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Professione giornalista

Il giornalismo tra "superprofessione" e "convergenza"

di Rodolfo Falvo
Vice-direttore della Federazione nazionale stampa italiana - FNSI
04.09.02
 

Caro Cammarata,
intervengo a titolo personale su alcuni (pochi) temi che sollevi nel tuo "Legge di sistema" o bavaglio sistematico? , con argomentazioni come sempre argute e stimolanti.

Parto da questa, che me pare centrale:
"Evidentemente a qualcuno sfuggono le fondamentali differenze tra le professioni regolamentate e quella giornalistica. In primo luogo è ben diverso il rapporto tra il cittadino e il "professionista": il cittadino ha un rapporto diretto con il medico, l'avvocato o il commercialista, senza poterne valutare direttamente le capacità. Gli ordini professionali, con la certificazione della preparazione del professionista e la sorveglianza del rispetto della deontologia, costituiscono l'unica difesa possibile. Invece il rapporto tra il cittadino è il giornalista è mediato dall'editore e dalla struttura commerciale: non si compera una notizia dal suo redattore, ma si acquista in edicola un prodotto industriale. In teoria si potrebbe raggiungere il risultato di proteggere il pubblico dalla cattiva informazione imponendo agli editori il rispetto di un codice deontologico."

Indubbiamente lo scenario fino ad oggi prevalente è stato quello che ha visto l'esercizio della professione sotto forma di "lavoro dipendente", con la mediazione irrinunciabile dell'editore.
Una "contraddizione", se vuoi, che attraversava l'intero corpo della categoria: dal praticantato (che è infatti una forma contrattuale) ai tanti "Istituti" che la categoria si è data, o ha conquistato, negli anni.
E' però questo uno scenario che è destinato a cambiare. Quanto rapidamente è più ostico che difficile a prevedersi. Ma è vero già oggi che la realtà di un giornalismo professionale tout court, rappresentato da free-lance e/o "liberi professionisti" assomma ad alcune centinaia di persone. Oltre le duemila se solo si fa riferimento agli iscritti alla cosiddetta Inpgi2 (gestione separata dell'Ente).
Certo, non siamo al punto in cui ci si rivolge al giornalista come si fa con il medico, ma è certo che le forme di attuazione del "mestiere" stanno evolvendo, anche in conseguenze delle modificazioni tecnologiche e dei mezzi (discorso enorme non qui affrontabile, insieme con quello del diritto d'autore, che vedo - ahinoi! -dimenticato nella "riorganizzazione" del Dipartimento Informazione ed editoria).

Dunque, anche per queste "nuove ragioni", io sostengo la necessità della laurea (3 anni +2) come via unica alla professione. Si tratta di un elemento di chiarezza sull'identità di un vecchio e glorioso mestiere, per il quale le forma di apprendistato e formazione del passato (i giornali come università...) non vanno più bene.
In questo quadro un Ordine riformato può e deve starci. E tale Ordine dovrebbe davvero riuscire a darsi organismi di vigilanza e sanzione efficaci, dal momento che la funzione deontologica rimarrà il terreno fondamentale della sua legittimazione, assumendo le Università sempre più quella formativa. Di qui non si scappa, date anche le ultraprevalenti tendenze dell'Unione Europea.

Da questo scenario, così brevemente esposto, esula certamente ogni ipotesi di superprofessione, la quale sarebbe assolutamente in controtendenza, anche logica, rispetto all'espansione della "società dell'informazione", la quale inesorabilmente vede la convergenza non solo delle tecnologie (per via digitale) ma anche dei linguaggi, delle metodologie, delle "deontologie" persino...!.

I futuri professionali, inoltre, che possiamo (dobbiamo) immaginare sono fatti non di "linee" lunghe e stabili come in passato, ma di tanti "segmenti", di spezzoni di esperienze e di rapporti lavorativi che contrassegneranno il "comunicatore" professionale nella società dell'informazione.
E questo molto più rapidamente di quanto oggi si sia disposti a riconoscere.

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