Signor giudice,
l’imputato è tratto a giudizio davanti a questo tribunale in quanto reo – a
dire del pubblico ministero - di avere violato gli articoli 2 e 5 L.47/48 così
come richiamati dall’art 1 comma III legge 62 /2001. In particolare egli
sarebbe colpevole di avere diffuso informazioni con regolarità tramite prodotti
editoriali realizzati su supporto informatico destinato alla pubblicazione o,
comunque, alla diffusione presso il pubblico con mezzo elettronico. Cioè
tramite siti web, mailing list, canali IRC caratterizzati dal titolo comune
"Il pensiero imbavagliato". Il tutto, senza appartenere alla casta dei
giornalisti o – peggio – senza averne mendicato la protezione offerta dall’istituto
della "direzione responsabile".
Lo si accusa, in altri termini, di non avere
"rispettato" la categoria. O, se preferite, di avere tentato –
crimine atroce - di usare uno strumento per far sentire la propria voce anche al
di la dei ristretti confini spaziali e culturali del mondo in cui vive.
Chi potrebbe mai innalzarsi a tutelare un delinquente di simile schiatta?
L’atrocità del gesto non trasforma il processo in un mero adempimento
amministrativo, in una tappa necessaria prima di poter spalancare le porte del
carcere?
Eppure l’azione delll’imputato non è priva
di ragioni.
Egli potrebbe abbarbicarsi al dato testuale della norma e sostenere
bizantinisticamente che nella diffusione in rete le informazioni
"migrano" da supporto a supporto e non sono cedute come
"incorporate" in qualche medium. Per cui, in assenza del "veicolatore
fisico" non ci sarebbe "prodotto editoriale" e dunque non ci
sarebbe violazione di legge per carenza di tipicità.
Oppure potrebbe invocare a propria discolpa che ha fatto ciò che ha fatto
seguendo un’interpretazione normativa sostenuta anche da eminenti uomini
politici – ma evidentemente divergente dalle convinzioni di questa procura
della Repubblica – che subordina l’applicabilità della legge e dei suoi
rigori all’esercizio di attività economica o imprenditoriale.
Oppure ancora, all’altro estremo, il
"giustiziando" potrebbe cercare di frapporre fra sé e la pena l’oggettiva
incertezza nella comprensione di una legge superficiale, tecnicamente carente e
culturalmente preistorica. Che troppo lascia all’interpretazione e troppo poco
alla certezza del diritto. Specie a fronte del colpevole silenzio del
legislatore che prima fa danni e poi cerca di rimediare con "dichiarazioni
politiche" notoriamente non annoverabili fra le fonti del diritto.
Potrebbe inoltre far rilevare l’imputato come
sia quantomeno curioso che la violazione di una norma penale dipenda soltanto
dalla contemporanea presenza di semplici requisiti formali. Vale a dire un nome
e di una ricorrenza nella pubblicazione dei contenuti. Se veramente così fosse,
per andare esenti da pena basterebbe eliminare uno dei due requisiti (o
entrambi, perché come è noto, quod abundat non vitiat) e fare, come si
dice, "fesso e contento" il legislatore. Se così veramente fosse,
però, saremmo al cospetto non di una legge ma di un calembour da
salotto.
Invocando Giustizia, l’imputato avrebbe infine
anche motivo per chiedere il rispetto della Costituzione e dei diritti della
persona. Considerato che non sta scritto da nessuna parte che per manifestare il
proprio pensiero bisogna essere in possesso di una tessera o di appartenere ad
un ordine.
Certo, l’imputato potrebbe fare tutto questo e anche altro, con possibilità
di successo – cioè di assoluzione - non trascurabili.
Ma rinuncia, per ottenere il triste primato di essere il primo soggetto
condannato nell’Italia repubblicana per avere esercitato un diritto garantito
dalla Costituzione.
Avanti il prossimo.
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