La Rai sta attraversando un momento
molto difficile. Non so se è in gioco nel breve-medio
periodo la sua stessa sopravvivenza, sicuramente oggi
assisto a una deriva che rischia di rendere il servizio
pubblico marginale e ininfluente in un futuro peraltro
non lontano.
Sono quattro i fattori principali
della crisi in atto: la debolezza economica dell’azienda
che avrebbe bisogno di una profonda ristrutturazione
industriale; un’ostilità, che non ha precedenti, da
parte della politica; l’inadeguatezza professionale di
chi è stato chiamato alla guida di viale Mazzini in una
fase di profonda evoluzione tecnologica e di mercato che
avrebbe richiesto, invece, una solida competenza
manageriale; la perdita, infine, di credibilità e
autorevolezza la cui conseguenza è il progressivo
distacco dell’opinione pubblica (il crollo verticale
degli ascolti del Tg1 ne è la dimostrazione) che fa
fatica a riconoscere nel servizio pubblico
radiotelevisivo un servizio di interesse generale. Se ci
pensate è una miscela esplosiva anche perché ho la
sensazione che sia dentro sia fuori l’azienda non vi
è ancora la percezione che i fantasmi del ‘93-94
potrebbero essere già dietro l’angolo. Con una
differenza rispetto a quegli anni: le forti tensioni
politiche che il Paese sta vivendo e le regole
comunitarie non consentirebbero questa volta il varo di
un nuovo decreto salva-Rai.
C’è di più, allora i “Professori”
prima, la Moratti dopo poterono avviare quel processo di
risanamento completato nei quattro anni della gestione
Celli-Zaccaria perché fu assecondato da tutte le forze
politiche, sia da quelle, di destra o di centrosinistra,
che avevano sempre creduto nella funzione positiva di un
servizio pubblico radiotelevisivo sia da quella (Forza
Italia) che come partito-azienda non aveva interesse ad
un indebolimento della Rai.
Erano, infatti, gli anni in cui lo
stesso Silvio Berlusconi tifava, pur attaccandolo, per
il cavallo di Viale Mazzini. Mediaset, infatti, per
affermarsi e per crescere aveva bisogno di un duopolio
blindato. Una Rai, finanziata anche dalla pubblicità,
era cioè necessaria al rafforzamento di Mediaset
perché insieme concorrevano a scoraggiare ed impedire l’ingresso
sul mercato di altri competitori. Oggi sappiamo che non
è più così. Le nuove condizioni di mercato, le
opportunità di business offerte dall’evoluzione
tecnologica e dalle nuove piattaforme, il consolidamento
di un terzo soggetto (Sky) pronto a sbarcare anche sul
terrestre, fanno si che a Cologno Monzese non guardano
più alla Rai come a un soggetto concorrente ma
funzionale alla crescita del gruppo, mentre il
proprietario di Mediaset, che è anche il capo del
governo, non è più disponibile a tollerare in nome dei
suoi interessi politici quei minimi spazi di libertà e
di indipendenza dal governo che il servizio pubblico è
riuscito sinora a difendere e a garantire. Certo, non
chiuderà la Rai con un atto d’imperio. Sa che non è
possibile farlo perché vivaddio l’Italia fa parte
ancora di una comunità internazionale che non lo
tollererebbe. Sa, però, che può ottenere lo stesso
risultato colpendola ai fianchi, impedendole di essere
libera sul mercato (la vicenda del mancato rinnovo del
contratto con Sky è significativa e grida ancora
vendetta), rendendola ancillare agli interessi di
Mediaset anche nella raccolta pubblicitaria, demolendo
con le iniziative parlamentari di queste ore quelle
isole di comunicazione libera e autonoma nel tentativo
di realizzare una tv di regime. Per vedere affondare la
nave è sufficiente far andar le cose così come vanno
senza intervenire: bilanci critici, risorse sempre più
insufficienti, investimenti sempre decrescenti, minore
qualità del prodotto, minori ascolti ecc.
Le falle devono essere invece
riparate subito se si vuole salvare un’azienda che nel
bene e nel male ha svolto e può continuare a svolgere
un ruolo positivo e che, non dimentichiamolo mai, dà
lavoro a oltre undicimila persone in tutt’Italia con
un indotto di decine e decine di migliaia di lavoratori.
Pensate per un attimo alla crisi, ad esempio, che si
potrebbe aprire in alcuni settori come la fiction o il
cinema dove la Rai è forse oggi il più importante
produttore italiano investendo ogni anno in quel settore
oltre 300 milioni di euro. Ecco perché io insisto ormai
da tempo nel sostenere che una nuova legge di governance
è si necessaria e urgente ma sono convinto che essa
debba essere accompagnata da un’analisi che non può
limitarsi a porre soltanto il problema politico, cioè
come allentare il controllo di una maggioranza sull’azienda,
problema determinante soprattutto in un Paese
condizionato da un gigantesco conflitto di interessi, ma
la cui soluzione non sarebbe sufficiente per dare
certezze alla Rai.
In un’azienda “pesante”, che in
alcune sue componenti sembra non essersi accorta che lo
splendore imperiale del monopolio è ormai preistoria,
con processi decisionali lenti che spesso la paralizzano
in un mercato che ha bisogno invece di scelte
tempestive, dove il costo dell’invadenza della
politica non è più sostenibile e che, soprattutto, non
ha nelle sue mani la leva dei ricavi, la crisi
internazionale dei mercati finanziari incidendo sugli
investimenti pubblicitari ha determinato una situazione
di crisi da cui difficilmente potrà venir fuori solo
con le sue gambe. Perché i bilanci in rosso sono
intervenuti nel momento in cui l’azienda deve
affrontare importanti investimenti in tecnologia
(adeguamento degli impianti) e sul prodotto (aumento
dell’offerta) per l’avvento del digitale, che stanno
determinando un livello d’indebitamento finanziario
che la Rai non conosceva da vent’anni.
Tre grafici per la loro semplicità
spiegano bene quel che intendo dire. Il primo descrive l’evoluzione
dell’offerta televisiva nazionale in Italia su tutte
le principali piattaforme televisive. Nel 1990 vi erano
soltanto sette canali: tre della Rai, tre di Mediaset e
Telemontecarlo. Dieci anni dopo con Stream e Tele+ sul
satellite i canali erano più di 60. Nel 2010 con la
piattaforma Sky e con il digitale terrestre nelle aree
all digital i canali nazionali sono diventati più di
250.
L’offerta televisiva della Rai a
risorse immutate (oltre cinque mila miliardi e 700
milioni di lire nel 2000, oltre tre miliardi di euro nel
2010) oggi è composta da 15 canali (tre generalisti, 11
specializzati ed uno in HD), nel frattempo la BBC, che
ha un totale di ricavi pari a 5 miliardi e 323 milioni
di euro, produce 2 canali generalisti, 6 specializzati e
2 in HD. Solo la televisione pubblica tedesca, ZDF e ARD,
ha un’offerta uguale a quella della Rai ma con 8
miliardi e 399 milioni di ricavi, prevalentemente da
canone giacché la pubblicità incide per 248 milioni di
euro.
Per capire, infine, quanto sia
urgente e necessaria una profonda riorganizzazione
aziendale e quanto incidano quelli che ho chiamato i “costi
della politica” basta dare un’occhiata a come sono
organizzate le testate giornalistiche nei principali
servizi pubblici: una sola direzione dei servizi
giornalisti alla BBC, 3 a France Television, 2 tra ZDF e
ARD in Germania, 2 alla TVE. Noi italiani, che siamo un
popolo generoso, non possiamo fare a meno di 11 testate.
Ma c’è qualcuno che può
seriamente pensare che a parità di risorse si possa
passare da un’offerta di tre canali ad un’offerta di
15 canali, quando servizi pubblici più solidi e più
ricchi, che, a differenza della Rai, sono stati
sostenuti dai loro governi negli investimenti tecnici
per il digitale, hanno fatto la scelta di non diminuire
gli investimenti sulla qualità del prodotto per
proteggere le reti generaliste e mantenere su adeguati
standard qualitativi le nuove offerte? La situazione
quanto può tenere senza che i conti implodano
rovinosamente?
Allora non è sufficiente decidere
una nuova governance, è necessario definire con
chiarezza ma anche con coraggio: il perimetro del
servizio pubblico, le sue finalità e, di conseguenza,
le risorse.
Suggerisco di guardare al Regno Unito
dove convivono due società di servizio pubblico: la
mitica BBC, finanziata solo con il canone, e Channel4
che si rivolge al mercato.
So che qualcuno storcerà il naso
anche in Rai ma ammettiamolo: il finanziamento misto
(canone e pubblicità) non regge più. Non solo perché
ha reso la Rai un mostro a due teste ormai con seri
problemi di identità. Non solo perché in tutti i
servizi pubblici europei la quota di ricavi pubblicitari
è assente o marginale, ma soprattutto perché le
risorse attuali non sono più sufficienti per garantire
quel livello di qualità della programmazione che deve
essere preteso in un servizio pubblico. Dire no al
finanziamento misto significa poi finalmente far
chiarezza, spazzare via l’alibi ad una deriva che
negli anni ha sacrificato qualità, creatività e
innovazione rendendo sempre più simile la televisione
pubblica a quella commerciale.
C’è chi è pronto a dire che da
solo il canone non sarebbe sufficiente. E’ vero solo
in parte. Il canone, intanto, facciamolo pagare a tutti
quelli che lo devono pagare. Non mi riferisco soltanto a
quel 28% di evasori del cosiddetto “canone ordinario”
che determinano mancati ricavi per oltre 550 milioni di
euro, ma anche e soprattutto agli evasori del “canone
speciale”, che deve essere pagato da imprese, studi
professionali, esercizi pubblici, associazioni, enti,
uffici ecc. Secondo l’Associazione contribuenti,
nonostante sia deducibile, non è versato dal 94% dei
soggetti che dovrebbero pagarlo determinando mancati
ricavi per 800-900 milioni di euro l’anno. Recuperare
questo immenso serbatoio di evasione non è difficile,
basta volerlo e seguire l’esempio di quei Paesi che
hanno individuato senza grandi sforzi di fantasia gli
strumenti tecnico-legislativi adeguati. Lo ha fatto la
Francia. Lo ha fatto la Germania. Ci sono riusciti
persino in Grecia e in alcune repubbliche dell’ex
Unione sovietica. Se si riuscisse a riportare il tasso
di evasione a livelli fisiologici le risorse sarebbero
sufficienti per adottare il modello inglese: finanziare
con risorse pubbliche tutte le attività di servizio
pubblico e far finanziare al mercato, come avviene con
Channel4, le iniziative editoriali aggiuntive che devono
comunque sempre corrispondere a quei principi che
giustificano il servizio pubblico. Traduco con una
simulazione sull’attuale attività della Rai quella
che a molti può apparire come una provocazione. Se
introducessimo anche in Italia il modello di servizio
pubblico del Regno Unito Rai1 ,Rai2, Rai3, Rainews, Rai
Italia, Rai ragazzi e la radio sarebbero interamente
finanziate dal canone mentre Rai4, Rai5, Raisport,
Raimovie, Rai premium e Rai storia dovranno trovare le
risorse sul mercato.
Qualcuno a questo punto potrebbe
chiedersi: ma perché l’Italia dovrebbe avere un
servizio pubblico forte? Sarei tentato di rispondere
così: per le stesse ragioni per cui un servizio
pubblico forte e autorevole non è messo in discussione
in Paesi come la Francia, Il Regno Unito, la Germania,
la Spagna e in tutti gli altri paesi europei. E non è
messo in discussione perché i valori di libertà,
creatività e innovazione sono più “protetti” in un’”area
pubblica” di servizio che non ha il profitto come fine
e perché creare un luogo dove una comunità continua a
riconoscersi come tale attraverso la condivisione di
valori comuni è sicuramente un interesse pubblico. Nel
paese dei conflitti di interesse c’è una ragione in
più: garantire il pluralismo delle idee (che non
significa però legittimare la lottizzazione), la
libertà dell’informazione e della cultura sono
finalità generali che giustificano da sole l’augurio
di lunga vita al servizio pubblico radiotelevisivo. Ma
è proprio per salvaguardare i principi di autonomia e
indipendenza che la Rai deve essere protetta con una
legge che la collochi in quella che potremmo chiamare
“un’area istituzionale” impermeabile alle
interferenze dei partiti politici e dei governi. Questo
però può avvenire soltanto, come ha scritto di recente
Aldo Grasso sul Corriere della Sera, se si realizzeranno
le condizioni che consentano al servizio pubblico
rifondato di essere tutelato esclusivamente dalle
competenze dei suoi dirigenti e da una governance scelta
per autorevolezza e capacità professionale. Vedo in
sala molti dirigenti Rai. Spero di non aver suscitato in
loro smarrimento e depressione. Credo, però, che dalle
crisi si possa uscire solo se vi è una grande
consapevolezza del presente. La fonte di nomina di un
consigliere di amministrazione è parlamentare, quindi
politica. Il nostro compito, però, una volta nominati,
non è quello di garantire una parte o di garantire un
equilibrio politico. Dobbiamo essere soltanto garanti
degli interessi dell’azienda, degli uomini e delle
donne che vi lavorano, dei cittadini che sono il nostro
pubblico ma anche, pagando il canone, i veri editori di
riferimento. Credo, quindi, che sia nostro dovere parlar
chiaro, senza timidezza o diplomatici equilibrismi
lessicali.
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