Lo slogan che accompagna il logo Tivù Sat dice "Libertà di visione". Ma
ufficialmente la piattaforma - gratuita - viene
presentata come tappabuchi, la soluzione per far
vedere i canali del digitale terrestre anche a chi risiede
nelle zone d'ombra del segnale. Uno strano understatement.
Di fatto, se saranno mantenute le promesse, Tivù Sat
offrirà anche alle piccole emittenti la visibilità su
tutto il territorio nazionale, a un costo molto basso:
ventimila euro l'anno. Spiccioli, di fronte ai costi di
gestione di una rete di trasmettitori terrestri.
Tuttavia il lancio di Tivù Sat è accompagnato da molte
critiche: nuovi costi per gli utenti, altri vantaggi per
Mediaset, violazione delle normative antitrust e via
protestando. Cerchiamo di capire gli aspetti positivi e
quelli problematici della nuova piattaforma.
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I soci
di Tivù sono Rai e Mediaset,
con il 48,25% ciascuno, con una
piccola partecipazione di Telecom Italia Media (La7) al
3,5%.
Sullo sfondo, non dichiarati, ci sono l'attacco al
monopolio di Sky nella TV via satellite e la
competizione tra
Berlusconi e Murdoch per il
mercato in crescita della TV a pagamento. E non solo,
visto l'evidente interesse dell'attuale monopolista del
satellite verso la Tv "generalista".
Che cos'è Tivù Sat? E' una "piattaforma",
cioè un insieme di servizi che facilitano il rapporto
tra le emittenti e gli utenti. In sostanza è un
aggregatore di contenuti, che permette ai fornitori di
raggiungere più facilmente un pubblico disorientato
tra migliaia di canali trasmessi, senza alcun criterio di
selezione, da una moltitudine
di satelliti. Per esempio, i programmi di
Rai e Mediaset trasmessi in chiaro via satellite sono ricevibili
da chiunque abbia un ricevitore e una parabola orientata
nella direzione opportuna. Ma sono confusi in un'offerta
sterminata. La piattaforma Sky li mette ai primi
posti, così gli utenti li trovano subito. Lo stesso
farà Tivù Sat, ma con una differenza: mentre la lista dei
canali di Sky è bloccata, ciascun utente di Tivù
Sat potrà decidere l'ordine dei propri
"preferiti".
Tra i servizi forniti dalla piattaforma c'è il "criptaggio"
delle trasmissioni per le quali le emittenti non
hanno i diritti per la trasmissione al di fuori del
territorio italiano. Questo è il motivo per il quale su
Sky spesso sono oscurati programmi normalmente
ricevibili dalle antenne terrestri: il satellite
trasmette oltre i confini nazionali. Ed è anche il
motivo per cui sarà necessario "attivare" la
smart card di Tivù, in modo che l'operatore possa abilitare alla
ricezione solo chi risiede sul territorio nazionale.
A questo punto sorge una domanda. Anzi, un "tormentone":
Rai e Mediaset "scenderanno" dalla piattaforma
Sky? Per inquadrare la questione è necessario distinguere
tre situazioni
diverse.
a) Rai. I programmi in chiaro del servizio pubblico sono
trasmessi anche via satellite e accessibili a chiunque.
Lo impongono il contratto del servizio e le
normative europee sulla "neutralità
tecnologica". Se Rai Uno, Rai Due e Rai Tre sono ai
primi posti di Sky, è perché a Sky conviene. Almeno
formalmente è una scelta autonoma dell'operatore
satellitare.
b) Mediaset. Lo stesso discorso vale per i canali in chiaro di RTI.
Che però, come editore privato, non è
obbligato a trasmettere su tutte le piattaforme. Quindi
usa il satellite solo perché gli conviene. I canali a
pagamento di Mediaset non sono su Sky.
c) RaiSat. I canali a pagamento Rai, ora visibili solo agli abbonati
di Sky, non fanno parte del servizio pubblico (e non
sono finanziati dal canone): sono prodotti da RaiSat,
società controllata dalla Rai. La loro presenza sulla
piattaforma Sky è frutto di un contratto tra i due
operatori, che nei prossimi giorni dovrà essere
rinnovato o disdetto. La scadenza è il 31 luglio. Forse
non per caso è la data scelta per la partenza di Tivù
Sat.
Chiarita in questo modo la situazione, gli
interrogativi restano. Sky cancellerà dalla piattaforma
l'offerta gratuita Rai-Mediaset? Da una parte
toglierebbe ai concorrenti una parte del pubblico. Ma
dall'altra faciliterebbe la più rapida diffusione della
piattaforma concorrente. Potrebbe anche spostare i sei
canali in una
posizione meno favorevole della sua lista bloccata,
mettendo ai primi posti i propri, perché le
società di Rupert Murdoch producono anche contenuti.
Per i canali RaiSat si deve considerare che la
società incassa un bel po' di soldi da Sky per la
presenza sulla piattaforma. Ma gli utenti mugugnano
all'idea che, per vedere programmi Rai, devono pagare
Sky. E non hanno tutti i torti. A un padre di famiglia
poco importa se i canali RaiSat sono prodotti da una società che non è
finanziata dal canone: di mamma Rai, per gli italiani,
ce n'è una sola.
Alla fine dei conti, RaiSat potrebbe continuare con i
canali a
pagamento su Sky,
o passarli sulla piattaforma Tivù, sempre a
pagamento. Ma Tivù nasce come piattaforma gratuita... In ogni case non va trascurata la circostanza che, se
scendono adesso da Sky, i canali RaiSat spariscono, non li
vede più
nessuno. Potrebbero andare a pagamento sul digitale
terrestre e da là su Tivù? Il problema è che la piattaforma satellitare
alternativa per adesso è solo
un annuncio. E i tempi della sua diffusione sono
imprevedibili.
A questo punto si pone la domanda cruciale: quali sono le
reali prospettive di diffusione della nuova piattaforma,
in un contesto che vede qualcosa come sei milioni di
decoder Sky già nelle famiglie italiane? Quanti sono
disposti ad acquistare un secondo decoder?
Alla base del problema c'è la politica
anticoncorrenziale di Murdoch. Il decoder di Sky non può ricevere i
canali di Tivù Sat e i canali di Sky si possono
ricevere solo con il decoder Sky. Se l'attuale
monopolista del satellite rispettasse le regole,
concederebbe a tutti i fabbricanti di decoder la licenza
per l'uso del sistema di decodifica NDS Videoguard, del
quale è proprietario. In questo modo ci sarebbero sul
mercato apparecchi in grado di ricevere qualsiasi
programma satellitare.
Il fatto è che il magnate australiano prima si è fatto beffe delle regole
nazionali e comunitarie, poi ha ottenuto l'abrogazione
delle norme sul decoder unico e oggi insiste nel violare
l'impegno preso nel 2003, di concedere "alle terze
parti interessate, a prezzi equi e non discriminatori,
le licenze per il suo sistema di accesso condizionato".
Questa è una delle condizioni poste dalla Commissione europea con la decisione
del 2 aprile 2003 per dare l'assenso alla fusione
Newscorp/Telepiù (paragrafo 225, lettera
i). Ma nessuno è riuscito a ottenere il
rispetto di questo impegno (una ricostruzione della
vicenda, con il vergognoso comportamento delle autorità
europee e nazionali, è nel capitolo 7 de L'anomalia. Si
vedano anche i numerosi articoli su Sky nell'indice di questa sezione).
Gli impegni presi nel 2003 dalla società
di Murdoch comprendono anche quello di cercare "di
stipulare accordi di simulcrypt in Italia non appena
ciò risulti ragionevolmente possibile e, in ogni caso,
entro 9 mesi dalla richiesta scritta di una terza parte
interessata" (paragrafo 225,lettera j).
In parole povere, questo potrebbe significare che Newscorp dovrebbe concedere a Tivù la possibilità di
criptare le sue trasmissioni anche con la codifica NDS
Videoguard, in modo che possano essere ricevute anche
con i decoder Sky. E che potrebbe cifrare le sue
trasmissioni anche con la codifica Nagravision, adottata
da Tivù.
Ma se Tivù Sat ottenesse il rispetto del punto i), i suoi decoder potrebbero ricevere i canali
criptati da Sky. In ultima analisi, un accordo reciproco
di "symulcript" potrebbe giovare alle due
piattaforme e al mercato.
Alla conferenza stampa di presentazione di Tivù Sat,
lo scorso 22 luglio, ho chiesto se c'era l'intenzione di
adire di nuovo le autorità competenti per costringere
Sky al rispetto delle regole. Giancarlo Leone,
vicedirettore generale della Rai, ha risposto "il
problema non ci riguarda". Formalmente è vero,
perché i soggetti legittimati ad agire sono i
fabbricanti di ricevitori. Ma è chiaro che il problema
coinvolge in misura molto pesante i fornitori di contenuti, perché se il pubblico non compera i decoder, i
contenuti non li vede nessuno.
Il problema è serio. Bisogna convincere gli italiani
che hanno il decoder Sky (dovrebbero essere intorno ai
sei milioni) ad acquistare un secondo decoder
satellitare. E quelli che ancora non lo hanno, a
comperare quello di Tivù invece o prima di quello di
Sky. E coloro che stanno subendo il passaggio al
digitale terrestre devono essere indotti a comperare un
"combo", cioè un apparecchio in grado di
ricevere il digitale dalla terra e dal cielo. Questi
decoder tuttofare in versione Tivù non saranno nei
negozi, si dice, prima della fine dell'anno. Ma ciò
significa perdere gli utenti interessati dagli
switch-over programmati per l'autunno. Non saranno in
tanti a voler comperare un secondo o un terzo
apparecchio poco tempo dopo l'acquisto del set-top-box
per il digitale terrestre.
Il problema che si pone alle famiglie italiane è
grave. Tre set-top-box non costituiscono solo una spesa
e un groviglio di cavi. Due ricevitori satellitari
collegati alla stessa antenna in molti casi non
funzionano bene e occorre modificare l'impianto.
Se i nuovi utenti digitali acquisteranno solo i
ricevitori terrestri, la diffusione della piattaforma
satellitare si avrà all'inizio solo nelle zone d'ombra.
Con la conseguenza che altri operatori potrebbero
trovare meno attraente "salire" sulla
piattaforma stessa.
Di conseguenza i vantaggi per il sistema televisivo
italiano, la reale "libertà di visione" e
l'allargamento del mercato pubblicitario, potrebbero
arrivare tra molto tempo o non arrivare affatto.
E qui incontriamo il problema forse più spinoso di
tutta l'operazione Tivù Sat. La necessità di una
piattaforma satellitare "free" è evidente
già da molti anni, per l'Italia almeno da quando è
nata Sky. Nel Regno Unito e in Francia sono già attive
piattaforme satellitari gratuite; in Spagna si stanno
attrezzando.
Da noi si pone con forza il problema del duopolio, che
sembra (ahinoi!) destinato a durare a lungo. Ma che deve
fare i conti con la crescita di Sky, ormai decisa a fare
concorrenza alla TV "generalista",
sottraendole personaggi di spicco, utenti e risorse pubblicitarie. Poi c'è la
concorrenza, che potrebbe diventare guerra, tra Mediaset
e Sky nel campo della pay-tv. In mezzo la Rai, che in
una situazione del genere potrebbe perdere risorse più
degli altri.
Tivù Sat, se le premesse (e le promesse) saranno
rispettate, potrebbe essere lo strumento per rimuovere
l'annoso blocco del sistema televisivo italiano. Per
questo non sembrano utili gli attacchi che in questi
giorni vengono lanciati contro la nuova piattaforma.
E' stato scritto, per esempio, che Tivù Sat, anche
senza esercitare alcuna attività editoriale, influenzerà le
scelte degli utenti attraverso la guida elettronica dei
programmi (EPG). Il fatto è che la EPG viene predisposta dagli
stessi broadcaster e la piattaforma si limita a
renderla disponibile agli spettatori. Sky fa peggio: la sua
piattaforma è bloccata, non consente di vedere tutti i
canali in chiaro né di modificare l'ordine in cui
appaiono nella EPG.
E' stata avanzata un'altra obiezione: la nascita di Tivù Sat
costituirebbe un'operazione di concentrazione, vietata
dalla normativa antitrust europea e nazionale. La
questione deve essere considerata con attenzione.
Va
premesso che le concentrazioni non sono di per sé
vietate. Sono dichiarate incompatibili con il mercato
"le operazioni di concentrazione che creano o
rafforzano una posizione dominante, da cui risulti che
una concorrenza effettiva sia ostacolata in modo
significativo nel mercato comune o in una parte
sostanziale di esso", come recita il regolamento
europeo 4064/89. Spesso le concentrazioni sono solo sottoposte a condizioni
limitative. E'il caso della fusione
Newscorp/Telepiù in Sky, che ha comportato, fra l'altro,
il divieto per Sky di trasmettere su frequenze terrestri fino al
2012. Quelli che sono vietati, e dovrebbero essere
sanzionati tempestivamente, sono gli abusi degli operatori in posizione
dominante.
Tuttavia, anche ammettendo che la jont venture
tra Mediaset, Rai e La7 costituisca un'operazione di
concentrazione, sembra evidente che essa non comporta un
ostacolo alla concorrenza. Anzi, rompe il
monopolio di Sky sulle trasmissioni via satellite. Quindi
apre il mercato,
anche perché offre l'accesso alla piattaforma a tutti i
soggetti interessati, che mantengono la propria
autonomia editoriale. E, secondo la formula europea,
"a condizioni eque, ragionevoli e non
discriminatorie". Quindi non ci dovrebbe
essere alcun problema di trust.
Resta però una questione "di sistema". La
ritrasmissione via satellite serve a coprire le zone che
non possono essere raggiunte dal digitale terrestre. Ma
non solo: il satellite serve tutte le zone, copre
virtualmente il 100 per cento del territorio. E allora a
che serve il digitale terrestre, enormemente più
complesso e costoso? Se avessero prevalso il buon senso
e le regole del mercato, oggi con un solo apparecchio si
vedrebbero tutte le televisioni del mondo.
Perché a livello europeo si è
scelto di puntare sul digitale terrestre, invece che
direttamente sul satellite, per la naturale evoluzione
del sistema televisivo?
La risposta non è facile. Ma se si considera che in
Europa (e in Italia in particolare) i sistemi televisivi
sono per tradizione sotto il controllo dei governi, il
passaggio al digitale terrestre appare come il mezzo per
mantenere questo controllo, attraverso i meccanismi
delle autorizzazioni e della assegnazione delle
frequenze. La televisione via satellite
è incontrollabile, la diffusione a vastissimo raggio
costa poco.
Se le cose stanno così, la decisione di costituire una
piattaforma satellitare "libera" da parte
delle nostre televisioni, tutte direttamente o
indirettamente controllate dal governo, appare
incomprensibile. A meno che l'obiettivo di bloccare la
crescita di Sky a danno di Mediaset non sia così
importante da far passare tutto il resto in secondo
piano.
Dobbiamo ricordare che la televisione continua a
essere il mezzo di informazione più influente nella
nostra società, mentre i nuovi media - la "post-televisione" - sono ancora ai nastri di partenza.
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