E’ abbastanza facile naufragare nel mare di polemiche suscitate dalla
famigerata legge 62/01, specie perché gli
argomenti si sovrappongono disordinatamente, aumentando la confusione invece di
eliminarla. Mi riferisco in modo particolare alla continua artificiale
contrapposizione fra "informazione professionale" (quella dei
giornalisti) e "informazione non professionale" (quella del resto del
mondo). Contrapposizione nella quale la prima dovrebbe prevalere sulla seconda,
sulla base della (presunta) migliore qualità offerta dai giornalisti, delle
maggiori garanzie per il pubblico derivanti dalla "vigilanza", della
protezione offerta dal sindacato nei confronti degli "sfruttatori".
Quasi che tutto ciò che non proviene da un iscritto all’Ordine non abbia
"dignità informativa".
Se questo discorso può andare bene a chi vuole fare il giornalista (ma non
mi sembra che ci sia omogeneità di opinioni anche all’interno della
categoria), tuttavia non significa attribuire validità più ampia al teorema:
"al giornalista il monopolio dell’informazione". La conseguenza –
o meglio, il non sequitur – delle premesse è una generalizzazione
indebita sotto il profilo dell’argomentazione e inaccettabile dal punto di
vista dei diritti di libertà.
Per non parlare poi di quanto sia francamente riduttivo e offensivo negare
valore al preziosissimo lavoro svolto da chi ha l’unica colpa di avere un
tesserino numerato.
Ovviamente non si tratta di innescare per l’ennesima volta la polemica sul
ruolo e la funzione dell’Ordine dei giornalisti, con tutto quello che ne
segue. Si tratta, più modestamente, di prendere atto che le mutate condizioni
sociali e culturali – queste, e non l’internet – hanno ampliato da un lato
il numero delle persone che "hanno qualcosa da dire" e dall’altro
creato un terreno fertile per esercitare dei diritti fondamentali che, fino a
non molto tempo fa, rimanevano confinati nelle pagine dei manuali di diritto
costituzionale.
Ora, mentre nessuno nega al giornalista il diritto di fare informazione,
non si capisce perché dovrebbe essere impedito a chiunque di dare
informazioni (a condizione, beninteso, che sia possibile individuarne l’autore).
E non si capisce perché la valutazione di una sentenza compiuta da un avvocato
debba avere inferiore dignità rispetto a quella proposta da un giornalista,
anche se non dotato di specifiche competenze sul punto.
Messa in questi termini, allora, la questione non riguarda più tesserini,
ordini e provvidenze, ma il grado di preparazione specifica di chi scrive su un
certo argomento. E allora, se cerco informazioni sul funzionamento di un certo
apparato le vado a cercare nei luoghi in cui i tecnici del settore danno
informazioni. Non perché vogliono giocare a "piccoli giornalisti
crescono", ma perché semplicemente migliorano le proprie conoscenze
tramite la condivisione del sapere. Ma questa preziosissima opportunità è
sempre più minacciata non solo da chi ha paura di perdere i propri privilegi e
di "rimettersi in discussione", ma anche da chi, per la smaccata
protezione di interessi di parte, sta cercando di mettere il bavaglio a tutto
ciò che è informazione indipendente. Mi riferisco – per essere precisi –
alla lobby del software e dell’audiovisivo, che è praticamente riuscita a far
approvare un vero e proprio arsenale sanzionatorio contro chi commette l’"atroce
reato" di diffondere e condividere informazioni tecniche sui sistemi di
sicurezza informatica (basta dare un’occhiata alla legge sul diritto d’autore
e all’art. 29 del DDL 816/01 in discussione al Senato).
Ebbene, la sfida che ci troviamo di fronte per quanto riguarda la
informazione è riuscire a garantire la tutela dei diritti civili, dei diritti
costituzionali, e quindi fondamentalmente della libertà di manifestazione del
pensiero, anche e soprattutto per chi non può farsi scudo dell’appartenenza
ad un ordine.
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