La Federazione
nazionale della stampa, non da sola, contro Google e il
suo sistema di aggregazione delle news. L'istruttoria
dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato,
come è noto, si è chiusa con una serie di impegni da
parte della società americana e della sua filiale
irlandese (delibera
A420 del 22 dicembre 2010). Questo può far pensare
a una vittoria degli editori, ma la realtà è diversa,
almeno in parte.
La controversia è l'inevitabile conseguenza del modo
in cui si sta sviluppando la società dell'informazione
e delle difficoltà che il mondo dell'editoria incontra
nella messa a punto di un modello evolutivo adeguato al
nuovo contesto delle Rete. Che non è solo il Web, ma
sempre più il mondo dei dispositivi mobili, che sta
cambiando gli schemi di accesso ai contenuti e in
particolare all'informazione. Con riflessi importanti
sul regime dei diritti relativi ai contenuti stessi.
Riassumiamo i termini della questione. Nella
segnalazione all'Antitrust gli editori lamentavano la
sottrazione di pubblicità dai loro siti internet, che
deriverebbe dal servizio Google
News, l'aggregatore automatico di notizie (in
sostanza un settore specializzato del motore di
ricerca). Secondo gli editori, Google trarrebbe un
guadagno dai contenuti prodotti da loro. Inoltre non
permetterebbe di "nascondere" le pagine
all'aggregatore di notizie senza escluderle anche dal
motore di ricerca.
In prima battuta l'accusa appare debole. Tanto per
incominciare, fino a questo momento non c'è pubblicità
in Google News Italia. Presentando solo il titolo e
qualche riga degli articoli indicizzati, l'aggregatore
non fa altro che guidare i lettori verso le pagine on
line dei giornali, che contengono la pubblicità. In
sostanza il servizio aumenta il numero delle impression
degli annunci, non le diminuisce.
Diverso è il problema della facoltà di escludere
determinate pagine dall'indicizzazione, senza
cancellarle dal motore di ricerca. E' una questione di
diritti sui contenuti (e non a caso l'Autorità ha
inviato una segnalazione
alle Camere sull'urgenza di una normativa adeguata ai
nuovi tempi).
Nel corso dell'istruttoria l'AGCM ha aggiunto di sua
iniziativa un ampliamento
dell'istruttoria sulla mancata trasparenza dei
meccanismi di retribuzione della pubblicità attraverso
AdSense: in sostanza, l'editore che ospita gli annunci
intermediati da Google riceve compensi dei quali non
può verificare la correttezza, perché la società
mantiene segreti i criteri del calcolo e della
ripartizione.
In pochi mesi l'Autorità ha concluso il
procedimento, grazie una serie di impegni assunti da
Google e accettati dalle controparti. Impegni
che vanno incontro alle richieste degli editori e
obbligano la società a una maggiore trasparenza nella
gestione della pubblicità. Ma non finisce qui, perché
altri procedimenti sono aperti a carico del gigante
californiano, in diversi Paesi. Fondati, nella forma o
nella sostanza, su ipotesi di abusi di posizione
dominante, di mancato rispetto dei diritti sui contenuti
o di violazioni del diritto alla riservatezza.
Sono aspetti di una realtà molto complessa e tanto
più difficile da interpretare quanto più veloce è il
cambiamento. Google ha saputo capire e anticipare,
quindi in parte indirizzare, lo sviluppo della società
dell'informazione. Ha un predominio assoluto e
incontrastato tra i sistemi di ricerca, solo grazie alla
"potenza del motore". Meno importanti sono -
fino a oggi - altri settori, come il social
networking o l'editoria digitale. Ma non un altro
servizio, Google Maps, che fotografa e
"indicizza" l'intero globo terrestre con un
dettaglio incredibile. Comunque il ruolo di Google
Search è tale che si può dire "se Google non ti
trova, allora non esisti", senza il rischio di
essere smentiti.
Si tratta di una questione vitale nel momento il cui
tutte le informazioni su tutti i settori della
conoscenza sono, o stanno per essere messe sulla Rete.
Il fine di Google, "indicizzare" tutto lo
scibile, forse non potrà mai essere raggiunto. Ma basta
una parte molto rilevante, come quella di oggi, per
assegnare alla società californiana il ruolo di
intermediario dominante tra le persone e le
informazioni. Ruolo ancora più pesante se si considera
anche l'importanza del ranking, cioè della
graduatoria dei risultati delle ricerche, realizzata con
algoritmi che vengono mantenuti assolutamente segreti.
E' evidente che questo complesso di attività non si
può svolgere senza il pericolo che siano in qualche
modo compromessi i diritti di altri, dalla gestione dei
contenuti alla protezione della riservatezza, con
l'aggravante del predominio sul mercato. Si deve
ricordare che una posizione dominante è legittima
quando è stata raggiunta con mezzi leciti, grazie a una
forte capacità imprenditoriale. L'abuso di posizione
dominante si verifica - ed è sanzionato - quando il
soggetto in posizione di forza ostacola attivamente la
concorrenza.
La complessità della situazione implica diverse
chiavi di lettura. La prima, abbastanza ovvia, è quella
della competizione tra il mondo free (che vuol
dire "libero", "gratuito",
"aperto", ma spesso queste tre qualità non
sono presenti nello stesso tempo), contro il mondo
"proprietario", (di volta in volta
"segreto", "a pagamento",
"recintato"). A una prima approssimazione
Google si presenta come campione del free, mentre
i giornali rappresentano il contrario, con le previsioni
dell'accesso a pagamento e della protezione dei
contenuti.
Nei fatti la questione è molto più complicata.
Google affianca alla gratuità dei suoi servizi
un'impenetrabile riservatezza su quasi tutti gli aspetti
tecnici e commerciali che sono alla base degli stessi
servizi. C'è un evidente contrasto tra il dare tanto
gratis e i pazzeschi utili generati dalla gratuità. Ma
questo apparente paradosso è uno degli schemi possibili
dell'evoluzione della società dell'informazione.
E qui si rende evidente una seconda lettura della
controversia tra Google e gli editori italiani (e non
solo quelli italiani). Gli editori - e in generale molti
fornitori di contenuti - stanno constatando che
l'informazione gratuita non rende in termini di introiti
pubblicitari o offerta di altri servizi a pagamento.
Calano drammaticamente le vendite dei giornali di
carta. E calano di conseguenza gli introiti generati
dalla pubblicità, mentre non c'è una corrispondente
crescita del fatturato della pubblicità sul digitale.
Gli editori tentano di sostenere le vendite della carta
e la relativa pubblicità, mentre non riescono a
individuare un modello che assicuri sufficienti ricavi
dal digitale: tutti i tentativi di offrire giornali via
internet a pagamento non hanno avuto l'esito sperato.
Il motivo è semplice: non ha senso spendere soldi per
avere informazioni che si possono avere gratis seguendo
altri percorsi. Sarebbe necessario un modello che ponga
il giornale digitale in una posizione più forte
rispetto al contesto della Rete, fatto in buona parte di informazione
"spontanea" costruita a forza di copia-e-incolla dalle fonti
più o meno qualificate.
Sembra che non ci si renda conto dell'urgenza di
cambiare la prospettiva da cui viene vista la produzione
industriale dell'informazione. Da anni si continua a
dibattere se il giornale di carta sia destinato a
soccombere di fronte all'avanzata del digitale. Lo
stesso angoscioso interrogativo si pone per i libri. Ma
alla fine siamo rassicurati da eminenti personaggi, che
ci convincono che la carta non può sparire, perché
nulla potrà sostituire la sensazione offerta dal
supporto fisico, dal fruscio delle pagine, dall'odore
dell'inchiostro.
Allora possiamo continuare a farci del male. A non
capire che molti comperano ancora i supporti di carta
perché lo hanno sempre fatto e perché non hanno
confidenza con gli apparecchi elettronici. Sono
destinati a estinguersi per cause biologiche. Chi è
nato con l'internet e col telefonino non è abituato a
comperare la carta. E, soprattutto, trova che non ha
senso comperare un giornale con le notizie di ieri,
quelle che ha già appreso dalla televisione e dalla
Rete.
Lo stesso discorso, in parte, vale per i libri. Fino
a ieri leggere un saggio o un romanzo sul personal
computer era meno comodo che sul libro tradizionale. Ma
oggi, con gli e-book sui lettori dedicati, alla replica
della dimensione fisica del libro da leggere si
aggiungono l'ipertesto, le funzioni di ricerca, il
sostanziale annullamento dell'ingombro fisico delle
centinaia o migliaia di volumi che invadono ogni angolo
della casa dei lettori più accaniti. E a tutto questo
si aggiungono il minor prezzo e la comodità
dell'acquisto on line.
"Ma vuoi mettere il piacere di andare in
libreria, fare quattro chiacchiere col libraio, farsi
consigliare da lui...".
Il fatto è che librerie e librai stanno scomparendo. Ci
sono i bookstore dei grandi centri commerciali e
nessuna discussione, nessun consiglio si può avere da
ragazzi e ragazze che si aggirano tra i banchi, con il
compito principale di controllare che non vi mettiate -
distrattamente - un libro in tasca. Per loro vendere un
libro o un tostapane è la stessa cosa.
E allora si deve prendere atto della realtà che
cambia e cercare di adeguarci. Possibilmente di
prevedere e attrezzarci in tempo per le novità
imminenti. Tanto per incominciare, gli editori
dovrebbero incominciare a considerare le loro imprese
non come "fabbriche di giornali, anche
digitali", ma come "fabbriche di
informazioni". Informazioni che devono essere
vendute attraverso molti canali, uno dei quali è il
giornale di carta. L'unico per cui è ragionevole
attendersi un tasso di crescita negativo.
Giornali, libri, musica. La conoscenza in generale.
Tutto ciò che è immateriale fino a oggi ha avuto una
forma solida, definita. Quella del supporto d'elezione
(giornale, libro, disco in vinile e poi CD..). Ora, con
il digitale, tutto questo sta diventando
"liquido", cioè assume la forma del
contenitore che di volta in volta è scelto
dall'utilizzatore.
La sfida non è conservare la pubblicità sulla carta o
trovare il modo di farla rendere sul digitale. La sfida
è inventare la pubblicità liquida.
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