"Va affermandosi quindi una una definizione di testata giornalistica
vincolata alla funzione e non al veicolo di diffusione o alla tecnologia
implementata, fermo restando il problema di ancorare l'informazione off-line e
on-line a maggiori certezze, quanto a finalità, professionalità e
responsabilità".
Così si legge nella Relazione
annuale dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, illustrata dal
presidente Cheli lo scorso 13 luglio (clic qui per
i passaggi che ci interessano). A parte qualche riserva sull'uso della lingua
italiana, sono affermazioni a prima vista condivisibili, ma che in realtà
richiamano un groviglio di problemi.
Mettendo insieme l'informazione off line e quella on line per quanto concerne
"finalità, professionalità e responsabilità", l'Autorità fa
giustizia della polemica sulle velleità di "controllo" dei contenuti
informativi on line da parte dei giornalisti della carta stampata. Ma proprio i
requisiti di "finalità, professionalità e responsabilità", certo
richiamati non a caso da un fine giurista qual è Enzo Cheli, impongono una
riflessione sull'assetto giuridico dell'informazione in Italia e sulle proposte
oggi in discussione per adeguare un sistema disegnato più di cinquant'anni fa.
Come tutti sanno, la legge n. 47 dell'8 febbraio 1948 impone l'iscrizione di
ogni quotidiano o periodico in un registro tenuto dal tribunale del luogo in cui
la testata stessa è pubblicata. Condizione necessaria è la presenza di un
"direttore responsabile", che deve essere un giornalista iscritto
all'albo professionale. La mancata richiesta di iscrizione comporta una pena
fino a due anni di reclusione per "stampa clandestina" (con tanti
saluti all'articolo 21 della Costituzione).
Il regime sancito da questa legge si applica a tutto ciò che è "stampa o
stampato": secondo le definizioni dell'articolo 1 sono "tutte le
riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o
fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione". E'
difficile far rientrare in questa definizione mezzi diversi, tanto che il
legislatore ha dovuto estendere esplicitamente il regime della 47/48 alla radio
e alla televisione con la legge 14 aprile 1975, n. 103 (per maggiori dettagli
vedi L'informazione su Internet e le leggi sulla stampa).
Manca ancora un'estensione formale delle norme sulla stampa all'informazione
telematica, ma la maggior parte dei tribunali ha aperto i propri registri alle
pubblicazioni sull'internet con un'interpretazione basata sul buon senso e su
qualche acrobazia giuridica. La strada è stata aperta nel 1997 dal tribunale di
Roma proprio con l'ordinanza di iscrizione di
InterLex, ma non tutti i problemi sono stati risolti, in particolare per
quanto riguarda la responsabilità penale del direttore.
E' evidente che il regime della legge 47/48, anche esteso alla stampa on
line, non è adeguato alla società dell'informazione e al concetto molto esteso
di libertà di espressione che è stato determinato dalla diffusione
dell'internet. Anche l'ordinamento della professione giornalistica, già
discutibile in passato, non regge di fronte all'avanzata dei nuovi media.
La questione è all'ordine del giorno da alcuni anni e in Parlamento giacciono
diversi disegni di legge, nessuno dei quali sembra cogliere la sostanza del
problema, che è appunto quella della professionalità e della responsabilità
di chi fa informazione, partendo dalla "finalità" della
pubblicazione. In altri termini, è necessario distinguere chi pubblica
qualcosa, come attività professionale, con la "finalità di
informare", da chi manifesta il proprio pensiero o riferisce fatti in via
occasionale o comunque non professionale.
Evidentemente in capo al primo, il professionista, si pongono doveri di
correttezza e responsabilità che non possono essere attribuiti al secondo. Da
qui la ratio della legge 47/48, che attribuisce al magistrato la verifica di
alcuni requisiti, proprio in vista dell'applicazione della legge penale per
reati che possono essere compiuti attraverso la stampa. Nello stesso tempo
l'ordinamento offre alla stampa una particolare protezione, a garanzia del
diritto-dovere di informazione e della libertà di espressione.
Date queste premesse, il buon senso suggerisce una soluzione molto semplice:
la registrazione dovrebbe essere un atto puramente volontario, da parte di chi
intende fare informazione professionale e assumersi le relative responsabilità,
ottenendo in cambio la protezione accordata dalla legge. Nulla dovrebbe essere
imposto al giornalista occasionale, ferme restando le sanzioni civili e penali
per eventuali atti illeciti.
In questo modo resterebbero le garanzie dell'informazione professionale - nel
bene e nel male il "quarto potere" di ogni democrazia - e nello stesso
tempo nulla minaccerebbe la libertà di espressione di ogni cittadino. Ma il
buon senso, come tutti sanno, non è compreso tra le fonti del diritto.
Infatti ora in Italia abbiamo non uno, ma due obblighi di registrazione:
oltre che nel registro del tribunale, le testate devono iscriversi in un altro
elenco, che prima era di competenza del Garante dell'editoria e ora deve essere
costituito dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Per la verità
non tutte le pubblicazioni sono soggette a quest'obbligo, o meglio non lo erano,
perché nel nuovo elenco dovrebbero essere iscritti tutti gli operatori della
comunicazione. Ma qui sorge il problema che il presidente dell'Autorità espone
con complicati giri di frasi: come distinguere tra le diverse categorie di
operatori e quale valore dare all'iscrizione, visto che tutto il settore è in
attesa di una nuova legge che ne definisca l'assetto generale?
La questione potrebbe complicarsi ancora di più se passasse una proposta
contenuta nel disegno di legge del Governo (AC
6946), in discussione alla Camera insieme ad altri alquanto
eterogenei, dove si prevede che l'iscrizione nel registro dell'Autorità possa
essere sostituiva di quella presso il tribunale. Un pasticcio tremendo, perché
il registro di competenza dell'autorità giudiziaria ha una funzione di garanzia
agli effetti penali che difficilmente potrebbe essere attribuita a un elenco
tenuto da un'autorità amministrativa.
Tutto dipende, poi, dalla definizione e dalle distinzioni che si devono
introdurre per distinguere prodotti editoriali diversi, come un giornale (a
prescindere da mezzo con il quale è diffuso) e un CD-ROM o un libro, perché
tutti dovrebbero finire nel registro dell'Autorità (vedi Editoria
elettronica, un pasticcio legislativo).
In tutto questo resta aperto il problema della qualità, perché tutti
constatiamo ogni giorno quanto l'informazione professionale sia superficiale,
frettolosa, imprecisa. E le magagne di giornali e televisioni spesso vengono
scoperte proprio grazie alla libera informazione dell'internet.
La situazione è ingarbugliata e non si vedono tentativi seri di risolverla,
anche perché nessuno sembra avere la chiarezza di idee o l'onestà
intellettuale di dire senza mezzi termini che bisogna buttar via sia la legge
47/48, sia la 69/63 sull'ordinamento della professione giornalistica. Servono
norme nuove, che facciano piazza pulita delle vecchie regole corporativistiche
e siano adeguate al contesto della società dell'informazione.
E' necessario liberarsi dai legami con un mondo che non esiste più, bisogna
ragionare in termini di "rete" e non di tipografie, antenne ed
edicole. Ne parleremo meglio sul prossimo numero.
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