Metti
insieme le parole "processo",
"intercettazione" e "informazione" e
succede il finimondo.
Certo, in Italia su questo argomento abbiamo i nervi a
fior di pelle. Li ha chi si deve presentare ai giudici per
rispondere di gravi accuse, fondate soprattutto su
intercettazioni. Li hanno i giornalisti, che da una parte
devono informare il pubblico e battere la concorrenza, e
dall'altra sono sotto accusa per vere o supposte
violazioni della riservatezza. Infine li hanno le persone
che, coinvolte per caso, devono fare i conti con il
cosiddetto "tritacarne mediatico".
Non c'è dubbio che la pubblicazione di
atti processuali, con nomi e cognomi di persone che non
sono direttamente coinvolte nei fatti oggetto di indagini,
può costituire una pesante violazione del diritto alla
riservatezza. Soprattutto se si tratta di comuni cittadini
e non di personaggi pubblici.
Per porre fine a questi abusi alcuni
deputati del Partito democratico hanno annunciato una bozza
di progetto di legge che prevede alcune regole, e
relative sanzioni, per il "trattamento dei dati
personali effettuato nell'esercizio della professione di
giornalista o, comunque, tramite i mezzi di informazione,
con particolare riferimento ai dati relativi alle indagini
di polizia ed ai procedimenti giurisdizionali, ivi
compresa la diffusione delle intercettazioni telefoniche e
ambientali".
Il testo, che porta le firme di Antonello Soro, Roberto Zaccaria, Gianclaudio Bressa, Pierluigi Castagnetti e altri,
non contiene disposizioni specifiche sulla materia:
dispone che il Garante per la protezione dei dati
personali promuova l'adozione di un codice di deontologia
da parte del Consiglio nazionale dell'Ordine dei
giornalisti. Codice che si aggiungerebbe a quello già in
vigore dal 1988, che, si legge nella relazione, "per
quanto qui interessa contiene solo alcuni principi
generalissimi, quanto mai bisognosi di specificazione e
chiarimento, oltre che di un necessario aggiornamento
anche alla luce dell'evoluzione nel frattempo verificatasi
nel mondo dell'informazione".
Un articolo, tre commi in tutto. Le
reazioni sono immediate. Il Partito democratico fa sapere
che la bozza "non è in alcun modo una proposta del partito, non essendo mai stata discussa dagli organismi dirigenti".
Lo scrive in risposta al furioso comunicato
della Federazione nazionale della stampa e dell'Unione
nazionale dei cronisti italiani. Nel quale si legge, fra
l'altro:
Dietro il pretesto della tutela di
privacy - non dei cittadini bensì della loro, cioè dei
soliti noti - si nascondono, come è stato sottolineato a
gran voce nei congressi di Bergamo e Viareggio, i disegni
di prevaricazione dei potenti: difendere i propri
privilegi con una sorta di salvacondotto, imporre il
silenzio totale sui fatti e sui misfatti della cronaca di
tutti i giorni, mettere la sordina sull’intreccio fra
politica e malaffare, tarpare le ali alla critica e alla
mediazione giornalistica.
La proposta non sembra meritevole di
una reazione così forte. In fondo non fa che rimandare la
definizione di norme di autodisciplina al concerto tra il
sindacato unitario dei Giornalisti e il Garante. E' il
contenuto di queste norme che potrebbe rivelarsi censorio
e "imporre il silenzio su fatti e misfatti".
Piuttosto ci si dovrebbe chiedere se questo sia il momento
più opportuno per presentare un progetto di legge di
questo segno, anche perché tra la normativa sui dati
personali, l'autoregolamentazione in vigore e il codice
penale, le norme per colpire gli abusi non mancano.
Ma siamo in Italia. Negli Stati Uniti,
dove la trasparenza è un connotato essenziale della
democrazia, norme di questo tipo non possono essere
nemmeno ipotizzate. C'è il Primo Emendamento della
Costituzione, che dice che il Congresso "non
può" fare leggi che limitino la libertà di
espressione. Neanche con le migliori intenzioni.
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