"La fabbrica del consenso" non è un modo di dire.
L'espressione fu coniata quasi un secolo fa dal grande giornalista americano
Walter Lippmann, per descrivere le tecniche e gli strumenti per
influenzare la pubblica opinione. Per capire di che che si
tratta, basta ricordare come il governo USA ha convinto
buona parte del mondo della necessità della guerra in
Iraq. Può essere utile anche un esempio di casa nostra. Il
signore delle televisioni ha sempre affermato di avere il consenso della
maggioranza degli italiani. Ripetuta fino alla noia da lui
e dai suoi corifei, la bugia è diventata verità indiscutibile.
Ma resta una bugia, perché i numeri mostrano che nel 2008
i voti per il
suo partito sono stati il 30,05 per cento (il 37,38 per
cento dell'80,4 per cento degli elettori). Meno di un
terzo dell'elettorato. Ma così funziona la fabbrica del
consenso.
Nonostante il cambio dell'esecutivo, sostenuto da una
nuova maggioranza, la fabbrica non chiude i battenti. La televisione, il più seguito
e influente dei mezzi di
informazione, resta in larghissima parte sotto il
controllo dell'ex-capo del Governo. La parte privata perché è sua,
la parte pubblica perché è controllata da persone elette
o nominate dalla sua ex-maggioranza. Ora nel Parlamento
c'è una maggioranza diversa, ma l'informazione in vista
delle prossime elezioni politiche non sarà neutrale.
Un'anomalia che i partiti delle ex-opposizioni non
dovrebbero tollerare.
Però negli ultimi giorni si è verificato un fatto
nuovo: i sondaggi indicano che il nuovo Presidente del
consiglio riscuote il consenso di circa l'80 per cento
degli elettori. Una maggioranza mai vista, probabilmente
destinata a scendere in breve tempo a un livello più
fisiologico. Che cosa è successo? La vecchia fabbrica del
consenso non funziona più?
Sembra che anche per il professor Mario Monti una
fabbrica del consenso abbia lavorato bene. Diretta da
qualcuno? Difficile dirlo. Ma è un fatto che da molti mesi il suo nome era
indicato da molte parti come quello dell'unico possibile
salvatore della Patria. D'altra parte c'è la sostanziale
coincidenza tra la
percentuale di italiani che si esprimono in suo favore e
quella di quanti dichiarano di avere fiducia nel Presidente della
Repubblica. Questo farebbe pensare a una reazione
spontanea degli "acquirenti" nei confronti di un
prodotto molto reclamizzato, ma che si è rivelato di
scarsa qualità: il nuovo appare più degno di fiducia.
In questo quadro un dato sembra incoerente: gli stessi
sondaggi che promuovono a pieni voti il professor Monti
indicano che più di un quarto degli elettori italiani è
ancora pronto a votare per il partito del tycoon
dei media. Aggiungendo i consensi dell'uno a quelli dell'altro si
arriva a ben oltre il cento per cento dell'elettorato. Di fatto questo
strano risultato si ottiene sommando le mele con le pere,
cioè il consenso con le intenzioni di voto. Ma fa vedere
che il favore con cui è accolto il nuovo leader non è
pronto a trasformarsi in maggioranza elettorale.
C'è da considerare un altro insegnamento della
storia: anche il consenso fabbricato con
maggiore sapienza ha una vita più o meno breve. I
cittadini non perdono mai del tutto la capacità di
giudicare e prima o poi anche smettono di
"comperare" passivamente prodotti che
all'inizio sembravano ottimi. Anche qui è significativa
l'esperienza dell'invasione dell'Iraq: a un certo punto
gli americani, e buona parte del mondo, hanno cambiato
idea sull'opportunità della guerra.
A questo punto c'è da affrontare un aspetto cruciale
di questa fase di passaggio.Il professor Mario Monti è un
"prodotto mediatico" completamente
diverso dal suo predecessore. Non grida "forza
gnocca", non racconta barzellette volgari, non cerca
e non si compiace dell'applauso a scena aperta. Anzi,
sembra considerarlo come un contrattempo. Ha sostituito
alla grassa risata un compassato umorismo. E ha raccolto
subito un consenso di dimensioni forse mai viste in una
democrazia. I sociologi ci
spiegheranno come mai nel giro di qualche giorno si sia
prodotto un così clamoroso voltafaccia della pubblica
opinione.
Il cambiamento non può non essere riflesso dai media.
E' vero che un giornale vicino all'ex-capo del Governo
titolava pochi giorni fa "Forza Passera",
ironizzando sul cognome del nuovo ministro. Fuoco di
retroguardia? Sulle prime pagine gli scandali sessuali hanno
ceduto il passo a quella che sembra una nuova
Tangentopoli, insieme ai problemi dell'economia. Segno,
forse, che la stagione del bunga-bunga è finita e che i
temi della crisi finanziaria e della corruzione attirano
maggiore interesse. Sta per finire l'era di Cetto
Laqualunque?
In chi osserva il rapporto tra la società e i media
che la rappresentano si agita un interrogativo: quanta
parte di questo cambiamento venga da una "spinta dal
basso" e quanto sia prodotto di una nuova fabbrica
del consenso.
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