Il simpatico faccione
di Paolo Bonaiuti era molto convincente, pochi
giorni fa a il Caffè di RaiNews24. Ci
spiegava come basti andare all'edicola e contare
il numero di quotidiani e riviste che si
pubblicano in Italia, o accendere la televisione e vedere
quante emittenti si possono ricevere. Per
concludere che nel nostro Paese c'è libertà di stampa.
E di televisione.
Allora perché il sindacato dei giornalisti ha
indetto una grande manifestazione di piazza,
perché quasi mezzo milione di |
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persone ha firmato un appello, perché si sono
mobilitati intellettuali di tutto il mondo per
protestare contro la mancanza di libertà di espressione
in Italia?
Ha davvero ragione il signore delle televisioni quando
sbraita che la manifestazione di oggi è una farsa?
Lo slogan "Diritto di sapere, dovere di
informare" centra perfettamente la sostanza del
problema.
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In Italia c'è il diritto di stampare. Con qualche
limite, però, dettato da una legge del 1948
sull'ordinamento della stampa e da una del 1963 su
quello della professione di giornalista (siamo l'unica
nazione democratica in cui fare il giornalista senza
avere una tessera di Stato costituisce reato). Ma
libertà di stampare non significa libertà di stampa,
se i giornalisti sono sottoposti a ricatti e
limitazioni. O inquadrati, disciplinatamente, nel
sistema del potere mediatico.
In Italia la libertà di televisione, semplicemente,
non c'è. Lo prova con assoluta evidenza la vicenda di
Europa 7. All'unica emittente che potrebbe fare
un'informazione non condizionata dal potere si impedisce
di trasmettere. Da dieci anni, in spregio di tutte le
sentenze della Corte costituzionale e dell'Unione
europea.
Dati incontestabili mostrano che il 70 per cento
degli italiani si informa solo attraverso la
televisione. Ma il 90 per cento del sistema televisivo
è nelle mani di una sola persona, perché ha il
controllo da proprietario delle tre più importanti reti
private e da capo del governo delle tre reti pubbliche.
Grazie a una legge, la vergognosa Gasparri, scritta in
totale dispregio delle sentenze della Corte
costituzionale. Nelle tre reti pubbliche sopravvivono
piccoli spazi di informazione indipendente, che fanno
gridare il Capo "la Rai è contro di me" e
insultare i giornalisti: "farabutti!".
La censura nell'informazione televisiva è evidente,
palpabile. Basta avere la pazienza di vedere, una sera
qualsiasi, il TG3 dell 19 (quello dei farabutti). E poi
il TG1 delle 20. E constatare quante notizie sono
sparite o rese incomprensibili nel giro di un'ora.
Troppe volte il notiziario più seguito e più influente
sull'opinione pubblica non osserva il "dovere di
informare" e calpesta il "diritto di
sapere" dei cittadini.
Solo così si possono spiegare le percentuali di
consenso che i sondaggi periodicamente attribuiscono al
Capo: numeri vicini a quello degli italiani che
dichiarano di informarsi solo attraverso la televisione.
Qualcuno dirà: ma ci sono i giornali farabutti,
quelli che fanno domande così impertinenti da essere
citati in tribunale. Il fatto è che meno del 10 per
cento degli italiani legge i giornali. Che non sono
tutti scritti da farabutti. Ma che nessuno pensa di
trascinare davanti a un giudice perché scrivono
falsità. Un solo esempio, recentissimo. Ieri il Giornale
(la cui proprietà fa capo alla famiglia del Presidente
del consiglio) riportava con grande evidenza in prima
pagina una notizia: Carl Bernstein (il giornalista
premio Pulitzer, quello che con Bob Woodward costrinse
il Presidente Nixon alle dimissioni per il caso
Watergate) avrebbe detto ad Annozero di giovedì
scorso che "i politici hanno diritto alla
privacy".
Falso. Gli oltre sette milioni di italiani che hanno
seguito la trasmissione, hanno sentito con le loro
orecchie che Bernstein ha detto il contrario: "La
stampa ha il dovere legittimo di accertare il vero se ci
sono evidenti verità nelle accuse contro un Capo di
Stato o un premier. E' stato il caso di Monica Lewinsky
nei confronti di Clinton ed è il caso che riguarda oggi
Berlusconi". Ma nessuno ha dato del farabutto al
direttore del Giornale, forse perché chi lo
legge non guarda il programma di Michele Santoro.
Un altro esempio, piccolo piccolo. Qualche giorno fa,
alla fine di una conferenza stampa, il Presidente del
consiglio ha intimato ai giornalisti presenti: "Non
mi potete più fare domande in materia di gossip".
Questa è la concezione assolutistica, non democratica
del potere. Perché in una democrazia i giornalisti
hanno il diritto di fare tutte le domande che vogliono.
Se mai l'interrogato può rifiutarsi di rispondere,
subendone le conseguenze. Ma non risulta che qualcuno
dei giornalisti presenti abbia replicato affermando
"il diritto di sapere, il dovere di
informare".
Ecco perché ieri Jean-Francois Julliard, segretario
generale di Reporters Sans Frontières ha
detto che "probabilmente l'Unione europea voterà
nei prossimi giorni una risoluzione sulla situazione
della libertà di stampa in Italia, e non è consueto
che si debba occupare di un tema di questo genere per un
paese membro". E ha avvertito che nel prossimo Indice
della libertà di stampa (pubblicato annualmente da Reporters
sans frontières) "l’Italia, che era
quarantatreesima, non guadagnerà certo posizioni e
rischia di essere la nazione dell’Unione europea con
il posto più basso in classifica".
Ha scritto Roberto
Saviano: "Oggi, chiunque decida di prendere una posizione sa
che potrà avere contro non un'opinione opposta, ma una
campagna che mira al discredito totale di chi la
esprime. E persino coloro che hanno firmato un appello
per la libertà di informazione devono mettere in conto
che già soltanto questo gesto potrebbe avere
ripercussioni. Qualsiasi voce critica sa di potersi
aspettare ritorsioni. Libertà di stampa significa
libertà di non avere la vita distrutta, di non dover
dare le dimissioni, di non veder da un giorno all'altro
troncato un percorso professionale per un atto di
parola, come è accaduto a Dino Boffo". |