante dello Stato nei programmi e nella scelta
dell'ente che gestisce il servizio va fino al
dichiarato carattere del servizio medesimo come
servizio pubblico, inteso questo come quell'attività
che la pubblica Amministrazione riserva a sé stessa
in esclusiva per esercitarla direttamente o per mezzo
di concessionari, in relazione al preminente carattere
d'interesse collettivo insito nell'attività stessa.
7. - La RAI, l'Avvocatura dello Stato, per conto della
Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero
delle poste e delle telecomunicazioni, e la Soc.
"Il Tempo-TV" hanno presentato memorie
illustrative delle precedenti difese, depositandole la
prima l'8 giugno e le altre il 9 giugno u. s.
Nella sua memoria, la RAI insiste diffusamente sulla
propria eccezione di inammissibilità, per omesso
esame della rilevanza, delle questioni di
costituzionalità riferite agli artt. 21 e 33 Cost.:
la "II Tempo-TV" non é un ente che si
propone fini culturali, artistici o politici, ma
un'impresa industriale che si propone fini di lucro; e
appunto per difendere tale suo interesse ricorse al
Consiglio di Stato, preoccupandosi di tutelare la
propria libertà di iniziativa economica e non quella
di manifestazione del pensiero: l'eventuale violazione
degli artt. 21 e 33 non può, dunque, avere rilevanza
ai fini della decisione del Consiglio di Stato.
Nel merito, in aggiunta ai concetti esposti nelle
deduzioni, la RAI sottolinea che il vigente monopolio
del servizio televisivo non importa affatto che lo
Stato possa avvalersene "per attuare una politica
televisiva discriminatrice e di parte": il
Governo é un utente del servizio come gli altri,
tanto é vero che l'art. 31 R. D. 10 luglio 1924, n.
1226, e l'art. 18 della convenzione con la RAI hanno
dovuto espressamente riservargli il diritto di
trasmettere i propri comunicati. Comunque, ove pure
esistesse nell'ordinamento una qualche norma che non
assicuri l'obbiettività del servizio, é chiaro che
unicamente essa e non le norme istitutive del
monopolio - che sono le sole impugnate - potrebbe
contrastare con gli artt. 21 e 33 della Costituzione.
A ogni modo, un siffatto contrasto non risiede
certamente nelle disposizioni che rimettono alla RAI e
al pubblico potere la determinazione dei programmi:
data la limitatezza della possibilità di
trasmissioni, anche il privato che gestisse il
servizio televisivo dovrebbe far luogo a una selezione
delle richieste nel compilare i programmi; e certo
offre maggior garanzia di obbiettività una selezione
operata sotto l'egida del pubblico potere, tenuto
istituzionalmente a osservare nell'espletamento del
servizio pubblico i principi contenuti negli artt. 3 e
21 della Costituzione. Anzi é proprio tale
istituzionale esigenza di obbiettività dei pubblici
poteri a escludere, da un lato, che l'eventuale
concessione del servizio a soggetti diversi dallo
Stato e la scelta dei concessionari abbiano luogo per
motivi non rispondenti alle esigenze obbiettive del
servizio, e a consigliare dall'altro - come avviene in
molto Paesi - che, ove lo Stato preferisca esercitare
il servizio in concessione, concessionario sia un ente
legato allo Stato da vincoli particolarmente intimi
(come é, appunto, il caso della RAI).
Sottolinea, inoltre, diffusamente la RAI che il
diritto di libertà di diffusione del pensiero con
qualsiasi mezzo, garantito dal primo comma dell'art.
21 Cost., non significa anche diritto di disporre di
qualsiasi mezzo di diffusione del pensiero, ma
soltanto diritto di diffondere il pensiero con i mezzi
disponibili e in quanto disponibili (alla stessa
maniera, ad es., che la libertà di domicilio non
implica anche il diritto ad avere senz'altro un
domicilio). L'art. 21 si occupa della libertà di
diffusione del pensiero; ma, dopo avere enunciato la
possibilità di diffonderlo con qualsiasi mezzo,
contiene una disciplina specifica di un solo mezzo di
diffusione: la stampa; per il regime giuridico degli
altri mezzi esso si rimette, dunque, alla legislazione
ordinaria, col limite, peraltro, che questa non
sacrifichi in alcun modo la libertà garantita. Il
diritto garantito a tutti dall'art. 21 in ordine ai
mezzi importa soltanto, da un lato, che lo Stato
"non impedisca, con norme, provvedimenti, misure
discriminatrici e odiose, l'accesso e il godimento dei
mezzi disponibili per la diffusione del pensiero,
secondo il regime stabilito dalla legge
(ordinaria)"; dall'altro, che lo Stato
"provveda, invece, positivamente, ad adottare le
norme necessarie perché la possibilità di godimento
della televisione sia effettivamente uguale per tutti,
senza particolari ingiustificati vantaggi a favore di
questa o quella categoria, vantaggi che si riflettono
in situazioni impeditive e restrittive per tutte le
altre categorie". Orbene, sul diritto garantito
dall'art. 31, così inteso, il monopolio televisivo
non incide minimamente, ben potendosi assicurare -
come in effetti il vigente regime assicura
(naturalmente nei limiti consentiti dalle
caratteristiche del mezzo) - la libertà di diffusione
del pensiero a mezzo della televisione anche in
condizioni di monopolio. In regime di democrazia
liberale, il controllo ministeriale sui programmi - di
un Ministero tecnico, per giunta, quale é quello
delle poste e telecomunicazioni - non può essere un
controllo ideologico (cosa, del resto, inammissibile e
irrealizzabile stante il controllo del Parlamento sul
Governo), bensì deve essere ed é soltanto un
controllo sulla rispondenza alle finalità pubbliche e
alle istituzionali esigenze di obbiettività del
servizio, e, in quanto tale, lungi dal rappresentare
un'illegittima ingerenza dello Stato, rappresenta una
essenziale garanzia di imparzialità per i singoli.
In relazione agli artt. 41 e 43 Cost., la RAI
sottolinea che il servizio televisivo attiene allo
sfruttamento di "fonti di energia" (onde
elettromagnetiche), é naturalmente destinato a
sfociare in "situazioni di monopolio"
(pericolose perché capaci di risolversi in privilegi
ideologici, sociali e politici), ed é un
"servizio pubblico essenziale" (essendo esso
considerato necessario e di primaria importanza dalla
massa della popolazione, che ormai ne é servita in
tutto il territorio nazionale, e costituendo le
radiocomunicazioni, da un cinquantennio, nel nostro
ordinamento, un servizio di Stato).
Né é il caso di fare accostamenti tra il regime
della televisione e quello della stampa, data, da un
lato, la diversità degli oggetti, delle modalità,
dell'efficacia, delle funzionalità rispettive,
dall'altro, la diversità delle condizioni di
disponibilità dell'uno e dell'altro mezzo. E neanche
é il caso di far discriminazioni - ai fini della
riserva del servizio allo Stato - tra trasmissioni
informative e altre trasmissioni televisive: a parte
l'inscindibile unitarietà del servizio, le ragioni
che giustificano la riserva delle prime allo Stato,
non sono meno valide per la riserva delle seconde.
8. - Anche l'Avvocatura dello Stato solleva, nella sua
memoria, l'eccezione già proposta dalla RAI, circa
l'omesso esame della rilevanza, nell'ordinanza di
rimessione, delle questioni di costituzionalità
relative agli art. 21 e 33 Cost., posto che il movente
ispiratore della richiesta avanzata dalla "Il
Tempo-TV" non era quello della diffusione del
pensiero, bensì un fine di lucro.
Inoltre, siccome, secondo l'ordinanza, la non
manifesta infondatezza delle questioni di
costituzionalità relative ai riferiti articoli
risiederebbe non nella riserva del servizio televisivo
allo Stato, bensì nella mancata contemporanea
imposizione al monopolista dell'obbligo di aprire il
servizio agli eventuali interessati a effettuare
trasmissioni televisive; e siccome la "Il Tempo -
TV" non aveva avanzato alcuna istanza in
quest'ultimo senso, bensì semplicemente nel senso di
impiantare e gestire un servizio di teletrasmissioni,
la questione della compatibilità delle disposizioni
impugnate con gli artt. 21 e 33 Cost. non si poneva
come pregiudiziale, e, quindi, era ancora una volta
irrilevante, ai fini del giudizio a quo.
Nel merito, l'Avvocatura ribadisce le affermazioni
svolte nelle precedenti difese. In particolare
sottolinea il carattere di monopolio naturale del
servizio televisivo, data la estrema limitatezza dei
"canali" a disposizione. II monopolio,
cioè, preesiste alle disposizioni legislative; e, se
non fosse monopolio statale, sarebbe necessariamente
monopolio (sia pure sotto la forma oligopolistica) di
altri. Non la legge, dunque, ma la natura sarebbe in
contrasto con gli artt. 21 e 33 Cost., posto che una
siffatta violazione vi fosse. Ecco perché é da
ribadire l'affermazione che tra gli "altri mezzi
di diffusione" cui si riferisce il primo comma
dell'art. 21 non può farsi rientrare la televisione.
L'Avvocatura insiste anche nella tesi che, in base
all'art. 21, l'obbligo della pubblica autorità si
limita alla "non ingerenza nella sfera di
libertà individuale e nella libera esplicazione di
quello aspetto di tale libertà che consiste nella
manifestazione del proprio pensiero": l'art. 21,
cioè, non prevede anche un "obbligo di
apprestare mezzi tecnici per consentire ai cittadini
di esprimere il loro pensiero".
In relazione all'art. 41 osserva che, quando esista un
monopolio naturale, da ciò stesso deriva che non
possa parlarsi di limiti legali alla libera iniziativa
privata. In relazione all'art. 43 ribadisce che, sia
per la ragione che rappresenta un monopolio naturale
(e quindi di fatto), sia per la ragione che (secondo
la valutazione legittimamente discrezionale del
legislatore) si tratta di un servizio pubblico
essenziale, la riserva della televisione allo Stato é
indiscutibilmente legittima.
9. - Nella memoria della Soc. "Il Tempo-TV"
si confuta, innanzi tutto, l'eccezione di omesso
esame, da parte dell'ordinanza di rimessione, della
rilevanza delle questioni di costituzionalità
relative agli artt. 21 e 33 Cost.: ciò che importa é
che l'accertamento della rilevanza risulti dai termini
in cui la questione di costituzionalità é proposta,
in modo che rimanga escluso ogni dubbio sulla
connessione della questione medesima con le esigenze
del processo, nel quale viene sollevato l'incidente di
costituzionalità. Nella specie tale accertamento vi
fu; e a dimostrarlo basta sottolineare che il
Consiglio di Stato pose in evidenza la necessità che
in sede di giudizio costituzionale venisse risolto il
problema di coordinamento interpretativo tra l'art. 43
e l'art. 21 Cost. Né può avere importanza il fatto
che ciò sia avvenuto in sede di esame circa la non
manifesta infondatezza delle questioni di cui
trattasi.
Nel merito, con riferimento all'art. 43 Cost.,
riconosciuta la discrezionalità del legislatore in
ordine ai "fini di utilità generale" da
perseguire e al carattere di "preminente
interesse generale" delle imprese che l'articolo
consente di riservare alla collettivizzazione, e
aggiunto che la televisione non é attività
riguardante "fonti di energia", la Società
ammette che l'art. 43 consente di riservare alla
collettivizzazione anche le situazioni di monopolio
puramente potenziale, quando sussistano elementi
"effettivamente operanti che conducano a far
ritenere fatale lo sbocco verso la eliminazione della
concorrenza". Quest'ultimo, però, ed esso
soltanto, é l'obbiettivo che legittima il legislatore
a collettivizzare le situazioni di monopolio attuale o
potenziale. Orbene, siccome, nella specie,
l'obbiettivo avuto di mira dalla "Il
Tempo-TV" era proprio quello di realizzare una
situazione concorrenziale, incrementando l'offerta,
non sarebbe ammissibile opporre l'art. 43. Le
disposizioni costituzionali da applicare sono quelle
contenute nell'art. 41, il quale, pur prevedendo
limiti e controlli, legittima in via di principio
l'iniziativa economica privata.
In ordine alla possibilità di riservare la
televisione allo Stato in quanto "servizio
pubblico essenziale", la Società, dopo aver
affermato che la "essenzialità" di un
servizio pubblico inerisce all'aspetto qualitativo e
non a quello quantitativo, osserva che, per preservare
la libertà prevista dall'art. 21 Cost., occorre, tra
l'altro, assicurare quella di colui che si interpone
tra chi manifesta il pensiero e chi vuole venirne a
conoscenza, "tutte le volte che si rende in
pratica necessaria una organizzazione che renda
possibile o serva a facilitare ed a diffondere la
comunicazione tra i due" (non importa se tale
necessario intermediario si proponga fini di lucro); e
adduce al riguardo gli esempi della scuola, della
impresa giornalistica, dell'impresa teatrale. É vero
che l'art. 21 non assicura al singolo la possibilità
di uso dei mezzi di diffusione del pensiero, ma gli
assicura soltanto di esser messo in grado di
manifestare liberamente ciò che pensa con i mezzi a
sua disposizione; ma "é chiaro che complementare
a tale libertà non possa non ritenersi la libertà di
moltiplicazione dei mezzi suscettibili di esser messi
a disposizione dei singoli". Onde "ogni
remora che si ponga all'espansione dei mezzi
utilizzabili incide su tale libertà ed assume
carattere di incostituzionalità". I limiti di
fatto alla disponibilità dei mezzi possono
giustificare, per la televisione, provvedimenti
amministrativi di autorizzazione all'impianto e
all'uso di essi, e non certo la nazionalizzazione di
essi.
La Società si sofferma, poi, a contestare la tesi
avversaria, secondo la quale le vigenti disposizioni
non riserverebbero allo Stato - e ai suoi
concessionari - la "utilizzazione in esclusiva
del mezzo televisivo a fini di diffusione di un dato
pensiero": essa argomenta particolarmente dagli
artt. 1, 4 e 18 della convenzione tra lo Stato e la
RAI, dai quali risulterebbe che i programmi trasmessi
sono programmi della RAI e non di terzi. "Un solo
utente attivo la convenzione prevede, ed esso é il
Governo", a cui favore la RAI, se richiesta, deve
mettere a disposizione le stazioni per la trasmissione
dei propri comunicati. A sostegno della tesi la
Società sottolinea che il n. 5 dell'art. 168 Cod.
postale usa, per la concessione dei servizi di
radiodiffusione e televisione, una formula
("esercizio dei servizi") diversa da quella
usata per la concessione del solo "esercizio
degli impianti" impiegato per gli altri servizi
postali e di telecomunicazione dai nn. 1, 2, 3.
Inoltre, il fatto che l'articolo 261 attribuisce alla
autorità governativa "la vigilanza e il
controllo sulla utilizzazione della
radiodiffusione", differenziandoli dalla
vigilanza e dal controllo sui "servizi tecnici e
amministrativi", confermerebbe che lo Stato si
sarebbe riservato ben più che la semplice gestione
del servizio nel senso sostenuto dalla RAI.
Né é esatto - incalza la Società - che alla natura
di "pubblico servizio" inerisca la
necessità giuridica, per lo Stato e per la sua
concessionaria, di consentire a tutti la possibilità
di utilizzare la televisione per effettuare delle
trasmissioni: l'ordinamento (art. 34 Cost.) conosce,
infatti, altri servizi (come la scuola) "aperti a
tutti" soltanto sul piano passivo (per
apprendere) e non anche sul piano attivo (per
insegnare). Neanche può farsi discendere l'anzidetta
necessità dal diritto di esclusiva, non apparendo
essa compatibile con le forme di collettivizzazione,
diverse dalla statizzazione, previste dall'art. 43
della Costituzione. E neppure é esatto che norme
regolamentari contemplino la necessità stessa:
comunque, ove pur delle norme regolamentari la
contemplassero, non potrebbe dirsi che esse ripetano
la propria normazione dalla legge.
La Società nega recisamente che il monopolio statale
della televisione possa garantire l'obbiettività,
l'imparzialità e la maggiore efficienza del servizio.
Né l'art. 3 Cost. può giustificare l'assorbimento
statale delle iniziative private, che, per la natura
delle cose, siano insuscettibili di illimitata
espansione: tutt'al più esso può consentire allo
Stato degli interventi di carattere suppletivo e
integrativo delle iniziative private, e può
suggerirgli un adeguato sistema di misure e di
controlli in ordine al modo di esercizio di tali
iniziative. Né, infine, può esser probante criterio
il rifarsi ai sistemi degli altri Paesi, da un lato,
perché essi sono i più vari, e, dall'altro, perché
diversa é la disciplina costituzionale in materia.
10. - Le medesime questioni di legittimità
costituzionale degli artt. 1 e 168, n. 5, del Codice
postale, con riferimento agli artt. 21, 33, 41 e 43.
Cost. sono state sottoposte a questa Corte con
ordinanza del Giudice istruttore del Tribunale di
Milano emessa il 13 maggio 1960 nel procedimento
penale a carico dei sigg. Figari Gianvittorio,
Mazzoldi Luigi Carlo, Volonteri Attilio e De Marsico
Francesco, soci della s. p. a. "Televisione
libera", imputati di avere "impiantato un
apparato per comunicazioni col mezzo di onde
elettromagnetiche a onde guidate, senza averne
ottenuto la concessione statale": "talché -
si legge nell'ordinanza - ove illegittima fosse la
pretesa legislativa di codesta concessione, quale
manifestazione dell'esercizio del monopolio, é
intuitivo che non si verserebbe più in tema di
illecito penalmente sanzionato".
In ordine alla non manifesta infondatezza delle
sollevate questioni di legittimità costituzionale il
Giudice istruttore adduce le stesse ragioni contenute
nell'ordinanza emessa dal Consiglio di Stato nel
ricorso "Il Tempo-TV", alla quale, anzi,
espressamente si richiama.
L'ordinanza é stata notificata al Presidente del
Consiglio dei Ministri il 20 maggio 1960, e ne é
stata data comunicazione ai Presidenti dei due rami
del Parlamento rispettivamente il 19 e il 24 maggio
1960.
Per questo giudizio il Presidente della Corte ha
disposto la riduzione dei termini alla metà.
Innanzi a questa Corte si sono costituiti il Figari e
il Mazzoldi, depositando deduzioni e mandato
rispettivamente il 21 maggio 1960 e il 7 giugno 1960.
É intervenuto il Presidente del Consiglio dei
Ministri. con atto depositato il 7 giugno 1960.
Mentre le argomentazioni dell'Avvocatura dello Stato
coincidono con quelle formulate nel giudizio promosso
con l'ordinanza del Consiglio di Stato, e le deduzioni
del Mazzoldi si richiamano sostanzialmente alle tesi
esposte nell'ordinanza del Giudice istruttore,
ulteriori tesi e argomentazioni sono svolte nelle
deduzioni del Figari.
Premesso che il Giudice istruttore ha rimesso gli atti
a questa Corte dietro richiesta del Pubblico
Ministero, il quale aveva ritenuto non manifestamente
infondate tutte le questioni sottopostegli dalla
difesa del Figari, e che la difesa stessa aveva
sottoposto al Pubblico Ministero, oltre alle questioni
devolute a questa Corte dal Giudice istruttore, anche
altre questioni di legittimità costituzionale, il
Figari sostiene, prima d'ogni altra cosa, che, siccome
il Pubblico Ministero aveva il potere di rimettere
direttamente alla Corte le questioni da lui non
ritenute manifestamente infondate, sono da intendere
devolute alla Corte non soltanto quelle questioni che
il Giudice istruttore ritenne non essere
manifestamente infondate, ma anche quelle che non
furono ritenute tali dal Pubblico Ministero.
In tale ordine di idee la difesa del Figari sostiene,
innanzi tutto, la violazione degli art. 76 e 77 Cost.
da parte degli artt. 1, 2, 18 del R. D. 8 febbraio
1923, n. 1067, recante "norme per il servizio
delle comunicazioni senza filo". Gli artt. 1 e 18
sarebbero viziati per eccesso di delega rispetto alla
legge 3 dicembre 1922, n. 1001, la quale non
consentiva allo Stato di riservarsi un pubblico
servizio, e tanto meno quello della televisione;
l'art. 2 non prevede affatto un monopolio statale
della televisione; comunque, il monopolio
contrasterebbe con gli artt. 41 e 43 della
Costituzione Altrettale violazione risiederebbe
nell'art. 1 Cod. postale, lesivo poi anch'esso degli
artt. 76 e 77 Cost. per difetto di delega, in materia
di televisione, nella legge 13 aprile 1933, n. 336.
Sarebbe "inficiato di incostituzionalità per le
medesime ragioni" l'art. 1 legge 14 marzo 1952,
n. 196, recante modifiche al Codice postale.
Incorrerebbero, poi, in violazione dell'art. 87,
quinto comma Cost., il D.P.R. 26 gennaio 1952, n. 180,
e il D.P.R. 17 agosto 1957, n. 1136, sulla
approvazione ed esecutorietà della convenzione di
concessione in esclusiva della televisione alla RAI.
Infine, il Figari lamenta che il monopolio statale
violerebbe gli artt. 21, 33, 41, 43 della
Costituzione.
Il Figari sostiene diffusamente che, fino alla
ratifica della convenzione internazionale di Atlantic
City del 1947, nel nostro ordinamento nessuna
disposizione normativa si sarebbe occupata della
televisione; per cui l'attribuzione di essa in
esclusiva alla RAI, avvenuta nel 1952, e non
contemplata da alcuna norma, fu un atto arbitrario.
Nel Codice postale del 1936 si parlava - secondo il
Figari - di televisione nel senso di trasmissione
delle sole immagini fisse e non anche di quelle
animate. Solo con la convenzione di Atlantic City
venne chiaramente definita la televisione nel senso di
"trasmissione di immagini non permanenti di
soggetti fissi o mobili".
Quanto alla violazione degli artt. 21, 33, 41, 43
Cost. da parte delle disposizioni istitutive del
monopolio statale televisivo, il Figari
sostanzialmente si riporta agli argomenti
dell'ordinanza di rimessione.
11. - In data 14 e 15 giugno 1960, la difesa del
Figari e l'Avvocatura dello Stato hanno
rispettivamente depositato una memoria.
Nella memoria del Figari viene riaffermata la tesi che
il Codice postale sarebbe incorso in eccesso di delega
nello stabilire un sistema di concessione per la
televisione - attività nuova e non conosciuta, nel
suo significato attuale, al momento della legge di
delega del 1933. Siccome, poi, l'esclusiva della
televisione fu, in fatto, realizzata soltanto nel 1952
(con la convenzione tra lo Stato e la RAI), si pone la
questione "se sarebbe stato possibile, vigente la
Costituzione con il suo art. 76, utilizzare ancora una
legge di delega del 1933".
In ordine alla violazione, da parte del Codice
postale, degli artt. 21, 33, 41 e 43 Cost., a parte
gli argomenti comuni alle altre difese, delle quali
già si é riferito, la difesa del Figari nega che la
televisione - non diversamente dal giornale, dal
libro, dal cinematografo, dal teatro - possa esser
considerata come un servizio pubblico essenziale; e
sottolinea che tutti questi mezzi di diffusione del
pensiero né sono compresi tra i servizi elencati nel
T.U. sulla municipalizzazione 15 ottobre 1925, n.
2578, né sono stati considerati inerenti a pubblici
servizi dalla giurisprudenza formatasi sugli artt.
357-359 Codice penale. Nel nostro ordinamento non si
sono mai concepiti, né sono ammissibili, servizi
pubblici esclusivi nel campo di attività in grado di
concorrere alla formazione della opinione e della
cultura: la stampa, l'informazione, il teatro, le
manifestazioni artistiche e culturali, la scuola non
sono suscettibili di monopolio, perché non c'é
dottrina e cultura di Stato. I monopoli "sono
pensabili soltanto per imprese nello stretto
significato economico del termine". Per
escludere, poi, che la televisione possa esser
concepita come un servizio pubblico essenziale, basta
fare appello alla coscienza collettiva, la quale non
si meraviglia affatto se taluno faccia a meno della
televisione (e neanche se taluno faccia a meno di
leggere i giornali).
La difesa del Figari nega anche che, in fatto, la
situazione dei canali disponibili renderebbe minimo il
numero delle possibili stazioni trasmittenti: e ciò,
tanto più, in quanto - afferma il Figari - il numero
dei canali non utilizzati dalla RAI sarebbe di 60-70
nel campo Uhf, e in quanto le trasmissioni non si
disturbano a vicenda se non nell'ambito di poche
decine di chilometri. Contesta, inoltre, che l'elevato
costo dell'attività o la imprescindibilità di
interventi statali sotto forma di licenza o di
autorizzazione possono essere invocati per
giustificare la collettivizzazione di una qualche
attività. Aggiunge che chiunque non voglia tradire lo
spirito dell'art. 21 penserà, anzitutto, che il
problema della collettivizzazione non si pone fino a
che é possibile soddisfare le limitate richieste di
attribuzione dei canali disponibili, e che,
"quando non tutte le richieste potessero venire
completamente e contemporaneamente soddisfatte, sarà
a passare ad altri accorgimenti (più di uno, facili
ad ipotizzarsi) per dare a ciascuno tutto ciò che é
possibile dargli".
La memoria conclude osservando che l'istituzione del
monopolio della televisione non é imposta nemmeno da
ragioni "di utilità generale": l'art. 43
Cost. tende ad "assicurare che certi beni possono
venire resi di possibile accesso a tutti, e alle
migliori condizioni"; e "non é dubbio che i
telespettatori sarebbero serviti più largamente e con
maggiore soddisfazione di ogni gruppo, allorché
potessero disporre di più di una televisione".
12. - Gli argomenti esposti nella memoria della
Avvocatura dello Stato coincidono con quelli da questa
rappresentati nel giudizio promosso con l'ordinanza
del Consiglio di Stato.
13. - All'udienza di trattazione, le due cause sono
state discusse congiuntamente ed i difensori hanno
ampiamente illustrato le rispettive tesi.
Considerato in diritto
1. - Le questioni deferite all'esame di questa Corte
dalla ordinanza del Consiglio di Stato e da quella del
Giudice istruttore presso il Tribunale di Milano
riguardano la rispondenza ai precetti degli artt. 21,
33, 41 e 43 Cost. delle disposizioni degli artt. 1 e
168, n. 5, del Codice postale approvato con R.D. 27
febbraio 1936, n. 645, per la parte concernente la
riserva allo Stato dei servizi di televisione
circolare a mezzo di onde radioelettriche, e la
conseguente esclusione della possibilità, per chi non
ne abbia ottenuto concessione dallo Stato, di
impiantare ed esercitare servizi del genere. I due
giudizi, i quali sono stati discussi congiuntamente,
data la evidente connessione e l'identità delle
questioni, possono essere riuniti.
2. - Sono infondate e vanno respinte entrambe le
eccezioni pregiudiziali sollevate dalla RAI e dalla
Avvocatura dello Stato nel giudizio promosso con la
ordinanza del Consiglio di Stato.
Secondo la prima di tali eccezioni, siccome l'istanza
della Società "Il Tempo-TV", del rifiuto
della quale doveva giudicare; il Consiglio di Stato -
istanza volta a ottenere il consenso all'impianto e
all'esercizio di un servizio televisivo -, era
essenzialmente e dichiaratamente ispirata da intento
di lucro, e non da quello di facilitare
disinteressatamente la diffusione del pensiero, della
cultura e dell'arte, le norme della Costituzione,
delle quali la Società poteva avere interesse a far
dichiarare l'inosservanza da parte della legislazione
vigente, mai potrebbero essere quelle dettate a tutela
della libertà di diffusione del pensiero e della
libertà della cultura e dell'arte (artt. 21 e 33
Cost.), bensì soltanto quelle dettate a tutela della
libertà dell'iniziativa economica privata (art. 41,
coi limiti di cui all'art. 43). La rimessione a questa
Corte delle questioni di legittimità delle norme
impugnate in riferimento agli artt. 21 e 33 Cost.,
senza che il Consiglio di Stato si sia dato carico
dell'eccezione (sollevata in quella sede dalla RAI) in
ordine alla irrilevanza di tali questioni, stante la
carenza di interesse della Società "II
Tempo-TV" (che le sollevava) in relazione alla
violazione di quei precetti costituzionali,
determinerebbe la dedotta inammissibilità.
La tesi non può essere condivisa. Il sistema delle
garanzie costituzionali in vigore si basa sul
principio che quando, comunque, appaia non indubbia la
legittimità di una disposizione legislativa da
applicare al caso concreto - qualsiasi possa essere la
norma costituzionale violata - il giudice ha il dovere
di deferire la questione relativa alla Corte
costituzionale (art. 1 legge cost. 9 febbraio 1948, n.
1, e art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87). Per il solo
fatto della esistenza di un sospetto di
incostituzionalità, interest rei publicae che
sulla questione si pronunci l'organo di garanzia
costituzionale. Le uniche indagini che il giudice deve
e può compiere, prima di rimettere alla Corte una
questione, sono quella circa la necessaria
pregiudizialità di tale questione rispetto al caso da
decidere, e quella circa la non manifesta infondatezza
della questione stessa.
Orbene, come non può esser negato che nel caso in
esame il Consiglio di Stato abbia svolto la necessaria
indagine relativa alla non manifesta infondatezza di
tutte le questioni sottoposte alla Corte, del pari
nessuno può negare - né alcuna delle parti in causa
nega - che esso si sia posto - motivando anzi
adeguatamente al riguardo - il problema della
rilevanza delle questioni stesse, ai fini del
decidere. E da quanto procede risulta che, per
definizione, tale rilevanza sussiste indistintamente,
in relazione a tutte le norme costituzionali della cui
osservanza il giudice ha ritenuto di dubitare. Onde
non può, in proposito, avere importanza - e non
occorre, quindi - alcuna indagine circa gli interessi
da esse tutelati e circa il valore che questi possano
avere per le parti del giudizio a quo.
3. - La seconda eccezione - sollevata dalla sola
Avvocatura dello Stato - si basa sul rilievo che, non
avendo la Società "Il Tempo-TV" avanzato
alcuna istanza al fine di ottenere la possibilità di
utilizzare il servizio televisivo della RAI per
effettuare trasmissioni di proprio interesse -
possibilità che rappresenterebbe, secondo la stessa
ordinanza di rimessione, l'unico bene garantito dagli
artt. 21 e 33 Cost., nei confronti del quale
sussisterebbe il sospetto di lesione da parte della
vigente disciplina dei servizi televisivi -,
mancherebbe il necessario rapporto di pregiudizialità
tra la questione deferita alla Corte circa la pretesa
violazione degli artt. 21 e 33 Cost., e il caso che il
Consiglio di Stato dovrà decidere, dato che questo
presuppone soltanto la risoluzione della questione di
legittimità costituzionale della riserva allo Stato
dei servizi televisivi.
Per respingere tale eccezione basta tener presente che
é proprio e solo in riferimento alla legittimità
costituzionale di tale riserva, che il Consiglio di
Stato si é posto il problema della compatibilità con
gli artt. 21 e 33 Cost. della mancata previsione di un
obbligo per lo Stato di ammettere a effettuare
trasmissioni televisive chiunque possa avervi
interesse: il Consiglio, cioè, ha sollevato la
questione di legittimità costituzionale di una
riserva della televisione allo Stato per il fatto di
non essere accompagnata da una contemporanea
previsione dell'obbligo dello Stato di ammettere al
godimento dei servizi chiunque vi sia interessato.
Posto il problema in tali termini, non può
considerarsi omesso l'esame della rilevanza, in ordine
alla decisione del giudizio a quo, della proposta
questione di legittimità costituzionale. Il che é
sufficiente ai fini della ammissibilità, in questa
sede, del giudizio su quest'ultima.
4. - In ordine all'oggetto della presente decisione,
é da porre in chiaro, prima d'ogni altra cosa, che le
sole disposizioni legislative, delle quali bisogna
esaminare la legittimità costituzionale, sono quelle
dell'art. 1 e dell'art. 168, n. 5, del Codice postale,
e non anche quelle altre delle quali si discute nelle
deduzioni presentate, nell'interesse dell'imputato
Figari, nel giudizio promosso con l'ordinanza del
Giudice istruttore presso il Tribunale di Milano,
giacché esse non sono state deferite a questa Corte
dall'ordinanza di rimessione. Né potrebbe avere alcun
significato - pur ammesso che fosse esatta (cosa che,
invece, non sembra) - la circostanza, affermata dalla
difesa del Figari, che il Pubblico Ministero, nelle
sue conclusioni (che non sono un atto di
giurisdizione), non ne avrebbe escluso la non
manifesta infondatezza (art. 23 legge 11 marzo 1953,
n. 87).
5. - Venendo all'esame del merito, osserva la Corte
che, data la attuale limitatezza di fatto dei
"canali" utilizzabili, la televisione a
mezzo di onde radioelettriche (radiotelevisione) si
caratterizza indubbiamente come una attività
predestinata, in regime di libera iniziativa, quanto
meno all'oligopolio: oligopolio totale od oligopolio
locale, a seconda che i servizi vengano realizzati su
scala nazionale o su scala locale. Collocandosi così
tra le categorie di "imprese" che si
riferiscono a "situazioni di monopolio", nel
senso in cui ne parla l'art. 43 Cost., per ciò solo
essa rientra tra quelle che - sempre che non vi ostino
altri precetti costituzionali - l'articolo stesso
consente di sottrarre alla libera iniziativa.
Né appare arbitrario che il legislatore ravvisi nella
diffusione radiotelevisiva i caratteri di attività
"di preminente interesse generale",
richiesti dall'art. 43 perché ne sia consentita la
sottrazione alla libera iniziativa. É fuori
discussione, infatti, l'altissima importanza che,
nell'attuale fase della nostra civiltà, gli interessi
che la televisione tende a soddisfare (informazione,
cultura, svago) assumono - e su vastissima scala - non
solo per i singoli componenti del corpo sociale, ma
anche per questo nella sua unità.
Siccome, poi, a causa della limitatezza dei
"canali" utilizzabili, i servizi
radiotelevisivi, se non fossero riservati allo Stato o
a un ente statale ad hoc, cadrebbero naturalmente
nella disponibilità di uno o di pochi soggetti,
prevedibilmente mossi da interessi particolari, non
può considerarsi arbitrario neanche il riconoscimento
della esistenza di ragioni "di utilità
generale" idonee a giustificare, ai sensi
dell'art. 43, l'avocazione, in esclusiva, dei servizi
allo Stato, dato che questo, istituzionalmente, é in
grado di esercitarli in più favorevoli condizioni di
obbiettività, di imparzialità, di completezza e di
continuità in tutto il territorio nazionale.
Ritiene, pertanto, la Corte che la riserva allo Stato
dei servizi di radiotelevisione, e la conseguente
possibilità di affidamento di essi in concessione,
non contrastano col sistema degli artt. 41 e 43 della
Costituzione.
6. - Resta però a vedere se una siffatta riserva
contrasti con gli artt. 21 e 33 della Costituzione.
A tal riguardo, sia l'ordinanza di rimessione del
Consiglio di Stato, sia le difese delle parti, non
mancano di sottolineare opportunamente che, siccome
l'illegittimità denunciata consiste nella lesione non
tanto della libertà di concepire e di manifestare le
idee e le varie espressioni della scienza e dell'arte,
quanto della libertà di avvalersi di ogni possibile
mezzo per diffonderle, la norma costituzionale alla
quale bisogna essenzialmente por mente é quella del
primo comma dell'art. 21, secondo la quale tutti hanno
diritto di avvalersi, per manifestare il proprio
pensiero, oltre che della parola e dello scritto,
anche di "ogni altro mezzo di diffusione".
É chiaro che quella particolare manifestazione della
libertà di pensiero che consiste nella possibilità
di diffonderlo, riguardando ogni forma di pensiero,
riguarda anche quelle più elevate espressioni di
esso, che sono le creazioni artistiche e scientifiche.
Della diffusione di queste non si occupa l'art. 33
Cost., il quale proclama e tutela la libertà
dell'arte o della scienza e quella del loro
insegnamento. Onde la disciplina della loro diffusione
é da considerar ricompresa nel disposto del 1 comma
dell'art. 21.
Di questo dunque occorre occuparsi.
7. - Anche in relazione a quest'ultimo precetto,
ritiene però la Corte che la riserva allo Stato dei
servizi di radiotelevisione - e la conseguente
possibilità di affidamento di essi in concessione -
non contrasti con la Costituzione.
É vero che il primo comma dell'art. 21 riconosce a
tutti la possibilità di diffondere il pensiero (e
naturalmente non il solo pensiero originale di chi lo
manifesta) con qualsiasi mezzo. Ma già si é visto
che, per ragioni inerenti alla limitatezza di questo
particolare mezzo, é escluso che chiunque lo
desideri, e ne abbia la capacità finanziaria, sia
senz'altro in grado di esercitare servizi di
radiotelevisione: in regime di libertà di iniziativa,
questi non potrebbero essere che privilegio di pochi.
Ciò premesso, osserva la Corte che, per risolvere il
quesito della rispondenza dell'attuale disciplina
legislativa all'art. 21, primo comma, Cost., non é
indispensabile affrontare il problema se, in via
generale, sia compatibile con quest'ultimo
l'avocazione allo Stato di qualsiasi mezzo di
diffusione del pensiero. É sufficiente, infatti,
dimostrare che non contrasta col precetto
costituzionale in esame l'avocazione allo Stato di
quei mezzi di diffusione del pensiero che, in regime
di libertà di iniziativa, abbiano dato luogo, o siano
naturalmente destinati a dar luogo, a situazioni di
monopolio, o - il che é lo stesso - di oligopolio. E
la dimostrazione é in re ipsa, quando si
consideri che, rispetto a qualsiasi altro soggetto
monopolista, lo Stato monopolista si trova
istituzionalmente nelle condizioni di obbiettività e
imparzialità più favorevoli per conseguire il
superamento delle difficoltà frapposte dalla naturale
limitatezza del mezzo alla realizzazione del precetto
costituzionale volto ad assicurare ai singoli la
possibilità di diffondere il pensiero con qualsiasi
mezzo.
In quanto precede é implicito che allo Stato
monopolista di un servizio destinato alla diffusione
del pensiero incombe l'obbligo di assicurare, in
condizioni di imparzialità e obbiettività, la
possibilità potenziale di goderne - naturalmente nei
limiti che si impongono per questa come per ogni altra
libertà, e nei modi richiesti dalle esigenze tecniche
e di funzionalità - a chi sia interessato ad
avvalersene per la diffusione del pensiero nei vari
modi del suo manifestarsi. Donde l'esigenza di leggi
destinate a disciplinare tale possibilità potenziale
e ad assicurare adeguate garanzie di imparzialità nel
vaglio delle istanze di ammissione all'utilizzazione
del servizio non contrastanti con l'ordinamento, con
le esigenze tecniche e con altri interessi degni di
tutela (varietà e dignità dei programmi, ecc.).
Della normazione esistente in proposito per le
trasmissioni televisive nel vigente ordinamento, e che
deve esser considerata autonoma rispetto alle
disposizioni che riservano la radiotelevisione allo
Stato, la Corte non può però occuparsi, essendo
chiamata a pronunciarsi unicamente sulla legittimità
degli art. 1 e 168, n. 5, del Codice postale, che
riguarda la anzidetta riserva.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riunisce i due giudizi indicati in epigrafe;
rigetta le eccezioni pregiudiziali sollevate dalla
difesa della RAI-Radiotelevisione italiana s. p. a. e
dall'Avvocatura dello Stato;
dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale degli artt. 1 e 168, n. 5, del Codice
postale approvato con R. D. 27 febbraio 1936, n. 645,
proposte dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con
ordinanza 15 luglio 1959, n. 505, e dal Giudice
istruttore presso il Tribunale di Milano, con
ordinanza 13 maggio 1960, in riferimento agli artt.
21, 33, 41 e 43 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 luglio
1960.
Tomaso PERASSI - Giuseppe CAPPI - Gaspare AMBROSINI -
Mario COSATTI - Francesco PANTALEO GABRIELI - Giuseppe
CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Giovanni
CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo
SANDULLI - Giuseppe BRANCA.
Depositata in Cancelleria il 13 luglio 1960.
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