La storia antica e moderna insegna che la libertà di manifestazione del
pensiero nella sua accezione più ampia è la prima ad essere travolta e
soppressa all'indomani dell'instaurazione di ogni regime non democratico e la
prima a comparire quando un popolo inizia il suo cammino verso la democrazia ed
è per questo che la Corte costituzionale l'ha già da tempo definita
"pietra angolare dell'ordine democratico".
Tale libertà consacrata per la prima volta in un testo di legge in Gran
Bretagna nella Magna Charta del 1215 è stata poi sancita - con disposizione di
straordinaria chiarezza - dall'articolo 11 della Dichiarazione dei diritti
dell'uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, secondo cui "la libera
comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi
dell'uomo" e "ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare
liberamente salvo a rispondere dell'abuso di questa libertà nei casi
determinati dalla legge".
La stessa libertà - a conferma della sua centralità in tutti gli ordinamenti
democratici - è stata poi solennemente proclamata nella Dichiarazione universale
dei diritti dell'uomo approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni unite il
10 dicembre 1948 attraverso le previsioni degli articoli 18 e 19 secondo cui
"ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di
religione..." e "alla libertà di opinione e di espressione incluso il
diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare,
ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo
a frontiere".
Nell'ambito di tale libertà, il legislatore, la giurisprudenza e la dottrina
si sono sempre preoccupati di mantenere nettamente distinta l'attività
informativa svolta - in maniera "professionale" attraverso la stampa e
gli altri mezzi di comunicazione di massa da ogni diversa forma di
manifestazione del pensiero e ciò, evidentemente, in ragione della peculiare
autorevolezza riconosciuta a tali fonti di informazione, suscettibili di
ingenerare nel pubblico un più alto livello di affidamento.
Si è così creato - anche nel nostro Paese - un "doppio binario"
nella disciplina dell'informazione che, sancito già dall'art. 21 della nostra
Costituzione e poi consacrato all'art. 10 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, approvata a
Roma il 4 novembre 1950, è stato successivamente attuato, in Italia, attraverso
tutta una serie di previsioni che vanno dalla legge n. 47 dell'8 febbraio 1948,
approvata dalla stessa assemblea costituente, al recente "pasticcio"
legislativo realizzato con la legge 7 marzo 2001 n. 62 con la quale si è
tentato di modificare, ponendo in realtà in essere una maldestra operazione di
ingegneria giuridica, la "disciplina delle imprese editrici di quotidiani e
periodici" affidata alla legge 5 agosto 1981, n. 416 ed ai successivi
interventi legislativi intervenuti in materia.
L'esistenza di questo "doppio binario" impedisce di affrontare
congiuntamente le questioni legate alla disciplina ed all'esercizio della
libertà di manifestazione del pensiero e di "informazione
professionale" e suggerisce di concentrare la nostra attenzione in questa
sede solo sul primo di tali argomenti.
Ristretto così l'ambito di questo intervento, appare subito opportuno
rilevare come nel quadro normativo che si è appena delineato, negli ultimi
anni, abbia fatto irruzione Internet, straordinario strumento di comunicazione
in grado di consentire ad un pubblico potenzialmente infinito ed eterogeneo per
provenienza, etnia, cultura, religione e ceto sociale di appartenenza di
diffondere informazioni e contenuti senza limiti né spaziali né temporali
attraverso canali e con modalità quanto mai differenti e ben difficilmente
riconducibili ad un insieme composito ed omogeneo (mail, mailing list, newsgroup,
BBS, pagine web ecc.).
E' innegabile che la Rete - grazie anche alla facilità ed ai costi
relativamente contenuti necessari ad accedervi - abbia accresciuto in maniera
dirompente la concreta possibilità di esercizio della libertà di
manifestazione del pensiero e costituisca uno strumento capace di amplificare in
modo esponenziale la voce del singolo rendendola conoscibile alla collettività.
Ben difficilmente oggi, la Corte costituzionale potrebbe vedersi costretta ad
affermare, come accaduto in passato, che "il diritto riconosciuto a tutti
di manifestare liberamente il proprio pensiero con ogni mezzo non può voler
dire che tutti debbano avere, in fatto, una materiale disponibilità di tutti i
possibili mezzi di diffusione ma vuol dire, più realisticamente, che a tutti la
legge deve garantire la giuridica possibilità di usarne o di accedervi con le
modalità ed entro i limiti resi eventualmente necessari dalle particolari
caratteristiche dei singoli mezzi o dalla esigenza di assicurare l'armonica
coesistenza del pari diritto di ciascuno o dalla tutela di altri interessi
costituzionalmente apprezzabili".
Non appare dunque azzardato affermare che ogni intervento volto a limitare o,
comunque, rendere meno agevole ed immediato l'accesso ad Internet in assenza di
concrete esigenze di tutela di predominanti interessi pubblici ed al di fuori
dei limiti all'esercizio di tale libertà costituzionalmente individuati,
rischia di porsi in aperto contrasto con l'art. 21 della Costituzione.
Sotto tale profilo non è condivisibile quella tendenza politico-legislativo che
si registra anche nel nostro Paese, secondo la quale proprio la circostanza che
Internet consenta al singolo di manifestare il proprio pensiero in modo più
facile ed incisivo di quanto non fosse possibile ieri, giustificherebbe una più
rigida disciplina e l'imposizione di più stringenti limiti e legacci
all'esercizio della libertà di cui all'art. 21 della Carta costituzionale.
E' innegabile che Internet segni il passaggio da un sistema di comunicazione
che potremmo definire autoritario - dall'alto verso il basso - quale quello
dell'informazione tradizionale ad una nuova organizzazione già definita "a
rete" nella quale l'informazione corre lungo canali trasversali ed
orizzontali piuttosto che verticali: in Rete, ciascuno può creare e diffondere
informazioni, idee ed opinioni senza necessità di interloquire con i cosiddetti
"professionisti dell'informazione".
La paura del nuovo e forse la difficoltà del mondo politico ed economico di
accettare che le regole dell'informazione e della circolazione delle idee e
delle opinioni stiano rapidamente cambiando, tuttavia, non può giustificare
forme di reazione che si pongono ai limiti dell'ordinamento giuridico e, forse,
talvolta lo travalicano.
Egualmente non condivisibile è, d'altra parte, l'opinione di chi ritiene che
Internet costituisca un mondo a sé nel quale principi, leggi e sanzioni
operanti da decenni nel mondo reale non potrebbero trovare applicazione e che la
Rete non possa e non debba tollerare ingerenze dovendo restare affidata al caos
primordiale che ne ha contraddistinto le origini.
Percorrere questa strada significa continuare a rifiutare di accettare che la
Rete è ormai entrata a far parte di quello che una volta veniva contrapposto al
"ciberspazio" e definito "mondo reale", che attraverso
Internet si concludono affari, si gestiscono relazioni personali, commerciali e
governative, si diffondono notizie suscettibili di modificare il destino di
colossi economici, nazioni e persone comuni e significa soprattutto non
ammettere che - nell'attuale stadio del suo sviluppo - anche la Rete ha bisogno
di regole certe e, forse, "universali".
In questo senso, convinzioni pure diffuse nel popolo della Rete, quale quella
secondo cui le stesse opere dell'ingegno (musica, software, banche di dati) che
se incorporate su un supporto hanno un prezzo, in Internet dovrebbero circolare
gratuitamente o quella - altrettanto diffusa - secondo cui sarebbe lecito ed
auspicabile continuare a consentire a chiunque di accedere alla Rete per
diffondere contenuti, idee ed opinioni in forma totalmente anonima, non sembrano
far bene alla Rete ed anzi, probabilmente, allontanano il giorno in cui sarà
possibile iniziare ad investire seriamente in Internet capitali, idee e risorse
umane.
Con particolare riferimento al problema del quale ci stiamo occupando, tali
riflessioni, inducono a ritenere che le regole dell'informazione in Rete debbano
essere ricercate nella realizzazione di un binomio giuridico indissolubile tra
la libertà del singolo di manifestare il proprio pensiero e la propria opinione
e la sua responsabilità per ogni eventuale abuso.
Si tratta, come si è detto, di una soluzione antica già consacrata nella
Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 ma, ritengo ancora
incredibilmente attuale.
In tale operazione, tuttavia, occorre tener conto anche degli obblighi e
delle eventuali responsabilità da porre a carico degli intermediari della
comunicazione (access provider, service provider, fornitori di hosting ecc.)
poiché è evidente che tali scelte sono suscettibili di produrre riflessi
immediati sulla concreta possibilità dei singoli di esercitare concretamente ed
al riparo da ingerenze e censure la propria libertà di manifestazione del
pensiero.
Non c'è dubbio, infatti, che chiamare un intermediario della comunicazione a
rispondere dei contenuti diffusi attraverso la propria attività vuol dire
autorizzarlo ed anzi obbligarlo ad esaminare preventivamente le informazioni che
circolano sulle proprie macchine ed a valutare in maniera autonoma se ed in che
misura ritenere leciti determinati contenuti; in assenza dell'imposizione di un
simile obbligo di vigilanza, infatti, ogni forma di responsabilità avrebbe
natura oggettiva e sarebbe perciò difficilmente conciliabile con i principi
generali del nostro ordinamento specie in materia penale.
Non v'è chi non veda, tuttavia, che così facendo si corre il rischio di
attribuire - sebbene indirettamente - ad un soggetto privato pericolosi poteri
censori che, nell'attuale quadro costituzionale, lo stesso Stato può esercitare
solo in casi del tutto eccezionali incorrendo altrimenti nel divieto di cui
all'art. 21.
A ciò si aggiunga che tali soggetti - considerata l'enorme mole di dati che
circola sulle proprie macchine - non sono tecnicamente in grado di compiere tali
operazioni di monitoraggio e, comunque, non dispongono, certamente, delle
competenze e conoscenze necessarie a distinguere ciò che è lecito - o
ricorrendo particolari circostanze, deve essere ritenuto tale - è ciò che non
lo è.
Quello del confine sottile tra libertà di manifestazione del pensiero,
diffamazione, diritto di critica e di cronaca è un problema che da decenni
impegna e divide fini giuristi, costituzionalisti, magistrati, avvocati,
giornalisti ed uomini di cultura, la cui soluzione solo un legislatore miope o
poco consapevole dell'importanza del nuovo media telematico, potrebbe rimettere
ad un provider.
Del resto - muovendo proprio da tali considerazioni - la giurisprudenza italiana
e straniera - sebbene ancora con taluni tentennamenti - è giunta ad escludere
la responsabilità degli intermediari dell'informazione per i contenuti diffusi
dai propri utenti, negando la possibilità di configurare a carico di tali
soggetti un generico obbligo di controllo.
Si tratta della medesima conclusione cui è giunto anche il legislatore UE
nella direttiva 31/2000 relativa a taluni aspetti del commercio elettronico
imponendo agli Stati membri di escludere ogni responsabilità per il
"semplice trasporto" (mere conduit), per la memorizzazione
temporanea (caching) nonché per l'hosting.
Tali concetti che appaiono largamente condivisibili in linea di principio
sollevano, tuttavia, non pochi dubbi e perplessità in riferimento alle
specifiche modalità e termini con i quali essi appaiono destinati ad essere
attuati nell'ordinamento italiano stando a quanto emerge dalla delega
recentemente conferita dal parlamento al Governo nell'ambito della legge comunitaria
2001.
Il legislatore della legge delega, infatti, nel prevedere l'esonero da ogni
responsabilità per l'intermediario delle comunicazioni - salvo nelle ipotesi in
cui questi effettivamente al corrente dell'illiceità dei contenuti diffusi
attraverso le proprie macchine o informato di ciò non si attivi per rimuoverle
- non si preoccupa, in alcun modo, di chiarire quando un contenuto debba
ritenersi illecito e conseguentemente quando il provider possa ritenersi
obbligato ad intervenire incorrendo, in difetto, nelle responsabilità previste
dalla legge.
Tale elemento se non dovesse essere chiarito neppure dal Governo in fase di
attuazione della delega, rischia di produrre due ordini di conseguenze
egualmente gravi ed inaccettabili:
- il provider, preoccupato di sottrarsi ad un'eventuale responsabilità,
potrebbe essere spinto a cancellare o comunque ad oscurare determinati contenuti
sulla base di una semplice segnalazione proveniente da un qualsiasi soggetto
mosso, in ipotesi, dalla volontà di perseguire scopi e finalità che nulla
hanno a che vedere con la liceità o meno di un determinato contenuto.
In tal modo tuttavia si finisce con l'investire - sebbene indirettamente - un
soggetto privato quale il provider di un potere censorio assolutamente
incompatibile con la libertà di manifestazione del pensiero che non può
restare subordinata all'arbitrio di questo o quell'intermediario della
comunicazione né, tantomeno, al capriccio di chi, ad esempio, sentendosi
ingiustamente offeso da certe affermazioni ritenga di farsi giustizia da solo
chiedendo ed ottenendo dal provider la rimozione di tali affermazioni. E' dunque
auspicabile che il Governo chiarisca tale aspetto precisando che l'obbligo
dell'intermediario della comunicazione di attivarsi sorge solo ed esclusivamente
a seguito di un provvedimento dell'autorità giudiziaria o di una segnalazione
relativa a contenuti manifestamente illeciti (pedofilia, pornografia senza
restrizioni per i minori ecc.).
- dinanzi all'invio di una segnalazione circa la presunta illiceità di
determinati contenuti il provider verrebbe a trovarsi dinanzi a quello che è
già stato definito "il dilemma dell'operatore": non rimuovere il
contenuto segnalato come illecito ed esporsi così a possibili contestazioni e
responsabilità nei confronti del segnalante o, comunque del soggetto leso da
tale contenuto o decidere unilateralmente di procedere alla rimozione o
all'oscuramento delle informazioni esponendosi così ad eventuali contestazioni
da parte del titolare di dette informazioni specie nell'ipotesi in cui le stesse
siano successivamente ritenute lecite all'esito di un giudizio?
Egualmente infelice ed ambigua appare la previsione pure contenuta nella
legge delega secondo cui l'intermediario della comunicazione dovrebbe
"comunicare alle autorità competenti, a loro richiesta, informazioni che
consentano l'identificazione dei destinatari dei loro servizi".
Anche al riguardo è auspicabile un puntuale intervento del Governo che
chiarisca quali siano le informazioni relative all'identità del destinatario
dei servizi che il prestatore è tenuto ad acquisire, conservare ed
eventualmente comunicare alla competente autorità.
La circostanza che il legislatore delegante non abbia avvertito l'esigenza di
porre a carico dei provider uno specifico obbligo di identificazione dei propri
utenti, spinge a ritenere che dette informazioni continuino ad essere costituite
- come peraltro già avviene nella prassi - dai soli file di log e non anche
dall'identità fisica del destinatario dei servizi.
Se tale conclusione è corretta, tuttavia, ciò significa che il legislatore
continua a ritenere lecito ed opportuno che ciascuno agisca in Rete non solo
attraverso un'identità virtuale "fornitagli" dal provider in cambio
della propria identità reale da rendere nota esclusivamente dietro richiesta
della competente Autorità, ma anche attraverso il cosiddetto "anonimato
assoluto", ovvero non essendo tenuti a svelare la propria effettiva
identità neppure al soggetto che offre la connettività alla Rete.
Tale scelta non appare condivisibile anche alla luce di quanto si è andati
dicendo circa l'esigenza - nell'attuale stadio di sviluppo della Rete - di
regole certe e trasparenti.
Fino a quando in Rete sarà possibile agire in forma assolutamente anonima e,
quindi, al riparo da ogni eventuale imputazione di responsabilità, internet
continuerà a restare solo uno sconfinato campo da gioco ben difficilmente
utilizzabile per concludere affari, dibattere questioni politiche, giuridiche o
sociali o, anche, semplicemente allacciare relazioni personali.
L'idea dell'anonimato assoluto, ovvero della possibilità del singolo di
manifestare liberamente il proprio pensiero senza farsi carico delle eventuali
responsabilità che ne derivino, non ha nulla a che vedere con la libertà di
manifestazione del pensiero sancita all'art. 21 della Costituzione.
L'ordinamento giuridico italiano, al pari di quello di molti altri Paesi
democratici, riconosce a tutti i cittadini la libertà di manifestazione del
proprio pensiero come forma di piena estrinsecazione e realizzazione della
personalità del singolo e non già come licenza di offendere, vilipendere o,
comunque, agire in modo illecito forti della copertura di una maschera che non
può essere tirata via - complici i nuovi strumenti telematici - neppure dinanzi
ad una precisa richiesta dell'autorità giudiziaria a seguito della commissione
di un illecito.
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