Università di Roma La Sapienza, dipartimento di
informatica, automatica e gestionale “Antonio Ruberti”.
Qui lavora il professor Antonio Sassano, docente di “ottimizzazione
combinatoria”. Difficile spiegare in poche parole che
cos’è l’ottimizzazione combinatoria. Basta dire che
il professor Sassano è considerato il massimo esperto
di reti, chiamato spesso a risolvere problemi molto
complessi. Come quello di non far interferire migliaia
di trasmettitori televisivi in un territorio piccolo e
accidentato come il nostro. Ha collaborato anche con il
Ministero delle comunicazioni e l’Autorità per le
garanzie nelle comunicazioni, per la realizzazione del
piano delle frequenze del digitale terrestre. Per questo
sono andato a chiedergli qualche spiegazione sui
problemi che si verificano dove la transizione dall’analogico
al digitale è già compiuta.
Professor Sassano, mancano pochi mesi
allo switch-off totale, letteralmente lo “spegnimento”
della televisione terrestre analogica. Che al suo posto
si accenda dovunque la televisione digitale è materia
di discussione. Ma indietro non si torna. Ora la domanda
è: si poteva fare meglio?
Sì, si poteva fare meglio. Intanto,
tutta la materia è stata condizionata da una
fondamentale decisione dell’Autorità, la delibera 181
del 2009, che ha stabilito in 25 il numero delle reti
nazionali. Siccome per legge le reti locali debbono
essere la metà delle reti nazionali, le reti locali
dovevano essere 12 e mezzo, in pratica 13 reti. Che
sommate alle nazionali significano 38 multiplex. Un
numero altissimo, che quando lo diciamo in Europa tutti
sgranano gli occhi. Anche i francesi partivano da una
situazione simile alla nostra, eppure hanno deciso di
realizzare 6 multiplex DVB-T al momento dello “switch-off”
analogico, con il proposito di realizzarne
successivamente altri 5. Due di questi sono stati
riservati all’alta definizione e la gara per l’assegnazione
dei canali si sta svolgendo in questi giorni. La Francia
aveva originariamente destinato 2 altri multiplex alla
tecnologia DVB-H, che però è morta sul nascere. Gli
inglesi hanno realizzato 6 multiplex. Gli italiani 38,
una sfida incredibile per la pianificazione. L’Autorità
ha pianificato 48 frequenze in UHF e 7 frequenze in VHF,
in tutto 56 “canali” per realizzare 38 multiplex su
tutto il territorio nazionale. È stato possibile solo
utilizzando la capacità del digitale di funzionare bene
in modalità SFN (Single Frequency Network): reti
che utilizzano, su tutti gli impianti, la stessa
frequenza. Il contrario di quello che si fa nelle reti
analogiche. Non è stato facile convincere i singoli
operatori che questa era l’idea giusta, perché gli
operatori volevano semplicemente tenersi le loro
frequenze, con una transizione “uno a uno”.
Quattro a uno, se si considera il
numero dei canali che poteva essere trasmesso su una
sola frequenza.
E sei a uno oggi. Il piano è stato
approvato nel 2010. Ed era prudente. Ma al momento
metterlo in pratica sono sorti i problemi. Per esempio,
in Lombardia il piano prevedeva venticinque multiplex
nazionali e quindici multiplex regionali per le reti
locali, quindi due in più dell’obbligo di legge. In
Emilia-Romagna tredici, altri tredici in Veneto. Quindi
il numero previsto dalla legge. Il problema è stato che
le emittenti locali hanno giudicato insufficienti questi
numeri in quanto non consentivano ad ogni emittente di
conservare la sua frequanza.
Perché le emittenti locali non si
sono consorziate in modo di realizzare una più efficace
suddivisione delle frequenze?
Perché ciascuno voleva conservare le
proprie e restare operatore di rete. Per le emittenti
italiane le frequenze di servizio sono il risultato di
una “guerra di posizione” durata anni. In un quadro
non regolato. Perdere la frequenza, diventare semplici
fornitori di contenuti significava, per molte emittenti
locali, perdere tutto.
Grazie alla legge del 2001 che ha
consentito il trading delle frequenze.
Sì. Spesso questa legge viene
presentata come una legge avanzata. In realtà noi siamo
stati i primi a consentire che qualcuno disponesse di
qualcosa che in alcuni casi era stato concesso, in altri
era stato originariamente “occupato”, semplicemente
installando un trasmettitore su una collina. Da quel
giorno l’operatore ha considerato come “sua”
quella frequenza in quella zona.
In sostanza, nel passaggio al
digitale si è persa l’occasione di rimediare al
disastro dell’occupazione selvaggia delle frequenze
nella seconda metà degli anni ’70.
No, qualcosa è stato fatto. Prima
era veramente il caos. Una frequenza veniva riutilizzata
in analogico su trasmettitori vicini, c’era una guerra
tra le emittenti. Adesso, bene o male, l’adozione
delle reti a singola frequenza ha semplificato il
quadro. Per esempio, una frequenza singola assegnata a
una rete nazionale, ormai è “salva”, è fuori dal
Far West, perché nessuno la può interferire, se non
dall’estero. Una frequenza che è utilizzata da un’emittente
locale, secondo il piano, cioè utilizzata in Veneto,
non utilizzata in Emilia-Romagna, non utilizzata in
Lombardia, riutilizzata di nuovo in Toscana, è una
frequenza ben utilizzata. Cioè, se il Ministero avesse
applicato il piano così com’era, pur scontando il
piano stesso il limite delle venticinque frequenze nazionali,
sarebbe stato comunque un lavoro di razionalizzazione.
Anche adesso, se si applicasse il piano così com’è,
la situazione sarebbe enormemente migliore di quella
precedente.
Ma allora c’è qualcosa che non
funziona nell’applicazione del piano.
Il fatto è che il Ministero ha
deciso di assegnare le frequenze a tutti quelli che le
chiedevano. Il piano prevedeva quindici frequenze in
Lombardia, tredici in Emilia-Romagna, tredici diverse in
Veneto. Invece il Ministero ne ha assegnate ventisette in Lombardia, ventisette in Emilia-Romagna,
ventisette in Veneto. Le stesse. Il che vuol dire il
caos. Ma è un caos concentrato sulle emittenti locali,
mentre prima era generale.
Però la Rai è una delle emittenti
che sembrano più penalizzate, mentre i canali Mediaset
si vedono bene quasi dovunque.
Perché la Rai ha chiesto di essere
trattata come le emittenti locali per il multiplex di
servizio pubblico. E ha commesso un errore, perché
così si trova all’interno del caos.
C’è qualcosa che mi sfugge. A me
risulta che la maggior parte dei MUX A della Rai, cioè
quelli di Rai 1, 2, 3, RaiNews eccetera, sono nella
banda VHF, quella del vecchio primo canale, e non in
UHF, dove sono le emittenti locali.
Doveva essere sul VHF. Dove era Rai
1, poi, proprio per “regionalizzare” le trasmissioni
di Rai3, in molte aree il multiplex di servizio pubblico
viene trasmesso in UHF.
In ogni caso, per quanto ne so, il
VHF presenta una propagazione del segnale meno
favorevole dell’UHF.
No, la propagazione del VHF è più
favorevole dell’UHF, ma di conseguenza più
interferente. Chi dice che è più difficile realizzare
una rete in VHF ha ragione, se è una rete in singola
frequenza. Perché se io ho un trasmettitore a Torino e
uno a Milano sulla stessa frequenza, le due emittenti
tendono naturalmente a interferire nella zona
intermedia. In VHF la zona di interferenza è più
grande, proprio perché l’area di propagazione è più
vasta. Quindi un’emittente arriva a disturbare l’area
di servizio vicina con un segnale più forte.
Questo spiegherebbe perché in alcune
zone a Nord di Roma i canali Rai non si vedono: si
ricevono contemporaneamente le emissioni di Monte Mario
e Monte Cavo, che da quella distanza appaiono separate
da un angolo piuttosto stretto. Evidentemente sono al di
fuori della “finestra” all’interno della quale le
stazioni in singola frequenza si rinforzano, invece che
interferirsi a vicenda.
È possibile. Nell’area di Roma le
due stazioni si rinforzano e si ricevono molto bene.
Non dovunque, per quanto mi risulta.
C’è un’area, all’interno del Grande raccordo
anulare, dove Rai 1 in analogico si vedeva male e ora
tutti i canali del servizio pubblico non si vedono più.
Ci sono delle zone d’ombra. Ma in
questi casi la Rai può installare un “gap filler”,
cioè un piccolo trasmettitore che ripete in un’area
limitata il segnale in singola frequenza.
Anche nella zona di Viterbo ci sono
problemi seri. Con l’analogico alcune aree a Sud del
capoluogo vedevano il segnale di Roma, che è scomparso
con lo switch-off. Ora è stata digitalizzata anche
Viterbo, ma la situazione non è migliorata.
Lì la situazione è più complessa.
Questa è un’altra questione importante. Il piano
AGCOM aveva aggregato la provincia di Viterbo con l’Umbria
e la Toscana. Questo perché, ad esempio, molte utenze
della zona di Viterbo erano servite dal grande
trasmettitore di Monte Peglia, in Umbria, ma ora che il
Ministero ha deciso di assegnare le frequenze su base
regionale non si può più mettere Viterbo insieme alla
Toscana o all’Umbria.
In sostanza la pianificazione “politica”
non rispetta le esigenze della pianificazione “tecnica”.
Ma con la completa digitalizzazione, sparito del tutto
il segnale analogico, sarà possibile migliorare la
situazione?
Non per lo spegnimento dell’analogico.
L’interferenza dell’analogico sul digitale è più
favorevole di quella analogico su analogico o digitale
su digitale.
Quindi o le cose restano così, o
peggiorano, se si considera che le emittenti televisive
dovranno abbandonare le frequenze da 61 a 69.
Questo è il problema aperto. Il
piano aveva lasciato alcune frequenze non assegnate, poi
il Ministero ne ha assegnate lo stesso alcune. Il che
significa che adesso dovranno essere liberate e lo Stato
dovrà pagare per liberarle. La soluzione può passare
solo per i consorzi di emittenti. Lo vedremo presto con
le procedure di assegnazione per la Sicilia, dove i
multiplex non basteranno per tutte le emittenti locali.
E dove il servizio pubblico della Rai è fortemente
interferito.
Ma perché le emittenti di Mediaset
non sono mai interferite, o comunque sono meno
interferite di quelle della Rai?
Perché ha Mediaset ha le sue
frequenze, che sono le stesse in tutta Italia. Sono
isolate, segregate rispetto all’inferno dei ventisette
multiplex regionali. Diciotto da ora, sottraendo le
frequenze da 61 a 69.
Dunque dobbiamo aspettarci non un
miglioramento, ma un peggioramento della situazione?
È chiaro che qualcosa si dovrà
fare. La separazione tra fornitori di contenuti e
operatori di rete e la formazione di consorzi, sulle
quale insisto da sempre, forse sono l’unica soluzione.
Potrebbe consentire a tutte le emittenti locali e alla
Rai di trasmettere con maggior qualità ad un numero
maggiore di utenti.
(Intervista registrata il 19 gennaio 2012)
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