In questo
strano mese di agosto il tema "Covid-19" ha
relegato in secondo piano molte vicende importanti per chi
si occupa di diritto e informazione. Una, in particolare,
non va trascurata, perché riguarda la libertà di
espressione: oggi non sono i giudici a decidere che cosa
è (eventualmente) da censurare, ma "la Rete", o
meglio il furore social nella sua più recente
espressione della cancel culture.
Protagonista della storia è la Magnum Photos, la più
qualificata agenzia fotografica
del mondo.
La brutta storia si svolge in due tempi.
Primo tempo. In un un articolo su Fstoppers (una online
community di fotografi), il 6 agosto scorso un tale Andy Day
denuncia che
la Magnum Photos rende disponibili immagini di presunti
abusi sessuali su minori, in un reportage realizzato nel
1989 da David Alan Harvey. Sostiene Day che si tratta di
pornografia minorile, un reato gravissimo per leggi
americane (come in buona parte del mondo – la storia è
ben riassunta e commentata da Andrea Monti su Wired). I social
fanno eco...
Non è questa la sede per riaprire la discussione su
che cosa sia o non sia pornografia. La Magnum pubblica da
sempre reportage di
informazione e denuncia e rispetta un serio codice etico. Ma siamo ai tempi della cancel
culture, l'ultima follia che scatena su i social
campagne deliranti, portando ad atti inconsulti: una statua di Cristoforo Colombo
abbattuta e buttata in
mare è solo un esempio tra i tanti.
Il reporter, con le parole o con le immagini, documenta
la realtà per metterla a disposizione di chi vuole
conoscerla. Se poi il suo lavoro consiste nel riportare
situazioni scomode o di forte impatto emotivo, al limite
agghiaccianti o addirittura oscene, ha solo il dovere di
registrarle con onestà, non di esagerarle o di
addolcirle. Non si può condannare un fotografo perché
registra immagini che nessuno vorrebbe vedere. Se non lo
facesse tradirebbe l'essenza della sua professione.
Della denuncia di Andy Day la Magnum Photos potrebbe
infischiarsene. O potrebbe rispondere per le rime. Invece
si arrende alla cancel culture, nasconde le
immagini di Harvey e annuncia una revisione dell'intero
archivio con una dichiarazione firmata dalla presidente
Olivia Arthur e dalla CEO Caitlin Hughes. Aderisce, in
sostanza, a quel politically correct che è la
perniciosa ipocrisia del nostro tempo. E questo non fa
bene al giornalismo, perché produce iniziative di
autocensura che rendono sterile ogni codice etico.
Negli ordinamenti democratici solo un giudice può
ordinare, con una sentenza motivata, una limitazione della
libertà di espressione. Negli USA il Primo Emendamento è
sempre stato considerato un pilastro imprescindibile. Dice
che "Il Congresso non promulgherà leggi [...] che
limitino la libertà di parola, o di stampa" La
diffusione dell'internet e la difficoltà di controllarne
in contenuti ha
portato a diverse e non sempre condivisibili eccezioni a questo
principio.
Ma ora siamo allo scatafascio più totale, se un gruppo di
forsennati può dire alla Magnum Photos che cosa può o
non può pubblicare. Lascia l'amaro in bocca il
fatto che l'agenzia ha "ubbidito" senza discutere.
Secondo tempo. Il 20 agosto una nuova tegola si
abbatte sulla Magnum e su Dave Alan Harvey: una
"denuncia confidenziale" di molestie sessuali in
un collegio femminile (vedi l'articolo su Petapixel).
Il direttivo dell'agenzia sospende il fotografo e avvia
un'indagine formale, con un secco comunicato.
Due denunce, la prima pubblica e la seconda "confidenziale", contro lo stesso reporter, a distanza di
due settimane: una coincidenza? Probabilmente no, la
denuncia confidenziale può essere stata incoraggiata da
quella pubblica.
Ma i conti non tornano. Da una parte è strano (anche in
tempi di cancel culture) che una struttura con la
fama e la potenza mediatica della Magnum si arrenda di
fronte a sgangherate accuse di pornografia.
Dall'altra è giusto che l'accusato venga sospeso in
attesa dei risultati di un'indagine formale su presunti
comportamenti inaccettabili, anche alla luce del codice
etico dell'agenzia. Ma in seguito a una denuncia
confidenziale sembrerebbe più consona un'indagine
altrettanto confidenziale, riservata, fino a quando non
sia accertata l'effettiva colpevolezza del reporter.
Si ha la strana sensazione che l'agenzia voglia mettere
le mani avanti, anticipare future denunce sbandierando la
correttezza dei propri comportamenti. Un indizio di questo
atteggiamento è nella prima dichiarazione, quando si
annuncia una revisione dell'intero archivio in seguito a
un'accusa che potrebbe essere pretestuosa o semplicemente
esagerata, nel clima della cancel culture.
Ma se tutto questo si risolve nell'autocensura, allora
la libertà di informare è veramente in pericolo. E non
per le leggi di uno Stato autoritario, o per decisione di
un giudice troppo zelante, ma perché lo impone il social.
Un paradosso dell'internet, che si credeva strumento di
libertà.
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