Ma allora per pubblicare i giornali on line occorre registrarli presso il
tribunale, al pari dei loro "cugini" della carta stampata, o no? E,
poiché la registrazione per legge presuppone che direttore del giornale sia un
giornalista professionista, sorge spontaneo il dubbio: bisogna essere per forza
iscritti all’albo professionale per diffondere notizie su Internet o chiunque
è libero di esercitare la propria libertà d’informazione sul Web senza
restrizioni? A dare la risposta all’arduo interrogativo, da cui dipende gran
parte del futuro sviluppo dell’informazione in Rete e da cui è scaturita
negli ultimi giorni un accesa controversia che ha coinvolto governo, giuristi,
ordini professionali e libertini del "popolo della rete", ci ha
pensato l’UE.
Un’affermazione che può certamente stonare alle orecchie di chi è
convinto che la riforma dell’editoria, entrata recentemente in vigore, abbia
già risolto la disputa a favore dei partigiani della registrazione. L’art.
1 della nuova normativa, infatti, inventa ex-novo una definizione di
prodotto editoriale che comprende anche i supporti informatici volti alla
diffusione di notizie per via elettronica, prevedendo l’obbligo di iscrizione
in tutti i casi in cui un prodotto editoriale siadiffuso al pubblico con
periodicità regolare e contraddistinto da una testata, costituente elemento
identificativo del prodotto: una formulazione prolissa che non è altro che
un sinonimo di "giornale", incluso quello formato on line.
Questa chiara messa al bando dei tanti notiziari web "puri", anche
detti web-zines, ossia sprovvisti di una versione cartacea e quindi fino
ad oggi non registrati, che sono gestiti da soggetti privi di titolo
professionale, costituisce il colpo di grazia del lungo attacco istituzionale
alla libera informazione su Internet. Un assalto iniziato circa tre anni fa con
le prime sentenze di tribunali che, sbizzarrendosi nelle più svariate
interpretazioni, hanno ritenuto di estendere la legge sulla stampa del ’48
alle pubblicazioni telematiche. E che preparava la sua mossa finale già con la
finanziaria 2001 (art. 153) in cui si impone l’obbligo di registrazione ai
giornali on line editi dai partiti come condizione per beneficiare delle
sovvenzioni pubbliche.
Ma non è finita qui, perché il governo aveva addirittura proposto di
inserire nel disegno di legge sull’aggiornamento della normativa del ’48, in
discussione alla Camera, l’espresso obbligo di registrazione per ogni giornale
anche se diffuso a mezzo di trasmissioni informatiche o telematiche. Il
DDL è poi decaduto per la fine della legislatura, ma la proposta è passata
nella legge sull’editoria.
Casualmente, poi, l’approvazione della riforma dell’editoria è giunta quasi
in contemporanea all’accordo stipulato, seppure non ancora in via definitiva,
tra FIEG e FNSI sul rinnovo del contratto giornalistico il quale, d’ora in
avanti, coprirà obbligatoriamente anche i redattori delle pubblicazioni on line
che lavorano presso testate registrate.
L’assurdo risultato è facilmente immaginabile: centinaia di piccoli siti
più o meno d’informazione, che sopravvivono attualmente grazie a qualche
milione di lire al mese di introiti pubblicitari, costretti a chiudere perché
privi di un direttore professionista richiesto per la registrazione e, tanto
meno, dei fondi necessari ad assumere ulteriore personale giornalistico con
titolo professionale. Ciò nonostante, forse non tutto è perduto. Per
rendersene conto basterebbe mettere il naso fuori dall’italico cortile degli
interessi politici e di categoria e guardare invece ad un organismo come l’UE
che, al riparo da polemiche lontane mille miglia, si è seriamente impegnata
negli ultimi mesi a regolamentare il fenomeno dell’informazione in Internet
per quello che realmente è: non una semplice scheggia impazzita nel panorama
del giornalismo italiano da ingabbiare in un sistema normativo ormai vecchio
più di mezzo secolo, ma una positiva e rivoluzionaria realtà trans-nazionale
che per svilupparsi a pieno ha bisogno, al contrario, di spezzare gli attuali
vincoli statali alla libertà d’informazione.
E’ questo, per l’appunto, il risultato raggiunto con l’approvazione
della direttiva 2000/31/CE sul commercio
elettronico, sebbene quest’ultima non si rivolga direttamente al giornalismo
telematico.
Obiettivo generale della nuova normativa, la cui entrata in vigore è fissata al
gennaio 2002, è quello di promuovere l’integrazione del mercato europeo della
"new-economy" attraverso un quadro giuridico uniforme che garantisca
la libera prestazione e la libera circolazione tra i vari paesi delle attività
o servizi on line (ossia quelli prestati via Internet, ma anche attraverso altri
strumenti elettronici interattivi come la TV on-demand). Questi ultimi
sono definiti tecnicamente "servizi della Società dell’informazione"
(SSI).
Ora, che anche i giornali on line siano soggetti alle disposizioni della
direttiva appare facilmente dimostrabile. In primo luogo, è indubbio che la
diffusione e la visualizzazione di news in Rete non si traduce nel trasferimento
di un bene, come è il caso della pubblicazione di un giornale cartaceo, ma
nella prestazione di un’attività immateriale, uno scambio di file dal
computer che ospita il giornale al computer del lettore. Al riguardo, secondo il
Trattato e la giurisprudenza della Corte UE, una qualsiasi attività economica
che, per sua natura, non rientri nella nozione di distribuzione di beni va
considerata una prestazione di servizi: il giornale on line (come anche quello
radiofonico e televisivo) è quindi un servizio. Per di più, esso è da
ritenersi appartenente alla particolare nozione di SSI, quale esplicitamente
richiamata dall’art. 1 della direttiva.
Quest’ultima comprende qualsiasi servizio prestato normalmente dietro
retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale del
destinatario del servizio.
Un qualunque sito che contenga informazioni d’attualità presenta senz’altro
tutti i requisiti dei SSI. In primo luogo, quello della remunerazione, sotto
forma dei proventi derivanti dai banner pubblicitari: infatti, secondo la
giurisprudenza costante della Corte di giustizia UE, per remunerazione di un
servizio deve intendersi non solo il corrispettivo versato direttamente da
ciascun utente, ma qualsiasi forma di beneficio finanziario che il prestatore
possa ricavare dalla fornitura di quel particolare servizio, anche se attraverso
un procedimento indiretto come appunto la vendita di spazi pubblicitari
associata alla propria attività professionale. Il giornale on line soddisfa,
inoltre, il requisito della diffusione elettronica a distanza, insita nel
funzionamento stesso di Internet; ed, infine, quello dell’individualità della
richiesta da parte del destinatario, grazie al carattere interattivo dei link
ipertestuali che danno accesso alle diverse news.
Non per niente la stessa Commissione europea si è premurata di precisare a
più riprese, nella Comunicazione del 30 agosto ’96 su "La trasparenza
normativa nel mercato interno dei servizi della Società dell’informazione",
nel documento di presentazione della stessa direttiva, nonché nel considerando
18 di quest’ultima, che nella categoria dei servizi della Società dell’informazione
rientrano anche i giornali elettronici.
Una volta appurato che la disciplina UE si applica ai giornali telematici, per
risolvere il nostro dilemma iniziale nel senso della libertà di informazione in
Internet ci viene in aiuto l’art. 4 della
direttiva che fa piazza pulita dell’obbligo di registrazione. Questo vieta,
infatti, agli Stati membri di restringere l’accesso alla prestazione dei SSI,
facendo salvi solo i regimi restrittivi più ampi che non colpiscono
specificamente ed esclusivamente le attività svolte on line, ma si riferiscono
ad attività preesistenti ad Internet.
Riconducendo la norma comunitaria al problema della registrazione delle
testate telematiche, la prima domanda da porsi è la seguente: l’estensione
dell’obbligo di registrazione alle pubblicazioni in Internet è suscettibile
di limitare l’accesso alla prestazione dell’attività d’informazione on
line, considerata come un particolare tipo di SSI ? La risposta secca è
"sì" per le ragioni già viste.
Facendo l’avvocato del diavolo, si potrebbe obiettare che l’obbligo di
iscrizione previsto dalla nuova legge sull’editoria riguarda tutti i tipi di
prodotto editoriale caratterizzati da periodicità regolare, siano essi on line
che off line. E che, quindi, esso rappresenta un regime restrittivo che non
colpisce in modo specifico ed esclusivo l’attività di informazione svolta in
Rete, bensì l’attività d’informazione in generale: sarebbe così
ammissibile in base allo stesso art. 4 della direttiva.
Eppure, non bisogna dimenticare che per l’editoria giornalistica off line,
per intenderci quella della carta stampata e quella radiotelevisiva, la legge
italiana già prevede l’obbligo di registrazione attraverso due normative
diverse, rispettivamente la legge del ’48 e la legge "Mammì" del
’90. Non c’era, quindi, nessun bisogno di riformare la legge sull’editoria
per sottoporre a tale obbligo i giornali stampati e quelli radiotelevisivi. E, d’altro
canto, come ben dimostra la stessa diversità di regolamentazione che sussiste
tra la pubblicazione di stampati e la radiotelevisione, la diffusione d’informazione
generalmente intesa non costituisce un’attività economica in sé ed in quanto
tale preesistente ad Internet. Essa, al contrario, dà luogo a tante attività
economicamente diverse tra loro a seconda della particolare tecnologia
impiegata: quella dell’informazione stampata, quella dell’informazione
radiotelevisiva e quella, più innovativa, dell’informazione telematica. Quest’ultima,
tra le tre, è l’unica che finora non aveva trovato una sua propria disciplina
nel nostro ordinamento perché basata su una tecnologia inesistente all’epoca
in cui sono state adottate le vecchie legislazioni sui mass media.
Ecco dunque che l’art. 1 comma 3 della
legge 62/01, nonché la modifica alla legge del ‘48 proposta dal governo,
sotto le false spoglie di un regime restrittivo generale per la fantomatica
"attività di informazione", non hanno altro obiettivo specifico ed
esclusivo, se non quello di colpire la prestazione di una particolare attività,
appartenente alla categoria dei SSI, che consiste appunto nella diffusione d’informazione
per via telematica.
Conclusione: l’estensione dell’obbligo di registrazione ai giornali on line
risulta inammissibile in virtù della normativa UE, con buona pace di tutti
coloro che credono che la libertà d’informazione esercitata nella rete
globale di Internet possa essere ritagliata a pezzi più o meno grandi seguendo
le frontiere nazionali.
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