Caro Cammarata,
intervengo a titolo personale su alcuni (pochi) temi che sollevi nel tuo "Legge di sistema" o bavaglio sistematico? ,
con argomentazioni come sempre argute e stimolanti.
Parto da questa, che me pare centrale:
"Evidentemente a qualcuno sfuggono le fondamentali differenze tra le
professioni regolamentate e quella giornalistica. In primo luogo è ben diverso
il rapporto tra il cittadino e il "professionista": il cittadino ha un
rapporto diretto con il medico, l'avvocato o il commercialista, senza poterne
valutare direttamente le capacità. Gli ordini professionali, con la
certificazione della preparazione del professionista e la sorveglianza del
rispetto della deontologia, costituiscono l'unica difesa possibile. Invece il
rapporto tra il cittadino è il giornalista è mediato dall'editore e dalla
struttura commerciale: non si compera una notizia dal suo redattore, ma si
acquista in edicola un prodotto industriale. In teoria si potrebbe raggiungere
il risultato di proteggere il pubblico dalla cattiva informazione imponendo agli
editori il rispetto di un codice deontologico."
Indubbiamente lo scenario fino ad oggi prevalente è stato quello che ha
visto l'esercizio della professione sotto forma di "lavoro
dipendente", con la mediazione irrinunciabile dell'editore.
Una "contraddizione", se vuoi, che attraversava l'intero corpo della
categoria: dal praticantato (che è infatti una forma contrattuale) ai tanti
"Istituti" che la categoria si è data, o ha conquistato, negli anni.
E' però questo uno scenario che è destinato a cambiare. Quanto rapidamente è
più ostico che difficile a prevedersi. Ma è vero già oggi che la realtà di
un giornalismo professionale tout court, rappresentato da free-lance e/o
"liberi professionisti" assomma ad alcune centinaia di persone. Oltre
le duemila se solo si fa riferimento agli iscritti alla cosiddetta Inpgi2
(gestione separata dell'Ente).
Certo, non siamo al punto in cui ci si rivolge al giornalista come si fa con il
medico, ma è certo che le forme di attuazione del "mestiere" stanno
evolvendo, anche in conseguenze delle modificazioni tecnologiche e dei mezzi
(discorso enorme non qui affrontabile, insieme con quello del diritto d'autore,
che vedo - ahinoi! -dimenticato nella "riorganizzazione"
del Dipartimento Informazione ed editoria).
Dunque, anche per queste "nuove ragioni", io sostengo la necessità
della laurea (3 anni +2) come via unica alla professione. Si tratta di un
elemento di chiarezza sull'identità di un vecchio e glorioso mestiere, per il
quale le forma di apprendistato e formazione del passato (i giornali come
università...) non vanno più bene.
In questo quadro un Ordine riformato può e deve starci. E tale Ordine dovrebbe
davvero riuscire a darsi organismi di vigilanza e sanzione efficaci, dal momento
che la funzione deontologica rimarrà il terreno fondamentale della sua
legittimazione, assumendo le Università sempre più quella formativa. Di qui
non si scappa, date anche le ultraprevalenti tendenze dell'Unione Europea.
Da questo scenario, così brevemente esposto, esula certamente ogni ipotesi
di superprofessione, la quale sarebbe assolutamente in controtendenza, anche
logica, rispetto all'espansione della "società dell'informazione", la
quale inesorabilmente vede la convergenza non solo delle tecnologie (per via
digitale) ma anche dei linguaggi, delle metodologie, delle
"deontologie" persino...!.
I futuri professionali, inoltre, che possiamo (dobbiamo) immaginare sono
fatti non di "linee" lunghe e stabili come in passato, ma di tanti
"segmenti", di spezzoni di esperienze e di rapporti lavorativi che
contrassegneranno il "comunicatore" professionale nella società
dell'informazione.
E questo molto più rapidamente di quanto oggi si sia disposti a riconoscere.
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