Non si ferma la valanga di e-mail che commentano
o chiedono spiegazioni sull'applicazione della legge
21 marzo 2001, n. 62, che sancisce - fra l'altro - l'equiparazione
dell'editoria elettronica a quella tradizionale e obbliga all'iscrizione nei
registri della stampa le pubblicazioni telematiche aggiornate con periodicità
regolare (vedi i Messaggi dalla Rete).
Come abbiamo scritto più volte su queste pagine, la situazione è seria ma
non... disperata. Perché la legge in questione è fatta così male che è
facilissimo aggirarla: basta non uscire a intervalli regolari per ricadere nel
semplice obbligo di inserire alcune indicazioni sull'autore e sullo
"stampatore" del sito, invece che essere costretti alla non facile
iscrizione nei registri dei tribunali (si veda il secondo articolo della serie Come
essere in regola con le norme sulla stampa).
Ad aumentare la confusione che regna
sull'applicazione delle nuove norme si è aggiunta l'intervista
che il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Vannino Chiti, ha
rilasciato a Repubblica.it.
Secondo Chiti la legge sarebbe applicabile solo alle pubblicazioni professionali
equiparabili ai giornali e si dovrebbe in ogni caso attendere un regolamento
dell'Autorità per le garanzie.
Il primo punto non risponde al vero. L'articolo 1 della nuova legge nel primo
comma dà una definizione molto vasta del "prodotto editoriale" e nel
terzo dice semplicemente che a ogni prodotto editoriale si applicano, a seconda
dei casi, l'articolo 2 o l'articolo 5 delle disposizioni sulla stampa del 1948.
Non ci sono distinzioni tra informazione professionale o spontanea, né
limitazioni a determinate forme di editoria.
Quanto al futuro regolamento dell'Autorità per
le garanzie delle comunicazioni (probabilmente il sottosegretario si riferisce
al futuro registro degli operatori di comunicazione, che chiama impropriamente
"albo dei comunicatori") non si vede come possa modificare sia questa
legge, sia quella del '48. E in ogni caso l'iscrizione nel registro, sulla base
di un regolamento e in difetto di una specifica norma di legge, non può avere
gli stessi effetti di quella effettuata nel registro della stampa costituito ai
sensi della legge 47/48, in particolare per quanto riguarda le responsabilità
penali e il divieto di sequestro delle pubblicazioni. Inoltre, come abbiamo già
scritto, i presupposti per l'iscrizione nel registro della stampa sono diversi
da quelli previsti per il registro degli operatori di comunicazione, sulla base
di precise norme di legge.
A ben vedere, il sottosegretario Chiti usa la
tattica introdotta dal suo collega Passigli per la questione dei nomi a dominio:
difende un testo diverso da quello che risulta dalla Gazzetta ufficiale o dagli
atti parlamentari.
Il vero problema è un altro.
In Italia il regime dell'informazione è governato in prima battuta da due
leggi: la molte volte citata legge 8 febbraio 1948, n. 47, "Disposizioni
sulla stampa", già portata diverse volte davanti alla Corte costituzionale
per sospetta incompatibilità con l'articolo 21 della Costituzione, e la
legge 3 febbraio 1963, n. 69, che si intitola "Ordinamento della
professione di giornalista".
Questa legge mantiene in vita la corporazione dei giornalisti costituita nel
ventennio fascista, attribuendo all'Albo la facoltà di "cooptare" i
nuovi membri attraverso l'istituto del praticantato o l'iscrizione nell'elenco
dei pubblicisti.
L'articolo 1 di questa legge definisce come
giornalisti "professionisti" coloro esercitano in modo esclusivo o
continuativo la professione di giornalista, e come "pubblicisti" coloro
che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita, anche se
esercitano altre professioni o impieghi. Insomma, per dirla con le parole di
tutti i giorni, i professionisti sarebbero "giornalisti a tempo pieno"
e i secondi "giornalisti a tempo perso".
Ma la stessa legge stabilisce che per diventare professionisti si deve prima
essere assunti da un editore con un contratto da "praticante", sicché
si rivela "professionista" quello che di fatto è un dipendente,
mentre il libero professionista deve accontentarsi della qualifica di
"pubblicista", cioè di giornalista a tempo perso.
Se si combinano le disposizioni delle due leggi,
si vede che per fare un giornale è necessario appartenere alla corporazione.
Questa è la situazione, o meglio lo era prima dell'avvento del World Wide Web.
Infatti, da alcuni anni a questa parte, per fare un giornale o comunque
diffondere le proprie idee, non è più necessario disporre di capitali e
mettere in piedi complesse organizzazioni. Bastano un PC e quei pochi megabyte
di "spazio disco" che qualsiasi provider mette gratis a disposizione
dei propri abbonati. Chiunque può attuare di persona il dettato dell'articolo
21 della Costituzione: "Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente
il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di
diffusione".
Qui sorgono due problemi: il primo è che in
questo modo l'informazione sfugge al controllo del sistema tradizionale, basato
sulle intese tra la corporazione e le stanze del potere, il secondo è che
attraverso l'internet si possono diffondere notizie "false o
tendenziose" o si possono commettere diversi atti illeciti (diffamazione,
aggiotaggio, concorrenza sleale...) protetti da un certo grado di anonimato.
La legge 62/01 vorrebbe risolvere in un sol colpo i due "problemi"
(ammesso che il primo lo sia...) estendendo all'informazione telematica le
regole limitative della legge 47/48 e, di conseguenza, quelle della 69/63.
Quanto alle "provvidenze" per l'editoria, il sottosegretario Chiti
dovrebbe cortesemente spiegarci quali testate telematiche - che non siano
emanazione di editori tradizionali - possano avvalersene.
E' il caso di ricordare che in nessuna nazione
democratica esistono disposizioni come quelle della legge del '48 - per non
parlare degli obblighi di consegna delle copie alla polizia e ai tribunali -
disposizioni frutto di difficili compromessi tra i membri dell'Assemblea
costituente. Alcuni, infatti, proponevano norme ancora più limitative, maggiori
possibilità di sequestri e il permanere di qualche forma di censura (si veda il
bel libro di Paolo Murialdi La stampa italiana dalla liberazione alla crisi
di fine secolo, pubblicato da Laterza).
Tutto questo non è compatibile con la società dell'informazione.
La legge 62 non tiene conto di un fatto
essenziale: i concetti stessi di "informazione" e di
"stampa" sono profondamente cambiati. L'estensione delle norme sulla
stampa alle testate telematiche è molto problematica, come dimostrano le
decisioni contraddittorie dei tribunali sulle richieste di iscrizione dei
giornali on line (i due recentissimi provvedimenti
del tribunale di Salerno sono un'efficace dimostrazione dell'incongruenza della
legge del '48 con i periodici pubblicati sull'internet).
E' necessario riformulare tutto l'ordinamento
dell'informazione.
Si deve partire dalla constatazione che oggi "siamo tutti giornalisti"
e quindi stabilire per chi fa il giornalista come professione (sulla base della
dichiarazione dei redditi, come in Francia) un quadro preciso di obblighi e di
garanzie.
Si deve rivedere la natura dell'Ordine dei giornalisti, che qualcuno vorrebbe
abolire e che invece potrebbe assumere un ruolo effettivo di garanzia della
correttezza professionale di chi fa informazione.
Infine, ma questo è un discorso fatto troppe
volte, si devono stabilire alcune semplici regole per consentire
l'identificazione di chi immette contenuti nella Rete, per attribuire
correttamente la responsabilità di eventuali atti illeciti.
Altrimenti si rischia di aumentare e rendere permanente il caos di questi
giorni, che deriva semplicemente dal rozzo tentativo di applicare a una realtà
completamente nuova le regole scritte per un mondo sorpassato, dove per
diffondere le idee ci si doveva affidare a uno "stampatore" posto
sotto la stretta sorveglianza delle forze di polizia.
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