E' passata una settimana dalle elezioni. Il quadro della
politica italiana è cambiato in misura così radicale che
nessuno ci capisce niente, neanche i politici che lo hanno
determinato.
Il voto dei cittadini è il risultato di un ampio sistema
di comunicazione, che si svolge su tempi lunghi e ha il
suo punto di maggiore intensità nel periodo della
campagna elettorale.
La decisione dell'elettore è influenzata della somma
dei messaggi che ha ricevuto dalla politica, confrontata
con la sua personale visione del contesto in cui vive.
Di solito la campagna elettorale determina il voto in
misura relativa, perché pesano di più le informazioni e
le suggestioni ricevute nel medio o lungo periodo, che
hanno avuto il tempo di sedimentare. Ma questa volta le
elezioni si sono svolte in un clima di grande incertezza e
con toni molto accesi. Una semplice lettura dei sondaggi
fa capire che il voto è stato in buona parte influenzato
dalla comunicazione delle ultime settimane, provocando il
cambiamento che è sotto i nostri occhi, imprevedibile
solo pochi mesi fa.
Dunque può essere utile analizzare, a grandi linee, la
comunicazione che è stata indirizzata ai cittadini
durante la campagna elettorale. Naturalmente in questa
sede dobbiamo limitarci a pochi aspetti significativi,
esaminando i messaggi elettorali lanciati dalle formazioni
che hanno proposto un candidato alla conduzione del
governo.
Punto di partenza. Martedì 26 febbraio, il giorno dopo
il voto, ascoltavo Dario Fo, ospite di Lilli Gruber a Otto
e mezzo su La7.
Parlava di Beppe Grillo, al quale aveva dato il suo
sostegno. E quasi quasi mi faceva pentire
di non averlo votato. Perché un comunicatore come Dario
Fo può convincere anche i sassi a farsi preti. Beppe
Grillo gli va molto vicino. Tutti e due sono maestri nella
più antica e nobile forma di comunicazione di massa: il
teatro.
Ne parliamo più avanti. Prima liberiamo il campo dai
"perdenti assoluti". L'ultimo nella graduatoria
dei voti è Oscar Giannino. Come si chiamava il suo
partito? Ah sì: "Fare per fermare il declino",
mi sembra. Già il nome è una somma di errori di
comunicazione: 1. Troppo lungo. 2. Difficile da ricordare.
3. Impronunciabile in forma di sigla o acronimo. 4. Su tre
parole-chiave, ce ne sono due con una connotazione
negativa ("fermare" e "declino"): il
senso subliminale della frase può far pensare una marcia
indietro. Risultato elettorale conseguente, con l'aggiunta
che il costume da pagliaccio fa ridere solo i bambini.
Poi c'era Antonio Ingroia con la sua "Rivoluzione
civile". Certo, quando si punta all'estrema sinistra,
la parola "rivoluzione" fa effetto. Ma
l'aggettivo "civile", messo lì forse per attirare qualche
benpensante, annulla il sostantivo con un'evidente
contraddizione semantica. Dunque sul piano emotivo
l'impatto del nome del partito è stato probabilmente
nullo.
Quanto alla
capacità di comunicare del leader... beh, Maurizio Crozza
che lo imitava era molto, molto più efficace. Ingroia avrebbe fatto
meglio a mandare avanti Di Pietro, con la carica della sua
impetuosa comunicativa terra-terra.
Mario Monti è un caso da studiare nei corsi di
comunicazione. Del tutto incapace di comunicare di suo, si
è rivolto a un acclamato spin doctor, David
Axelrod, il presunto guru
della comunicazione al quale si attribuisce
(erroneamente?) il successo elettorale di Barak Obama. Il
sapientone ha "toppato" miseramente sui primi
due punti di qualsiasi strategia di acquisizione del
consenso: la conoscenza del contesto e del target e il
rinforzo dell'immagine positiva già propria del candidato. Risultato devastante, con
scene pietose come quella della cagnolina.
Dalla cagnolina al giaguaro, la bestia più maltrattata
della campagna elettorale. "Smacchiare il
giaguaro" era una delle metafore del leader del PD
per dire "non perdiamo tempo in cose inutili".
All'improvviso l'immagine ha cambiato segno, diventando un
obiettivo da conseguire. Forse un errore imperdonabile sul
piano subliminale. Ma il punto è un altro.
Pierluigi Bersani, come tutta la sinistra (o centrosinistra
che dir si voglia) non ha capito nulla della
comunicazione di oggi. Dove vince prima di tutto una
faccia, un'immagine, un leader. L'idea che
"il collettivo" possa fare premio sul singolo
risale a un'altra epoca e forse non era tanto efficace
neanche allora. Quello che conta è far sognare
l'elettorato, anche con promesse che non si possono
mantenere, lanciare messaggi forti, che scuotano le
coscienze.
La ciliegina sulla torta è stata la scelta di Nanni
Moretti come supporto dell'ultima ora: Moretti è un campione di
antipatia, quanto Dario Fo lo è di simpatia. Come
testimonial il grande
regista è stato meno efficace della cagnetta di Monti
(che però è molto più tenera). Conclusione: il giaguaro
ha mantenuto le sue belle macchie e la vera belva che
doveva essere neutralizzata ha potuto tranquillamente
acchiappare le sue prede.
Sto parlano del caimano, naturalmente. Che ha compiuto
una straordinaria rimonta sfruttando due grandi doti: la
padronanza del mezzo televisivo e la capacità di indurre
immagini "forti" con ogni mezzo, anche con
panzane incredibili.
Anche in Berlusconi c'è una scuola di teatro. Quel
teatro minore che è l'intrattenimento nei villaggi
vacanze e sulle navi da crociera. Ma che in ogni caso
insegna a sintonizzarsi sull'umore del pubblico, a trovare
toni e tempi della battuta a effetto.
Grillo è stato il più furbo nell'uso della
televisione, che rimane di gran lunga il mezzo più
importante. Ha rifiutato di comparire nelle trasmissioni
in studio, ben sapendo che le regole sulla par condicio,
formali e sostanziali, gli avrebbero comunque assicurato
un "tempo di antenna" paragonabile a quello
degli altri candidati. Infatti le televisioni non hanno
potuto fare altro che rilanciare i proclami lanciati nelle
piazze reali e telematiche. Così ha fatto passare la sua
faccia, la sua oratoria e i suoi messaggi, ma si è
sottratto a qualsiasi pericoloso contraddittorio.
Di Grillo deve essere valutata anche la falsa
idiosincrasia per i giornalisti. Ne ha bisogno, perché la
politica non esiste senza l'informazione. L'abilità è
far dire all'informazione quello che si vuole far sapere,
costringerla a fare da amplificatore di proclami e frasi a
effetto.
E' significativa la scelta di non parlare con i
giornalisti italiani, rilasciando però interviste alla
stampa estera. Che, aggiunta ora al divieto per gli eletti
di apparire nei talk show e di rilasciare interviste,
rivela la strategia del leader: impugnare un megafono,
senza dare possibilità di risposta. La domanda è se
questa tecnica reggerà nel tempo, se "la base"
continuerà a lasciarsi manipolare.
Anche Berlusconi ha evitato i confronti diretti con i
suoi avversari, forte della sua capacità di usare il
messaggio televisivo. Capacità tale da spiazzare anche
due vecchie volpi della TV come Michele Santoro e Marco
Travaglio, nella puntata di Servizio pubblico che
ha segnato il vero inizio della sua rimonta.
Alla fine dei conti, hanno "vinto senza arrivare
primi" i due candidati che, in un modo o nell'altro,
hanno fatto sognare gli elettori. E' arrivato "primo
senza vincere" quello che ha ritenuto che la sola
forza della ragione potesse convincere i cittadini, senza
cercare di raggiungere il cuore - o la pancia - di chi
stava per deporre la scheda nell'urna. Di fatto ha perso,
ha perso una larga fetta del suo elettorato potenziale. E
solo per aver sbagliato temi e modi della comunicazione.
Alla fine hanno vinto un grillo e un caimano. Il
giaguaro l'ha scampata. E' la democrazia, bellezza.
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