Di televisione non si discute. Lo dice il segretario del
partito del signore delle televisioni. E per questo non va alla
riunione con il Presidente del consiglio e i segretari
degli altri partiti che sostengono il Governo.
Di televisione può occuparsi solo il Parlamento, dicono
sempre i corifei del signore delle televisioni. Ma il
Parlamento è in tutt'altre faccende affaccendato.Il Governo si occupava di televisione (anche troppo)
quando il capo del Governo medesimo era anche il capo
della televisione. Conflitto di interessi e anche
spregio della legalità, perché fin dal lontano 1975 la Corte costituzionale
ha stabilito che deve essere il Parlamento ad occuparsi
dell'emittenza pubblica, in quanto rappresentativo della
comunità nazionale.
Ma il signore di cui parliamo non è più capo del
governo e il controllo della televisione pubblica
rischia di sfuggirgli di mano. Il mandato del
"suo" consiglio
di amministrazione della Rai scade tra pochi giorni.
Nominarne un altro con le regole attuali è
inaccettabile per l'ex-opposizione, anche se i mutati
equilibri politici potrebbero determinare un cambiamento
sostanziale.
Una riforma del servizio pubblico in tempi brevi non è
pensabile. Occorre una soluzione immediata, che ponga
fine allo squilibrio.
Al professor Monti, presidente del consiglio in
carica, si attribuisce un progetto geniale semplicità: un ritocchino alla legge
Gasparri, che riduca da nove a cinque il numero dei membri del
CDA. Uno per ciascuno ai tre partiti dell'attuale
maggioranza, così nessuno potrebbe lamentarsi. Gli
altri due come legge Gasparri comanda: nominati
dall'azionista di maggioranza, cioè il Ministero del
tesoro, cioè il Governo
Risultato: il controllo della Rai resterebbe nelle
mani del Governo, in barba alla sentenza della Corte
costituzionale. Ma il padrone della televisione privata
non potrebbe più controllare quella pubblica. Insomma,
il male minore, in attesa di una seria riforma
dell'azienda pubblica.
Pubblica? Un momento. La privatizzazione della Rai è
un ritornello che va avanti da anni. E' prevista anche dalla legge Gasparri. Ora gli inviti a
privatizzare ritornano insistenti da varie parti. Da
ultimo ci si è messa anche l'OCSE, non si capisce bene
a quale titolo.
La questione è complicata, anche perché non è chiaro
se si voglia semplicemente vendere Rai ai privati,
oppure privatizzare il servizio pubblico, smantellando
l'azienda di viale Mazzini.
Prima di tutto, però, si dovrebbe chiarire che cosa
significa "servizio pubblico". Anche perché
non si può più parlare solo di radio e televisione, ma
si devono considerare i "media di servizio
pubblico", secondo la formula introdotta
dall'Unione europea. Da qui si deve partire per definire
in che cosa consista la mission dei media di
servizio pubblico e come debba essere finanziata.
Così si può affrontare il nodo essenziale della
invocata privatizzazione: bisogna capire se la missione del servizio
pubblico possa essere svolta da aziende che hanno una
missione commerciale. Finanziate per questo con denaro
pubblico. Un affare di proporzioni notevoli, che spiega
perché ci siano tanti interessi verso la fine del
servizio svolto da un'azienda di stato.
In tutto questo non è secondario il problema del
reperimento delle risorse, oggi ancora legato al
famigerato "canone". L'imposta più odiata
dagli italiani, oggetto di polemiche demagogiche più
che di discussioni costruttive.
A che cosa serve - o dovrebbe servire - il canone? A
finanziare l'Isola del famosi o altri prodotti
più adatti alle emittenti commerciali?
Evidentemente no.
Il compito del servizio pubblico, in una sintesi
estrema e imprecisa, è fare un'informazione equilibrata
e promuovere e diffondere la cultura nel senso più
ampio del termine. Anche con programmi che non strizzano
l'occhio ai grandi numeri dell'audience e che per
questo non sarebbero mai prodotti dalla emittenza
commerciale.
Quello che un tempo faceva la Rai, e che oggi fa solo in
parte.
Programmi di servizio pubblico il cui costo non può essere
sostenuto dalla pubblicità. Anzi, un vero servizio
pubblico non dovrebbe avere la pubblicità, perché essa
condiziona sempre, in un modo o nell'altro, la scelta
dei contenuti. Quindi devono essere pagati dalla
collettività. Come? Con il canone a carico di chi
possiede un apparecchio televisivo, cioè praticamente
di tutti?
Se il servizio pubblico fosse veramente tale, i cittadini
potrebbero pagare una piccola "tassa sulla conoscenza", come
pagano i contributi per il servizio sanitario nazionale
o per il trattamento dei rifiuti.
Il canone legato al possesso di uno o più apparecchi televisivi è
senza dubbio obsoleto.
Occorre un sistema più aderente
alla realtà di oggi: se riscuotere una tassa da inserire nella
dichiarazione dei redditi, o con l'addebito sulla bolletta
della luce o in altro modo, è materia da discutere.
E' da discutere soprattutto il presupposto della tassa,
dal momento in cui l'apparecchio tradizionale è solo
uno dei tanti aggeggi che servono a ricevere i
programmi, via etere o via filo.
Infatti spesso emerge la questione del pagamento del canone
anche per tutti gli apparecchi che possono
ricevere i segnali televisivi, dai PC da tavolo ai
telefonini "smart". La lettera della legge
(l'arcaico Regio decreto-legge 21 febbraio 1938, n. 246
-
Disciplina degli abbonamenti alle radioaudizioni, modificato per la
televisione), appare chiara: "Chiunque detenga uno o più apparecchi atti od
adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è
obbligato al pagamento del canone di abbonamento".
Dunque anche il possesso di computer, smartphone,
iCosi eccetera dovrebbe costituire il presupposto per
l'obbligo di pagare l'imposta. Le polemiche divampano.
La Rai, il 21 febbraio scorso, ha comunicato che non
chiederà il pagamento del "canone speciale"
per questi apparecchi (il canone speciale è quello
dovuto da soggetti diversi dalle famiglie). Alcuni anni
fa aveva detto la stessa cosa per il canone ordinario.
Ora la domanda è: un'azienda, sia pure pubblica, può
disapplicare una legge dello Stato?
Naturalmente la risposta è "no". Ma è
evidente che l'antico decreto legge non sta più in piedi, sia
per il presupposto sia per il meccanismo di riscossione.
E' una delle tante cose che dobbiamo discutere, se non
vogliamo che il degrado del servizio pubblico raggiunga
un punto di non ritorno.
Forse è per questo che qualcuno non ne vuole discutere.
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