Giornali e televisioni non dovevano pubblicare le sequenze
più raccapriccianti dell'uccisione di Gheddafi. Lo dicono
i soliti benpensanti. Potrebbero avere ragione. Ma se non
ci fosse la Rete ad anticipare qualsiasi racconto che poi
sarà ripreso da giornali e televisioni? E se il problema
non fosse nella pubblicazione delle immagini, ma nei fatti che
le immagini stesse raccontano?
La moviola della memoria riavvolge un lungo film. Trovo
un fotogramma del marzo del 1975: una pagina della rivista
Nuova Fotografia, con un mio pezzo intitolato
"sbatti lo sbudellato in prima pagina". Un fatto
di cronaca nera. Un quotidiano popolare, Momento Sera,
che pubblicava in prima pagina la foto di un cadavere, vittima di
un ordigno artigianale. Non si fa, scrivevo, non si deve offendere
la sensibilità di molti lettori.
Sono passati quasi quarant'anni e la questione è ancora all'ordine del giorno.
Però Nuova Fotografia
non c'è più, Momento Sera non c'è più. Non c'è
più nessun quotidiano della sera (e anche quelli del
mattino non stanno molto bene). La novità, nel confronto
con il 1975, è soprattutto che
i giornali non sono più il primo e più importante mezzo
di informazione locale. Oggi è la Rete, locale e globale
insieme, che racconta per prima i fatti. |
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Negli ultimi anni il paradigma dell'informazione è
cambiato completamente. Perché dove si svolge un fatto c'è
sempre qualcuno che può documentarlo con il telefonino e
"condividerlo" in pochi istanti attraverso il
web. Che diventa così, in molti casi, anche la prima
fonte di informazione per i giornalisti. Un tempo si
diceva che il buon giornalista deve consumare le suole
delle scarpe. Oggi spesso consuma il fondo dei calzoni,
seduto davanti al monitor. Ma questo non ha cambiato il
suo ruolo di interprete della realtà. Perché quello che
viene dalla "condivisione" non è giornalismo.
E' testimonianza.
Il giornalismo è anche interpretazione delle
testimonianze. Le domande ai testimoni sono uno degli
strumenti di cui il reporter dispone per raccontare e
interpretare i fatti. Ma anche le testimonianze sono
fatti, nel momento in cui tutti possono vederle. Dunque il
giornale che riprende quelle testimonianze non fa altro
che riportare fatti. Il suo compito è l'analisi, la
spiegazione, la ricostruzione dei retroscena e la
previsione delle conseguenze.
Ma la domanda ritorna: è opportuno riprodurre anche le
testimonianze più crude, le immagini più
raccapriccianti? Si può rispondere con un'altra domanda:
perché si dovrebbe esercitare l'autocensura su qualcosa
che tutti conoscono o possono conoscere?
Però è pacifico che la pubblicazione sulla carta stampata e
in televisione di sequenze come
quella dell'uccisione di Gheddafi non fa altro che amplificare gli effetti
della diffusione in Rete. E' un buon motivo per evitarla?
Rispondere è difficile. Forse perché il problema non
è nel disagio generato dalle immagini più
raccapriccianti, ma nella consapevolezza della realtà dei
fatti raccontati da quelle immagini. Documentati in
diretta, senza alcun filtro, da protagonisti che
diventano testimoni. Allora non serve guardare da un'altra
parte: lo sgomento è per i fatti, non per la narrazione.
Isola di Cipro, Famagosta, 1571. Il comandante veneziano Marcantonio
Bragadin subisce atroci torture e poi è scuoiato vivo dai Turchi. A
quel tempo non ci sono inviati di guerra. Non c'è nessuno
con la macchina fotografica, la telecamera o il telefonino. Ma
Bragadin è torturato e scuoiato lo stesso. Il fatto
passa alla storia, come passerà alla storia la fine del
dittatore libico.
La differenza è che per noi la vicenda di Marcantonio
Bragadin è lontana, fredda, filtrata dai libri di storia.
Invece della fine di Gheddafi resterà per sempre anche l'impatto emotivo. I posteri
conosceranno i fatti
così come sono stati vissuti e riportati in diretta da
chi era lì in quel momento. Allora lo sgomento sarà per
la tragedia, non per il modo in cui era stata raccontata.
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