Milano, 8 dicembre 2001
Caro collega,
anche oggi ho "sfogliato" con interesse il
tuo sito. La mia posizione è nota: l'accesso alla professione giornalistica
deve avvenire solo per via universitaria. Tu, invece, presenti i miei contributi
come la soluzione "più restrittiva". Oggi chi vuol diventare
giornalista professionista deve farsi assumere da un editore. Questa soluzione
ti va bene? Non è democratica, invece, la via universitaria?
L'Ordine di Milano da 24 anni ha sperimentato con
grande successo la strada della Scuola di giornalismo: abbiano
"costruito" 540 giornalisti, che al 98% sono dipendenti di testate, tg
e radiogiornali. Abbiamo rotto un monopolio. Il Consiglio ha riconosciuto
centinaia e centinaia di praticanti di ufficio. Io stesso sono il primo
praticante d'ufficio della piccola storia dell'Ordine.
Va bene criticare, ma si deve prendere atto che in
Italia si accede per Costituzione alle professioni con un esame di Stato e che
quella giornalistica è riconosciuta come professione dal Parlamento. O ritenete
che quello dei giornalisti sia un mestiere? Le considerazioni e i fatti
raccontati consentono di risalire alle ragioni che hanno spinto il Parlamento
nel 1963 a tutelare la professione giornalistica. L’eventuale abrogazione
della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica
comporterà questi rischi:
1) quella dei giornalisti non sarà più una
professione intellettuale riconosciuta e tutelata dalla legge.
2) risulterà abolita l’etica professionale
fissata oggi nell’articolo 2 della legge professionale ("E' diritto
insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica,
limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della
personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità
sostanziale di fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla
buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e
riparati gli eventuali errori. Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il
segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal
carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra
colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa
e i lettori"). Senza etica, regnerà, nel mondo dell’informazione, la
legge della giungla!!!
3) senza la legge n. 69/1963, cadrà per giornalisti
(ed editori) la norma che impone il rispetto del "segreto professionale
sulla fonte delle notizie". Nessuno in futuro darà una notizia ai
giornalisti privati dello scudo del segreto professionale.
4) senza legge professionale, direttori e redattori
saranno degli impiegati di redazione vincolati soltanto da un articolo (2105)
del Codice civile che riguarda gli obblighi di fedeltà. Gli accordi tra editore
e direttore responsabile (su linea politica, organizzazione e sviluppo della
testata) non devono, dice oggi l’articolo 6 del Cnlg, «risultare in contrasto
con le norme sull’ordinamento della professione giornalistica». In sostanza l’editore
oggi sa che ha di fronte giornalisti professionisti vincolati per legge al
rispetto di determinate regole etiche e, quindi, non può impartire disposizioni
al direttore in rotta di collisione con quelle regole. In futuro, quando le
norme sull’ordinamento della professione giornalistica non ci saranno, l’imprenditore
(o chi per lui) potrà scavalcare l’impiegato-direttore e impartire
direttamente disposizioni agli impiegati-redattori sui contenuti del giornale. L’articolo
2105 Cc, senza la barriera della legge professionale, conferisce all’editore
un potere totale che prima non aveva. Il direttore responsabile, non più
giornalista professionista, diventerà, comunque, un dirigente dell’azienda
editoriale alle dipendenze operative dell’amministratore delegato e del suo
braccio destro (il direttore editoriale).
Senza la deontologia calata nella legge
professionale, e quindi vincolante per tutti (editori compresi), il direttore
non potrebbe più garantire l’autonomia della sua redazione e i redattori
dovrebbero solo piegare la testa di fronte agli interessi dell’editore. La
professione non ci sarebbe più. Sarebbe un ritorno al passato e quindi al
mestiere.
Governo e Parlamento devono preoccuparsi di
riformare le leggi sugli ordini e i collegi e di tutelare i saperi dei
professionisti stessi, saperi che sono una ricchezza senza confini e una
inesauribile fonte di progresso per la Nazione. Gli esami per l’accesso devono
essere delegati a un altro soggetto (l’Università) anche per garantire il
rispetto del principio costituzionale dell’imparzialità. Non possono essere i
giornalisti a giudicare chi debba entrare nella cittadella della professione. Lo
stesso discorso vale per gli avvocati e per le altre professioni regolamentate.
Cordiali saluti,
Franco Abruzzo
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