(Diario della stampa clandestina - Per gentile concessione di Diario
della settimana)
Il popolo lo chiamò "Re
Tentenna". Giosue Carducci lo definì "Italo Amleto". E invece
Carlo Alberto di Savoia, figlio di Carlo Emanuele I, sesto principe di Carignano,
e di Maria Cristina di Sassonia-Curlandia, era uno che le decisioni amava
prenderle dopo averci pensato per benino. Lo Statuto Albertino rimase dettato
costituzionale fino al 1948, passando indenne attraverso l'Unità d'Italia e il
fascismo. Ma la sua creatura più longeva rimane l'Editto sulla stampa,
promulgato nel lontano 26 febbraio 1848. Un insieme di leggi (liberali,
considerata l'epoca) che hanno accompagnato la storia dell'informazione di
questo Paese, e che da oggi regoleranno quanto verrà pubblicato su internet da
italici ingegni.
La nuova legge sull'editoria (62/2001), entrata in vigore dal 4 aprile di
quest'anno, e approvata quasi per acclamazione dalla Commissione affari
costituzionali grazie ai voti di destra, sinistra e centro, sta provocando
quintali di e-mail di protesta sul web e un silenzio pressoché tombale da parte
della carta stampata. Sulle prime, sembra un atto di buon senso assoluto. La
nuova legge definisce infatti "prodotto editoriale" ogni
"prodotto realizzato sul supporto cartaceo, ivi compreso il libro, o su
supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione
di informazione presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico".
Afferma cioè che le regole che valgono per l'informazione tradizionale, devono
valere anche per il web.
Sembra che a partire da oggi, tutti i siti italiani destinati alla
"diffusione di informazioni presso il pubblico" dovranno registrarsi
come testate giornalistiche. Chi pubblica un sito dovrà in altre parole dotarsi
di un direttore responsabile, iscritto all'Ordine dei giornalisti o all'Albo dei
pubblicisti, registrare presso il Tribunale competente la propria esistenza e
naturalmente versare le tasse dovute. La legge distingue tra i siti a carattere
"periodico", tenuti alla registrazione, e tutti gli altri che hanno
l'unico obbligo di indicare ben in vista nome e domicilio del responsabile (non
necessariamente iscritto all'Ordine dei giornalisti) e locazione fisica del
server.
Si tratta di una distinzione che fa acqua da tutte le parti. Come si fa a
definire la periodicità di un sito? Se viene aggiornato una volta al mese ha
carattere periodico? Se un giorno vengono messi on line venti articoli e per sei
mesi nulla, il sito è periodico o sporadico? Manca poi qualsiasi distinzione
sul tipo di notizie fornite. E le vette del ridicolo si sfiorano con mano. Chi
per esempio pubblica on line notizie sui campionati mondiali di Subbuteo o sui
manga giapponesi, viene di fatto equiparato a testate come Repubblica.it,
Il Nuovo.it e perfino Diario.it.
Quando si leggono le sanzioni previste per chi non si mette in regola, la
faccenda da ridicola si fa grottesca. L'estensione della definizione di
"prodotto editoriale" al web comporta anche l'estensione delle
sanzioni: "Chiunque intraprenda la pubblicazione di un giornale o altro
periodico senza che sia stata eseguita la registrazione prescritta all'articolo
5 è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a 500 mila
lire". Il reato, per fortuna "depenalizzato", è quello di
"stampa clandestina". Anche per internet varranno, segnalano lettori e
navigatori inferociti, le "norme sul sequestro dei giornali e delle altre
pubblicazioni" stabilite dal Regio Decreto del 31 maggio 1946 che si
rifanno, nell'articolo 1, all'immarcescibile Editto Albertino del 1848.
Il mondo di internet è in subbuglio, ovviamente. Sul sito di InterLex
sfilano messaggi di questo tenore: "Sono il webmaster di un sito amatoriale
su un mio amico musicista. Devo anch'io procedere a qualche forma di
registrazione? Non mi pare il massimo della privacy… magari su La Stampa mi
interesserebbe sapere dove abita Marcello Sorgi, tanto per fare un
esempio". O ancora: "Avendo due siti amatoriali di
modellismo...", "Ho un sito di due pagine che recensisce programmi di
computer…". E così via, in una sequenza piuttosto triste e atterrita, di
gestori di siti sui pesci rossi e sulle starlette della tv.
Di fronte a tutto ciò, la stampa tradizionale tace ed esulta. Anche perché la
nuova legge sull'editoria estende alle pubblicazioni on line i contributi
statali previsti per la carta stampata che, per inciso, aumentano sensibilmente.
L'esultanza di Paolo Serventi Longhi, segretario della Federazione nazionale
della stampa, il sindacato dei giornalisti italiani, appare quanto meno
sproporzionata: "Finisce così, almeno in Italia, l'assurda anarchia che
consente a chiunque di fare informazione on line senza regole e senza controlli
e garantisce al cittadino-utente di avere minimi standard di qualità di tutti i
prodotti informativi, per la prima volta anche quelli comunque diffusi su
supporto informatico". Involontariamente comico l'accenno ai "minimi
standard di qualità i tutti i prodotti informativi", vagamente inquietante
l'espressione "l'assurda anarchia", napoleonico il lamento
"almeno in Italia". Perché questo è uno dei punti centrali di questa
storia: oltre a quello italiano, gli unici Stati che regolamentano internet in
modo tanto rigido si chiamano Cina e Malesia.
AGITATORI PERICOLOSI? Anche
facendo uno sforzo per essere obbiettivi, è difficile pensare alla rete, nel
suo complesso, come a un covo di pericolosi agitatori da tenere sotto controllo.
E alla categoria dei giornalisti, sempre presa nel complesso, come a un esercito
di eroici difensori della qualità dell'informazione. Anzi, dovrebbe
tranquillizzare il pensiero che anche le manifestazioni più disgustose
dell'animo umano trovino sul web un luogo di espressione i cui responsabili, se
non decidono per la clandestinità (e in questo caso non registreranno la
testata) sono comunque facilmente identificabili e rintracciabili. Chi scrive si
è iscritto sotto falso nome a una mailing list di neonazisti. E può garantire
che quando nella posta del mattino, trova messaggi del negazionista David Irving
alla disperata ricerca di denaro, la giornata si annuncia migliore.
Dopo l'ubriacatura da new economy degli anni scorsi, i grandi smobilitano. La
realtà è questa. Kataweb ed e-Biscom riducono costi (e tagliano posti),
Zivago.com (Feltrinelli-L'Espresso) è in liquidazione. Ricolloca a man bassa
anche Athena 2000, ora Beyond, terzo piede telematico del gruppo Fininvest,
oltre a Mondadori.com e Jumpy, intestata fino a pochi mesi fa alla signora
Miriam Bartolini, alias Veronica Lario, e responsabile di siti come
Forza-italia.it, alias Votaberlusconi.it. Nel mondo non va meglio: Napster
agonizza, Yahoo perde i pezzi, Amazon non trova di meglio che annunciare
"monopattini volanti", Salon si offre in giro. La verità è che con
internet, nessun "fornitore di contenuti" ha ancora fatto i soldi. Di
fronte a questo stato di cose, l'Italia, armata di cucchiaino, propone di
svuotare il mare della comunicazione spontanea, "assurdamente
anarchica", di migliaia di siti che sfuggono ai circuiti tradizionali. E al
contempo si affida ai vecchi cari contributi statali. E tutto ciò mentre i
leader maggiori si abbandonano a proclami post-dannunziani, nel tentativo di
cavalcare il web, proprio mentre lo frenano. Mentre Silvio Berlusconi va
annunciando le "tre I, internet, inglese e impresa", Francesco Rutelli, in visita al Futurshow di Bologna, fa battute a Walter Vitali, ultimo
sindaco comunista della città: "Pensa, Walter, che strano venire proprio a
Bologna a dire che il futuro della democrazia dipende dal Pc". E scrosciano
applausi.
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