REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Aldo SANDULLI, Presidente
Prof. Biagio PETROCELLI
Dott. Antonio MANCA
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale
degli artt. 24, 28 cpv., 29, 33, 34, 35, 45, 46, 47,
51, lett. c e d, 54, 55, 63, terzo comma, della legge
3 febbraio 1963, n. 69 (ordinamento della professione
di giornalista), promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 7 febbraio 1967 dal
Tribunale di Torino sul ricorso di Ricciardi Maria,
iscritta al n. 135 del Registro ordinanze 1967 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 190 del 29 luglio 1967;
2) ordinanza emessa il 5 giugno 1967 dal pretore di
Catania nel procedimento penale a carico di Settinori
Giuseppe e Longhitano Giuseppe, iscritta al n. 210 del
Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 271 del 28 ottobre 1967.
Visti gli atti di intervento del Presidente del
Consiglio dei Ministri e di costituzione di Lenghitano
Giuseppe e dell'Ordine del giornalisti di Sicilia;
udita nell'udienza pubblica del 14 febbraio 1968 la
relazione del Giudice Francesco Paolo Bonifacio;
uditi gli avvocati Arturo Carlo Jemolo e Paolo
Barile, per Longhitano Giuseppe, gli avvocati Massimo
Severo Giannini e Nino Gaeta, per l'Ordine del
giornalisti di Sicilia, ed il sostituto avvocato
generale dello Stato Piero Peronaci, per il Presidente
del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Con ordinanza del 5 giugno 1967, emessa nel
procedimento penale a carico di Giuseppe Settineri e
Giuseppe Longhitano, il pretore di Catania ha
sollevato varie questioni di legittimità
costituzionali concernenti numerose disposizioni della
legge 3 febbraio 1963, n. 69, relativa all'ordinamento
della professione di giornalista.
Dopo aver osservato che nel giudizio innanzi a lui
pendente vanno applicate norme che, imponendo
l'iscrizione obbligatoria nell'albo, costituiscono una
limitazione assoluta della libertà di stampa e dopo
aver messo in evidenza che la sopravvenuta amnistia
del reato ascritto agli imputati non esclude la
rilevanza della questione sulla legittimità
costituzionale delle norme che lo configurano, il
pretore enuncia le ragioni che gli fanno ritenere non
manifestamente infondati i dubbi sulla
costituzionalità delle disposizioni impugnate e che
possono così riassumersi:
1) l'art. 29 della legge condiziona l'iscrizione
nell'elenco del professionisti alla previa iscrizione
nel registro del praticanti ed all'esercizio
continuativo della pratica per almeno 18 mesi: con il
che la possibilità di intraprendere l'attività
giornalistica viene fatta dipendere dalla completa
discrezionalità - artt. 33 e 34 - degli editori, del
direttori del giornali e, attraverso l'Ordine, del
giornalisti già iscritti;
2) l'iscrizione nell'elenco dei pubblicisti - art.
35 - é condizionata alla dimostrazione di aver svolto
attività retribuita per almeno due anni, alla
certificazione del direttori delle pubblicazioni ed
alla valutazione del singoli Consigli dell'Ordine: e
ciò col pericolo di una possibile forma di censura
ideologica.
A proposito di queste prime due censure il pretore,
rilevato che alla discrezionalità altrui le suddette
norme rimettono la possibilità di esercitare un
diritto di libertà costituzionalmente garantito e da
valutare anche in riferimento all'art. 3 della
Costituzione, esclude ogni possibilità di raffronto
tra l'istituzione dell'albo del giornalisti e gli albi
relativi ad altre attività professionali che non
riguardano l'esercizio di diritti pubblici soggettivi,
ed osserva che la libertà di manifestare il proprio
pensiero non tollera limitazioni che non trovino
fondamento negli stessi principi costituzionali;
3) gli artt. 46 e 47, nelle parti in cui
prescrivono l'obbligo di iscrizione all'albo per i
direttori e i vice direttori responsabili dei
quotidiani, dei periodici e delle agenzie contrastano
sia con l'art. 21 che con gli artt. 18, 19 e 33 della
Costituzione, perché possono compromettere la
libertà di stampa, la libertà religiosa, la libertà
di associazione e la libertà della cultura;
4) l'art. 36 condiziona l'iscrizione di uno
straniero ad un trattamento di reciprocità, laddove
l'art. 21 della Costituzione garantisce a
"tutti" la libera manifestazione del
pensiero; ed inoltre la limitazione dell'iscrizione -
v. art. 33 reg. - a chi abbia esercitato la
professione in conformità alle leggi dello Stato di
appartenenza soffoca la libera voce di chi é
cittadino di un paese che non conosca la libertà di
stampa;
5) l'art. 63, comma terzo, prevede la
partecipazione di giornalisti designati dal Consiglio
dell'ordine ai collegi giudiziari di primo e secondo
grado, ma, in quanto non prevede le garanzie
necessarie ad assicurarne l'indipendenza, viola l'art.
108 della Costituzione;
6) la struttura di corporazione chiusa, propria
dell'Ordine, fa apparire costituzionalmente
illegittimi: a) l'art. 28 (v. anche art. 32 reg.), che
affida alla decisione irrevocabile del Consiglio la
valutazione della natura delle pubblicazioni a
carattere tecnico, professionale e scientifico; b)
l'art. 47, comma primo, che attribuisce al Consiglio
il compito di accertare se determinate pubblicazioni
siano organi di partiti o di movimenti politici o di
organizzazioni sindacali, e ciò col pericolo che
siano limitati i diritti riconosciuti dagli artt. 39 e
49 della Costituzione; c) gli artt. 51, c e d, 54 e
55, relativi alla sospensione ed alla radiazione,
perché queste misure colpiscono non solo il singolo,
ma anche il periodico, al quale viene meno uno del
requisiti richiesti per la registrazione; d) l'art.
24, che attribuisce al Ministro di grazia e giustizia
poteri che possono incidere sulla libertà di stampa.
L'ordinanza mette in evidenza che, pur essendo
strettamente rilevanti per il giudizio in corso solo
le questioni relative agli artt. 45, 29, 33, 34 e 35,
vengono rimesse alla Corte anche le altre disposizioni
di cui si é fatto cenno perché la Corte ne pronunzi
la caducazione in forza dell'art. 27 della legge 11
marzo 1953, n. 87. Il pretore conclude col rilievo che
molte delle norme impugnate non sarebbero forse
incostituzionali se l'alto non avesse carattere di
obbligatorietà, e a tal proposito ricorda sia le
norme fasciste che proprio attraverso la
regolamentazione dell'attività giornalistica
attentarono alla libertà di stampa, sia le opinioni
nettamente contrarie all'istituzione dell'albo
espresse, durante la Costituente e dopo, da eminenti
personalità del mondo democratico.
2. - L'ordinanza, regolarmente notificata alle
parti, al pubblico ministero ed al Presidente del
Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti
delle due Camere, é stata pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale n. 271 del 28 ottobre 1967.
Nel presente giudizio si sono costituiti il sig.
Giuseppe Longhitano, l'Ordine del giornalisti di
Sicilia ed il Presidente del Consiglio dei Ministri.
La difesa del Longhitano, dopo aver rilevato che
l'attività svolta dal giornalista professionista é
in sostanza attività di lavoro subordinato e che
perciò la legge in esame applica la normativa
generale concepita per i liberi professionisti a
persone che a tale categoria non appartengono,
denuncia il pieno contrasto fra la legge che riserva
l'attività giornalistica solo a chi sia iscritto in
un albo ed il principio costituzionale che a tutti
garantisce il diritto di manifestare il proprio
pensiero con lo scritto o con ogni altro mezzo di
diffusione e, dunque, anche attraverso il giornale,
che é il più antico e più usato strumento di
propaganda delle idee: contrasto ancor più evidente
se si considera che la stampa non può essere soggetta
ad autorizzazioni, mentre la legge consente la
redazione del giornale solo a chi abbia ricevuto il
crisma di un apparato in vario modo agganciato ad
organi statali. Né varrebbe, secondo la difesa, far
richiamo a norme le quali impongono prove di capacità
per l'esercizio di determinate attività, perché esse
presuppongono la necessità di accertare doti tecniche
a tutela di interessi del terzi, laddove pretendere
che il giornale sia ben fatto significa imprimergli un
carattere di ufficiosità: il giornalismo si avvicina
all'arte e non tollera altro giudizio che quello del
pubblico del lettori, meno che mai un giudizio (ad es.
perfino sull'obbligo del rispetto della verità
sostanziale del fatti) che l'art. 2 finisce con
l'affidare addirittura ai Tribunali dello Stato. La
legge, continua la difesa, può divenire, ad un primo
avvento di governo autoritario, pericoloso mezzo di
pressione e contrasta altresì con l'art. 3, secondo
comma, della Costituzione, perché, pretendendo titoli
di cultura, impedisce a soggetti che non li posseggano
o non possano sottoporsi alla pratica, di dar vita ad
un giornale; con gli artt. 18, 19, 39 e 49 della
Costituzione perché la pubblicazione di un giornale
può essere il fine di un'associazione, può servire
allo scopo di promuovere un risveglio religioso, può
avere finalità sindacali o politiche; con l'art. 33
perché il campo prossimo al giornalismo é quello
della cultura e dell'arte; infine con l'art. 108 della
Costituzione perché é la maggioranza del Consiglio
dell'ordine, che quasi sempre ha colorazione politica,
a designare i componenti del collegio giudicante e
perché questa designazione é fatta dallo stesso
organo contro le cui deliberazioni si ricorre.
Tutte queste ragioni - così conclude la difesa -
dimostrano l'incostituzionalità della legge, ma non
pregiudicano la possibilità di contratti collettivi
di categoria e anche di leggi che in materia di
concorsi, di previdenza ecc. dovessero operare
distinzioni tra categorie e categorie di giornalisti,
secondo il criterio dell'importanza del giornale,
dell'intensità di opera prestatavi e così via.
3. - Opposte sono le conclusioni alle quali
perviene la difesa dell'Ordine del giornalisti di
Sicilia (atto di deduzioni depositato il 16 novembre
1967) la quale, dopo una breve ricostruzione delle
circostanze di fatto che diedero origine al processo
di merito, osserva che lo stesso pretore ha dichiarato
irrilevanti le questioni concernenti alcuni articoli
della legge sicché l'oggetto del giudizio di
costituzionalità, in base ai principi, deve
riguardare solo gli artt. 45, 29, 33, 34 e 35 in
riferimento agli artt. 21 e 3 della Costituzione. Ciò
premesso, la difesa contesta la fondatezza dei dubbi
prospettati dal giudice a quo: ed infatti, a suo
avviso, é da escludere che da parte degli editori,
dei direttori e degli stessi Ordini possa essere
esercitata una qualsiasi discrezionalità in ordine ai
vari momenti del procedimento di iscrizione nell'albo;
é certo che tutti i giornali ospitano scritti di non
giornalisti, e la stessa legge, disponendo che chi
chiede di essere incluso nell'elenco del pubblicisti
esibisca giornali e periodici contenenti suoi scritti,
conferma che é ben possibile esprimere il proprio
pensiero attraverso i giornali senza avere qualifiche
professionali; in definitiva la legge impugnata é
congegnata in modo da salvaguardare rigorosamente la
libertà ed ha a solo fine la tutela del giornalista
contro l'imprenditore, affidata ad un ordine a
struttura democratica.
La difesa dell'Ordine, per completezza di
esposizione, esamina anche le altre questioni che, per
quanto in precedenza esposto, a suo parere, devono
essere ritenute irrilevanti. In particolare essa
sostiene: a) gli artt. 46 e 47 sono incensurabili,
perché se sul direttore e vice direttore gravano
particolari responsabilità, non si può non
richiedere che tali cariche siano ricoperte da persone
qualificate attraverso l'iscrizione nell'albo; b) la
disciplina relativa all'iscrizione del giornalista
straniero é infondata, perché l'iscrizione in un
elenco non viola la libertà di manifestazione del
pensiero; c) la particolare composizione dei collegi
giudicanti di primo e secondo grado é legittimità
alla stregua della stessa giurisprudenza di questa
Corte che si é già occupata di collegi aventi quali
componenti soggetti estranei alla magistratura; d) il
giudizio del Consiglio sulla natura tecnica,
professionale o scientifica di pubblicazioni non é
libero, ma ha il carattere di discrezionalità
tecnica; e) per quanto concerne le eccezioni stabilite
per i periodici di partito politico o di sindacato, si
tratta di una circostanza obbiettiva che qualunque
giudice può accertare; f) che la sospensione o
radiazione dall'albo del direttore di giornali faccia
venir meno uno dei requisiti richiesti per la
registrazione del periodico é cosa del tutto logica e
inevitabile; g) i poteri conferiti al Ministro sono
gli stessi che spettano nei confronti di qualsiasi
ordine professionale e non si vede quale norma
costituzionale sia violata. La difesa conclude
chiedendo che tutte le questioni sollevate dal pretore
vengano dichiarate non fondate.
4. - Secondo l'Avvocatura dello Stato - v. atto di
deduzioni depositato il 17 novembre 1967 - la stessa
civiltà contemporanea, allargando l'orizzonte sul
quale la collettività porta la sua attenzione e
accrescendo le possibilità tecniche
dell'informazione, imprime all'attività giornalistica
uno spiccato carattere di professionalità che non
poteva lasciare insensibile il legislatore. In questa
premessa va inquadrata la legge in esame, che non
appare in contrasto con la Costituzione. Già la
Corte, infatti, ha riconosciuto (sent. n. 38 del 1961)
che il legislatore ha potestà di stabilire adeguata
disciplina all'esercizio della manifestazione del
pensiero attraverso la stampa, ed é da escludere che
l'art. 21 della Costituzione richieda che il diritto
ivi consacrato debba necessariamente esercitarsi
attraverso la professione di giornalista. La legge in
esame non nega che chi non voglia intraprendere la
professione giornalistica possa limitarsi ad
un'attività giornalistica occasionale, e di
conseguenza é erroneo ritenere che per poter
manifestare il proprio pensiero sia indispensabile
esercitare la professione di giornalista: sicché la
questione di costituzionalità é totalmente
infondata. Tale essa appare anche per quanto riguarda
le norme che disciplinano le modalità
dell'iscrizione, tutte intese all'accertamento di
requisiti che hanno natura specializzante: e non é
dato vedere come la conoscenza delle cognizioni
richiesta dalla legge nonché l'esercizio della
pratica o l'esibizione di scritti possano in qualche
modo limitare la libertà del soggetto. Circa le altre
questioni sollevate dal pretore, anche l'Avvocatura
mette in evidenza che la stessa ordinanza le dichiara
irrilevanti: esse comunque sono infondate perché le
disposizioni impugnate sono tutte in armonia con le
caratteristiche proprie di un albo professionale e coi
poteri di autogoverno dell'Ordine, il cui esercizio é
sempre sindacabile in via giurisdizionale.
5. - Tutte le parti hanno depositato memorie
illustrative delle tesi già sostenute negli atti di
costituzione.
La difesa del Longhitano sottolinea, anzitutto, il
contrasto fra l'albo dei giornalisti, disciplinato
dalla legge impugnata, col sistema generale degli albi
professionali: i giornalisti, infatti, non sono liberi
professionisti, ma impiegati; la disciplina delle
classi professionali in ordini o collegi ha sempre lo
scopo di tutelare un interesse sociale, e presuppone
che già ci sia una delimitazione degli appartenenti
alla categoria attraverso la qualificazione di un
titolo di studio, laddove, come é logico, l'ordine
dei giornalisti prescinde da tale requisito; gli
ordini non sono creati per perseguire interessi
sindacali, sicché lo scopo attribuito alla legge, e,
cioé, la tutela della categoria, é insussistente,
come é dimostrato dalla concomitante presenza di
contratti collettivi stipulati dalle associazioni.
Dopo aver definito come atto di ammissione
l'iscrizione nell'albo, la difesa osserva che
rilevante ai fini della valutazione della violazione
dell'art. 21 della Costituzione é il controllo
amministrativo che si svolge nei confronti del
giornalisti al momento dell'ammissione (artt. 31, 34,
35), nel corso dell'esercizio professionale
(procedimento disciplinare in relazione a fatti non
conformi al decoro ed alla dignità; azione
giudiziaria ex art. 63 ma con collegi integrati da un
giornalista professionista e da un pubblicista) ed
esercitato anche dal Ministro della giustizia. Fatta
questa ampia premessa, la memoria prosegue affermando
che la disciplina dell'albo del giornalisti
affievolisce il diritto soggettivo perfetto nascente
dell'art. 21 della Costituzione, e ciò a causa del
conferimento di una potestà discrezionale che dà
luogo anche a disparità di trattamento: richiamando
quanto già detto, la difesa conduce un analitico
esame delle norme che tale discrezionalità affidano
all'ordine e conclude che siffatto regime integra una
prima violazione degli artt. 21 e 3 della
Costituzione, dalla quale deriva la illegittimità non
solo di singole norme ma dell'intera legge: tuttavia
anche le ulteriori censure mosse dall'ordinanza di
rimessione ad altre disposizioni del provvedimento
sono pienamente fondate.
Ad avviso della difesa dell'Ordine del giornalisti
di Sicilia invece, la tesi della incostituzionalità
della legge non poggia su alcuna argomentazione
giuridica, ma nasce dalla confusione fra due fenomeni
nettamente distinti, vale a dire l'esercizio della
professione giornalistica e la libertà di
manifestazione del pensiero a mezzo della
collaborazione a giornali. Quest'ultima é e può
essere esercitata da chiunque, come é dimostrato
dalla realtà dei fatti che trova pieno riscontro
nelle norme in esame: l'art. 35 della legge infatti
presuppone ovviamente la possibilità di
collaborazione giornalistica, regolarmente retribuita,
da parte di chi giornalista non é. Ciò é
sufficiente, secondo la difesa, a dimostrare che la
legge non pone alcuno ostacolo a chi voglia scrivere
sui giornali e non viola la libertà sancita dall'art.
21 della Costituzione: tuttavia va anche aggiunto che
la tesi avversaria, secondo la quale non si potrebbe
rinvenire giustificazione alcuna all'istituzione
dell'Ordine del giornalisti, é inesatta perché non
tiene conto della mutata realtà in cui gli ordini
professionali oggi si muovono, portandoli ad
interessarsi sempre più ai professionisti impiegati.
L'Ordine del giornalisti si inserisce in questa
problematica contemporanea, regola una realtà assai
complessa, e la sua istituzione - che, tuttavia, non
impone la iscrizione nell'albo quale presupposto della
collaborazione ai giornali - risponde all'esigenza di
apprestare una garanzia di serietà di preparazione
professionale, attua una tutela della professione,
garantisce i giornalisti nei confronti delle imprese.
L'Avvocatura dello Stato a sua volta richiama le
trasformazioni sociali che giustificano il carattere
di professionalità del giornalismo e mette in
evidenza che la legge non impone affatto l'esercizio
della professione a chi voglia manifestare il proprio
pensiero a mezzo della stampa: l'eventualità che il
giornale rifiuti di ospitare scritti di un non
giornalista é irrilevante, perché anche il
giornalista professionista può non ottenere di essere
assunto presso un giornale. Quanto alle norme ritenute
dallo stesso pretore irrilevanti, l'Avvocatura osserva
che l'ordinanza invoca l'art. 27 della legge 11 marzo
1953, n. 87, non a proposito, perché tale
disposizione può essere applicabile solo nei limiti
dell'impugnazione e non nel caso di questioni
costituzionali totalmente diverse.
6. - Nel corso di un procedimento civile, promosso
dalla signora Maria Ricciardi Cuniberti per impugnare
la deliberazione del 22 settembre 1966 con la quale il
Consiglio nazionale dell'ordine del giornalisti aveva
respinto il suo ricorso avverso il provvedimento di
cancellazione dall'albo emanato dal Consiglio
interregionale Piemonte - Valle d'Aosta, il Tribunale
di Torino ha sollevato di ufficio una questione di
legittimità costituzionale dell'art. 63, comma terzo,
della legge 3 febbraio 1963, n. 69, in riferimento
agli artt. 102, secondo comma, e 108 cpv. della
Costituzione.
L'ordinanza, affermata la rilevanza della
questione, osserva che l'ordinamento costituzionale,
ispirato al principio dell'unità della giurisdizione,
autorizza le sezioni specializzate, ma solo a patto
che queste non si trasformino in veri e propri giudici
speciali: ipotesi che si verifica quando viene meno
l'indipendenza del membri laici del collegio. Dopo
aver richiamato i principi affermati da questa Corte
nella sentenza n. 108 del 1962 relativa alle sezioni
specializzate agrarie, il Tribunale di Torino rileva
che nella norma in esame - la quale prevede
l'integrazione del collegio con la partecipazione di
un giornalista e di un pubblicista nominati in numero
doppio dal Presidente della Corte di appello su
designazione del Consiglio nazionale dell'ordine - si
riscontrano le stesse deficienze che in quella
occasione la Corte ritenne costituissero motivo di
illegittimità costituzionale: da una parte, infatti,
manca una sufficiente specificazione del requisiti di
idoneità e capacità del membro laico, tale non
potendo ritenersi la mera qualifica di giornalista;
dall'altra non viene assicurata la necessaria
indipendenza nei confronti dell'organizzazione di
provenienza, né la norma accenna ai casi di
ricusazione o di astensione o a quelli di sostituzioni
e supplenza, con la conseguente impossibilità di dare
applicazione agli artt. 51 e 52 del Codice di
procedura civile.
7. - L'ordinanza, emessa il 7 febbraio 1967,
ritualmente notificata alle parti e al Presidente del
Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti
delle due Camere, é stata pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale n. 190 del 29 luglio 1967.
Nel precedente giudizio si é costituita - atto
depositato l'8 maggio 1967 - la sola Avvocatura dello
Stato in rappresentanza e difesa del Presidente del
Consiglio.
Nelle deduzioni ed in una successiva memoria essa
sostiene che proprio alla stregua della giurisprudenza
di questa Corte - sent. n. 76 del 1961 e n. 108 del
1962 - la questione sollevata dal Tribunale di Torino
appare non fondata: ed infatti, nella specie,
l'idoneità del membro laico é inerente alla stessa
appartenenza alla categoria professionale disciplinata
per legge dall'Ordine e l'indipendenza - che nelle
norme costituzionali sembra peraltro doversi riferire
all'indipendenza "esterna" - é assicurata
pienamente perché, una volta nominati, gli esperti
sono sottratti ad ogni ingerenza dell'Ordine.
L'Avvocatura conclude osservando che il Consiglio
nazionale, su designazione del quale la nomina viene
effettuata, non ha alcun potere né sul professionista
né sull'Ordine regionale al quale questo é iscritto;
la nomina in numero doppio assicura, infine,
l'osservanza del principio della precostituzione del
giudice e l'applicazione degli istituti
dell'astensione e della ricusazione.
8. - Nell'udienza pubblica i difensori delle parti
hanno ampiamente illustrato le rispettive tesi e
conclusioni.
Considerato in diritto
1. - Le ordinanze del pretore di Catania e del
Tribunale di Torino propongono questioni di
legittimità costituzionale concernenti disposizioni
contenute tutte nella legge 3 febbraio 1963, n. 69, e
pertanto i relativi giudizi, congiuntamente discussi
nell'udienza pubblica, possono essere riuniti e decisi
con unica sentenza.
2. - Il pretore di Catania esplicitamente afferma
che rilevanti per la decisione della causa innanzi a
lui pendente sono solo le questioni riguardanti gli
artt. 45, 29, 33, 34 e 35, che vengono impugnati in
riferimento agli artt. 3 e 21 della Costituzione. Egli
ritiene, tuttavia, di poter sottoporre al controllo
della Corte, in forza dell'art. 27 della legge 11
marzo 1953, n. 87, numerose altre disposizioni della
stessa legge, e precisamente gli artt. 46, 47 e 63,
terzo comma, 28 cpv., 51, lett. c e d, 54, 55 e 24.
Questo secondo gruppo di questioni - formulate
anche in rapporto a norme costituzionali diverse da
quelle in relazione alle quali vengono denunziati gli
articoli ritenuti rilevanti - non può formare oggetto
del presente giudizio. Ed infatti la norma procedurale
invocata dal pretore attribuisce solo alla Corte
costituzionale la competenza ad accertare ed a
dichiarare se e quali disposizioni legislative siano
illegittime a causa dell'annullamento di quelle
ritualmente sottoposte al suo esame, ma non consente
affatto che il giudice a quo estenda l'impugnativa al
di là delle norme applicabili alla controversia e
proponga in questa guisa - contro il disposto
dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 -
questioni del tutto irrilevanti per la decisione del
giudizio principale.
Da ciò consegue che l'esame della Corte deve
essere portato esclusivamente sugli artt. 45, 29, 33,
34 e 35 della legge, nonché sull'art. 63, terzo
comma, che forma oggetto della questione sollevata dal
Tribunale di Torino. Va peraltro aggiunto che il
contenuto di altre disposizioni della legge sarà
tenuto presente dalla Corte, come innanzi si dirà, in
funzione di una compiuta valutazione della
legittimità costituzionale dell'art. 45.
3. - La legge 3 febbraio 1963, n. 69, ha istituito
l'Ordine del giornalisti, gli ha affidato la tenuta
dell'albo, ne ha disciplinato la struttura e il
funzionamento: l'art. 45 ha condizionato
all'iscrizione nell'albo l'uso del titolo e
l'esercizio della professione di giornalista,
sanzionando penalmente i corrispondenti divieti a
norma degli artt. 348 e 498 del Codice penale.
Non spetta alla Corte valutare l'opportunità della
creazione dell'Ordine, perché l'apprezzamento delle
ragioni di pubblico interesse che possano
giustificarlo appartiene alla sfera di
discrezionalità riservata al legislatore. Compete
invece alla Corte accertare se la riserva della
professione giornalistica ai soli iscritti all'Ordine
ed il modo in cui la legge ha disciplinato il regime
dell'albo comportino la violazione del principio
costituzionale - art. 21 - che a tutti riconosce il
"diritto di manifestare liberamente il proprio
pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo
di diffusione": un diritto, come altre volte é
stato detto (cfr. sent. n. 9 del 1965), coessenziale
al regime di libertà garantito dalla Costituzione,
inconciliabile con qualsiasi disciplina che
direttamente o indirettamente apra la via a pericolosi
attentati, e di fronte al quale non v'é pubblico
interesse che possa giustificare limitazioni che non
siano consentite dalla stessa Carta costituzionale.
4. - Ciò posto, la Corte osserva che per un'esatta
valutazione del fondamento della questione sottoposta
al suo esame occorre tener presente che la legge
impugnata, realizzando un proposito espresso fin dal
1944 dal legislatore democratico (art. 1 del D.L. Lt.
23 ottobre 1944, n. 302), disciplina l'esercizio
professionale giornalistico e non l'uso del giornale
come mezzo della libera manifestazione del pensiero:
sicché é esatto quanto sostengono sia la difesa
dell'Ordine di Sicilia sia l'Avvocatura dello Stato,
che essa non tocca il diritto che a "tutti"
l'art. 21 della Costituzione riconosce. Questo sarebbe
certo violato se solo gli iscritti all'albo fossero
legittimati a scrivere sui giornali, ma é da
escludere che una siffatta conseguenza derivi dalla
legge. Ne costituisce riprova, oltre l'oggetto stesso
del provvedimento, l'esplicita disposizione contenuta
nell'art. 35: il quale, in quanto subordina
l'iscrizione nell'elenco del pubblicisti alla prova
che il soggetto interessato abbia svolto
un'"attività pubblicistica regolarmente
retribuita per almeno due anni", dimostra che la
stessa legge considera pienamente lecita anche la
collaborazione ai giornali che non sia né occasionale
né gratuita. Senza che ci sia bisogno di affrontare
questioni di interpretazione non essenziali per la
presente decisione, appare certo che l'art. 35
circoscrive la portata del divieto sancito nell'art.
45, limita l'estensione dell'obbligo di iscrizione
all'albo e, in definitiva, conferma che l'appartenenza
all'Ordine non é condizione necessaria per lo
svolgimento di un'attività giornalistica che non
abbia la rigorosa caratteristica della
professionalità.
5. - Questa conclusione, tuttavia, non esaurisce la
questione sottoposta alla Corte. L'esperienza dimostra
che il giornalismo, se si alimenta anche del
contributo di chi ad esso non si dedica
professionalmente, vive soprattutto attraverso l'opera
quotidiana del professionisti. Alla loro libertà si
connette, in un unico destino, la libertà della
stampa periodica, che a sua volta é condizione
essenziale di quel libero confronto di idee nel quale
la democrazia affonda le sue radici vitali. E nessuno
può negare che una legge la quale, pur lasciando
integro il diritto di tutti di esprimere il proprio
pensiero attraverso il giornale, ponesse ostacoli o
discriminazioni all'accesso alla professione
giornalistica ovvero sottoponesse i professionisti a
misure limitative o coercitive della loro libertà,
porterebbe un grave e pericoloso attentato all'art. 21
della Costituzione.
Sotto questo secondo profilo della questione, che
di certo é il più delicato, la Corte deve in primo
luogo accertare se l'istituzione stessa di un Ordine
giornalistico e l'obbligatorietà della iscrizione
nell'albo non costituiscano di per sé una violazione
della sfera di libertà di chi al giornalismo voglia
professionalmente dedicarsi.
La Corte ritiene che a tale interrogativo si debba
dare una risposta negativa.
Chi tenga presente il complesso mondo della stampa
nel quale il giornalista si trova ad operare o
consideri che il carattere privato delle imprese
editoriali ne condiziona le possibilità di lavoro,
non può sottovalutare il rischio al quale é esposto
la sua libertà né può negare la necessità di
misure e di strumenti a salvaguardarla.
Per la decisione della presente questione - alla
quale, per quanto si é detto al n. 3, resta estranea
la rilevanza degli ulteriori profili di pubblico
interesse (fra i quali quello inerente all'osservanza
del canoni della deontologia professionale)
soddisfatti dalla legge - é in vista di tale
finalità che va valutata la funzione che l'Ordine
può svolgere. Il fatto che il giornalista esplica la
sua attività divenendo parte di un rapporto di lavoro
subordinato non rivela la superfluità di un apparato
che secondo l'avviso della difesa del Longhitano si
giustificherebbe solo in presenza di una libera
professione, tale il senso tradizionale. Quella
circostanza, al contrario, mette in risalto
l'opportunità che i giornalisti vengano associati in
un organismo che, nei confronti del contrapposto
potere economico del datori di lavoro, possa
contribuire a garantire il rispetto della loro
personalità e, quindi, della loro libertà: compito,
questo, che supera di gran lunga la tutela sindacale
del diritti della categoria e che perciò può essere
assolto solo da un Ordine a struttura democratica che
con i suoi poteri di ente pubblico vigili, nei
confronti di tutti e nell'interesse della
collettività, sulla rigorosa osservanza di quella
dignità professionale che si traduce, anzitutto e
soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di
informazione e di critica e nel non cedere a
sollecitazioni che possano comprometterla.
Si deve tuttavia ribadire che questa conclusione
positiva é valida solo se le norme che disciplinano
l'Ordine assicurino a tutti il diritto di accedervi e
non attribuiscano ai suoi organi poteri di tale
ampiezza da costituire minaccia alla libertà dei
soggetti. E in questa ulteriore direzione va ora
rivolta l'indagine affidata alla Corte.
6 - Il divieto posto nell'art. 45, come si é
detto, condiziona all'iscrizione nell'albo il
legittimo esercizio della professione giornalistica,
ed esso, a causa del disposto contenuto nell'art. 36,
si risolve in un divieto assoluto per gli stranieri
che siano cittadini di uno Stato che non pratichi il
trattamento di reciprocità. Da ciò scaturisce la
necessità di accertare se esso non sia in contrasto
con l'art. 21 della Costituzione che a tutti, e non ai
soli cittadini, garantisce il fondamentale diritto di
esprimere liberamente e con ogni mezzo il proprio
pensiero.
La Corte - anche richiamando quanto esposto al n. 4
- ritiene che, in sé considerato, il presupposto del
trattamento di reciprocità per l'accesso alla
professione giornalistica non sia illegittimamente
stabilito, e ciò perché é ragionevole che in tanto
lo straniero sia ammesso ad un'attività lavorativa in
quanto al cittadino italiano venga assicurata una pari
possibilità nello Stato al quale il primo appartiene.
Questa giustificazione, però, non può estendersi
all'ipotesi dello straniero che sia cittadino di uno
Stato che non garantisca l'effettivo esercizio delle
libertà democratiche e, quindi, della più eminente
manifestazione di queste. In tal caso, atteso che ad
un regime siffatto può essere connaturale
l'esclusione del non cittadino dalla professione
giornalistica, il presupposto di reciprocità rischia
di tradursi in una grave menomazione della libertà di
quei soggetti ai quali la Costituzione - art. 10,
terzo comma - ha voluto offrire asilo politico e che
devono poter godere almeno in Italia di tutti quei
fondamentali diritti democratici che non siano
strettamente inerenti allo status civitatis.
Limitatamente a questa parte, dunque, l'art. 45
deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo.
7. - Passando all'esame delle norme che
disciplinano l'accesso all'albo, devono essere presi
in considerazione gli artt. 29, 33, 34 e 35 della
legge, che formano oggetto dell'impugnativa
ritualmente proposta dal pretore di Catania.
Ad avviso della Corte, i dubbi di costituzionalità
manifestati dal giudice a quo non appaiono fondati.
L'art. 29 richiede per l'iscrizione nell'elenco del
professionisti, fra l'altro, l'iscrizione nel registro
del praticanti e l'esercizio della pratica per almeno
diciotto mesi: dal combinato disposto di questa norma
e degli artt. 33 e 34 discende, secondo il pretore,
che l'accesso al registro del praticanti e,
mediatamente, all'albo é rimesso alla completa
discrezionalità degli editori, del direttori e degli
altri giornalisti già iscritti. La Corte osserva che,
se é vero che ove il soggetto interessato non trovi
un giornale che lo assuma come praticante egli non
potrà mai intraprendere la carriera giornalistica, é
altrettanto vero che neppure il giornalista iscritto
può svolgere la sua attività professionale se non
trova un editore disposto ad assumerlo: il che
dimostra che ci si trova di fronte a conseguenze che
non derivano dalla legge in esame, ma dalla struttura
privatistica delle imprese editoriali, nell'ambito
della quale la non discriminazione può essere
assicurata soltanto dalla concorrenza della
molteplicità delle iniziative giornalistiche.
Neppure può dirsi che il secondo comma dell'art.
34, in quanto richiede che lo svolgimento della
pratica sia comprovata da una dichiarazione motivata
del direttore del giornale, all'arbitrio di questi
rimetta la valutazione di un presupposto per
l'iscrizione nell'elenco del giornalisti. In effetti,
poiché non risulta che l'Ordine abbia il potere di
esprimere un giudizio di ammissibilità basato
sull'apprezzamento del modo in cui l'interessato ha
esercitato la pratica, si deve concludere che la
motivazione del direttore deve avere ad oggetto solo
gli elementi formali del rapporto (durata,
continuità) e non può mai tradursi in un sindacato
sul pensiero espresso dal praticante.
Non si vede, infine, in che modo il Consiglio
dell'Ordine possa esercitare poteri arbitrari in
ordine all'iscrizione nell'albo: chiamato a verificare
la sussistenza di elementi tassativamente indicati
dalla legge ed a prendere atto del giudizio positivo
delle prove di esame predisposte per un accertamento
tecnico, il Consiglio non può neppure liberamente
valutare la buona condotta (art. 31, secondo comma)
del richiedente, ma deve accertarla sulla base di
fatti, secondo canoni elaborati in base ad una
consolidata tradizione e con l'esclusione di ogni
apprezzamento di atteggiamenti che costituiscano
estrinsecazione delle libertà garantite dalla
Costituzione. Val la pena di aggiungere che la legge
impone che i provvedimenti di rigetto della domanda
siano motivati (art. 30) e predispone su di essi il
controllo giurisdizionale (art. 63), assicurando in
tal modo la repressione di ogni abuso.
Del pari non fondata é la questione relativa al
primo comma dell'art. 35, impugnato nella parte in cui
stabilisce che al fine dell'iscrizione nell'elenco dei
pubblicisti il richiedente deve offrire la
dimostrazione di aver svolto attività retribuita da
almeno due anni. Il timore espresso dal giudice a quo
che questa norma consenta un sindacato sulle
pubblicazioni non ha ragione di essere, perché la
certificazione dei direttori e la esibizione degli
scritti sono elementi richiesti solo al fine di
consentire che venga accertato se l'attività sia
stata esercitata né occasionalmente né gratuitamente
e per il tempo richiesto dalla legge, e non anche allo
scopo di imporre o di permettere una valutazione di
merito capace di risolversi, come afferma l'ordinanza,
in "una forma larvata di censura
ideologica".
8. - Poiché l'ordinanza denunzia che
l'obbligatorietà dell'iscrizione nell'albo, sancita
dal denunziato art. 45, rimette alla piena
"discrezionalità altrui" l'esercizio del
diritto riconosciuto dall'art. 21 della Costituzione,
con conseguente violazione anche dell'art. 3, la Corte
non può sottrarsi al compito di esaminare altre
disposizioni della legge che possano incidere sul
diritto all'iscrizione nell'albo, e ciò non per
esercitare un controllo su norme che, per quanto si é
detto al n. 2, non sono state ritualmente impugnate,
ma solo per accertare se il loro contenuto sia tale da
determinare l'illegittimità dell'art. 45.
Sotto questo profilo ed a questi limitati effetti
vengono in esame l'art. 24, che attribuisce al
Ministro per la grazia e giustizia l'alta sorveglianza
sui Consigli dell'Ordine, e le disposizioni che
conferiscono ai Consigli poteri disciplinari che
sull'iscrizione all'albo possono incidere in via
temporanea (art. 54) o definitiva (art. 55).
La Corte osserva che il potere del Ministro,
corollario del pubblico interesse al regolare
funzionamento dei Consigli, ha per contenuto i
provvedimenti indicati nel secondo e nel terzo comma
dello stesso art. 24, sicché nessuna ingerenza é
consentita all'esecutivo sulla attività
amministrativa relativa agli iscritti, salva la
implicita possibilità di segnalare fatti che ai sensi
dell'art. 48 possano giustificare il promovimento
dell'azione disciplinare: nel che non si può
riscontrare, in verità, nessun rischio di abuso.
La Corte ritiene, del pari, che i poteri
disciplinari conferiti ai Consigli non siano tali da
compromettere la libertà degli iscritti. Due elementi
fondamentali vanno tenuti ben presenti: la struttura
democratica del Consigli, che di per sé rappresenta
una garanzia istituzionale non certo assicurata dalla
legge precedentemente in vigore (D.L. Lt. 23 ottobre
1944, n. 302), in base alla quale la tenuta degli albi
e la disciplina degli iscritti sono state affidate per
circa venti anni ad un organo di nomina governativa; e
la possibilità del ricorso al Consiglio nazionale ed
il successivo esperimento dell'azione giudiziaria nei
vari gradi di giurisdizione. L'uno e l'altro
concorrono sicuramente ad impedire che l'iscritto sia
colpito da provvedimenti arbitrari. Essi, tuttavia,
non sarebbero sufficienti a raggiungere tale scopo, se
la legge stessa prevedesse, sia pure implicitamente,
una responsabilità del giornalista a causa del
contenuto dei suoi scritti e ammettesse una
corrispondente possibilità di sanzione, perché in
tal caso la libertà riconosciuta dall'art. 21 sarebbe
messa in pericolo e l'art. 45 - norma di chiusura
dell'intero ordinamento giornalistico - risulterebbe
illegittimo. Ma la legge non consente affatto una
qualsiasi forma di sindacato di tale natura. Se la
definizione degli illeciti disciplinari, come é
inevitabile, non si articola in una previsione di
fattispecie tipiche, bisogna pur considerare che la
materia trova un preciso limite nel principio
fondamentale enunciato dalla stessa legge nell'art. 2.
Se la libertà di informazione e di critica é
insopprimibile, bisogna convenire che quel precetto,
più che il contenuto di un semplice diritto, descrive
la funzione stessa del libero giornalista: é il venir
meno ad essa, giammai l'esercitarla che può
compromettere quel decoro e quella dignità sui quali
l'Ordine é chiamato a vigilare.
9. - Con ciò la Corte ha esaurito l'esame delle
questioni ritualmente proposte dal pretore di Catania.
Non può essere affrontato, infatti, un ulteriore
problema sul quale l'ordinanza di rinvio si é
soffermata, se cioè la disciplina introdotta dalla
legge limiti, ed in quale misura, il diritto di tutti
di dar vita ad un giornale e di esprimere con questo
mezzo il proprio pensiero. A questa tematica l'art. 45
é del tutto estraneo, perché gli oneri che in essa
verrebbero in discussione non discendono
dall'obbligatorietà dell'albo, ma sono autonomamente
posti dagli artt. 46 e 47: da disposizioni, dunque,
che, per quanto si é detto al n. 2, restano fuori
dell'oggetto del presente giudizio.
10. - Il Tribunale di Torino denuncia
l'illegittimità costituzionale, per violazione degli
artt. 102 e 108 della Costituzione, del terzo comma
dell'art. 63 della stessa legge, a tenore del quale
presso il Tribunale e la Corte di appello competenti a
decidere sull'azione promossa contro le deliberazioni
del Consiglio nazionale dell'Ordine il collegio viene
integrato da un giornalista professionista e da un
pubblicista, nominati in numero doppio all'inizio di
ogni anno dal presidente della Corte di appello su
designazione del Consiglio stesso. Non tutti i rilievi
che l'ordinanza espone con espresso richiamo ai
principi affermati dalla Corte nella sentenza n. 108
del 1962 trovano esatto riscontro nel caso in esame.
Tanto é a dirsi sia del requisito della idoneità dei
due membri del Collegio, assicurata dalla circostanza
che deve trattarsi di giornalisti professionisti e di
pubblicisti tali qualificati in base alle norme della
stessa legge, sia della possibilità di rendere
operanti le disposizioni relative alla astensione e
ricusazione del giudice, sufficientemente garantita
dalla nomina in numero doppio. La questione risulta
invece fondata sotto il profilo che il meccanismo
predisposto dalla legge non é tale da conferire al
giudice piena indipendenza nei confronti del Consiglio
dal quale sostanzialmente egli deriva la sua nomina.
Giova in proposito tener presente che all'esame del
Tribunale e della Corte di appello, nella speciale
composizione descritta, vengono portate (artt. 62 e
63) le impugnazioni promosse contro le deliberazioni
di quello stesso organo che é competente alla
designazione dei due giudici estranei alla
magistratura. Vero é che siffatta circostanza, come
si ricava dalla giurisprudenza della Corte (sentenza
n. 1 del 1967), di per sé sola non costituirebbe
ragione di illegittimità costituzionale: tuttavia
sarebbe stato necessario che la legge impedisse ogni
forma di responsabilità, anche indiretta, nei
confronti del Consiglio. Questa fondamentale garanzia,
essenziale per il rispetto del principio di
indipendenza, non é invece assicurata, perché la
brevità del termine di durata nell'ufficio e la
possibilità di una rinnovata designazione degli
stessi soggetti non escludono che il Consiglio possa
periodicamente esercitare un implicito sindacato sul
modo col quale é stata amministrata la giustizia in
casi nei quali era in gioco un suo diretto interesse.
Perciò é da riconoscere che la norma impugnata
contrasta con l'art. 108, secondo comma, della
Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
a) dichiara l'illegittimità costituzionale
dell'art. 45 della legge 3 febbraio 1963, n. 69,
relativa all'ordinamento della professione
giornalistica, limitatamente alla sua applicabilità
allo straniero al quale sia impedito nel paese di
appartenenza l'effettivo esercizio delle libertà
democratiche garantite dalla Costituzione italiana;
b) dichiara l'illegittimità costituzionale
dell'art. 63, comma terzo, della stessa legge;
c) dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale concernenti gli artt. 29,
33, 34 e 35 sollevate dall'ordinanza 5 giugno 1967 del
pretore di Catania in riferimento agli artt. 3 e 21
della Costituzione;
d) dichiara inammissibili le questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 24, 28 Cpv.,
46, 47, 51, lett. c e d, 54 e 55 sollevate dalla
stessa ordinanza in riferimento agli artt. 3, 21, 18,
19, 33, 39, 49 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 marzo
1968.
Aldo SANDULLI - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA -
Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI
- Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni
Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi
OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo
CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI
Depositata in cancelleria il 23 marzo 1968.
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