"Che tempo che fa"
lo studio delle
sorprese |
Digital Video N. 131
Marzo 2011
BROADCAST
di Manlio Cammarata Le fotografie |
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"Vi stupiremo con effetti speciali". Un modo di dire,
una frase ripetuta fino alla noia, che forse ha perso buona parte
del suo significato. Gli effetti speciali ci stupiscono sempre di
meno, perché nell’era del digital imaging sono all’ordine
del giorno. Però ci sono casi in cui la meraviglia ritorna. A me è
accaduto pochi mesi fa, quando ho visto su Rai 3 le quattro puntate
di "Vieni via con me" di Fabio Fazio e Roberto Saviano. A
prima vista non c’era niente di nuovo, perché in sostanza la
scenografia era la stessa che da anni costituisce la cornice di
"Che tempo che fa".
Ma in "Vieni via con me" gli autori hanno compiuto un
passo avanti. In una scenografia ben collaudata, costituita da una
perfetta combinazione tra "reale" e (apparentemente)
"virtuale", hanno spostato la linea di confine verso il
virtuale, riducendo la scena fisica a pochi oggetti, trasformati in
simboli o semplici icone. In questo modo i protagonisti
"bucavano il video", immersi nell’ambiente ricreato da
immagini che occupavano l’intero spazio visivo. Una parte non
trascurabile dello straordinario successo della trasmissione è
probabilmente dovuta all’impatto di un’ambientazione che
allargava lo spazio della scena ben oltre i confini di uno studio
televisivo. Ma senza l’artificio evidente dello "studio
virtuale" (avete presente Piero Angela in Super Quark?).
Così ho sentito più forte la curiosità di conoscere la
tecnologia che rende possibili queste meraviglie e di raccontarla ai
lettori di Digital Video. La mia richiesta di assistere alla
preparazione di una puntata di "Che tempo che fa", armato
di macchina fotografica e registratore, è stata accolta senza
problemi. Così sabato 29 gennaio ero a Milano, nello storico centro
di produzione Rai di corso Sempione. E ho visto cose che voi
umani… No, niente di simile. Quello che ho visto è molto più
semplice e "umano" di quanto potessi immaginare.
Strano, è tutto grigio
Lo studio TV3 di corso Sempione ospita produzioni diverse nel
corso della settimana. Per questo la scenografia deve essere
rimontata ogni volta in poche ore. Occorre un’organizzazione
molto efficiente, che impone non solo il perfetto coordinamento
di tutte le unità, ma anche la scelta di soluzioni tecniche
semplici e "scalabili", come dicono gli informatici.
Cioè adattabili di volta in volta alle dimensioni del risultato
previsto. Semplice a dirsi.
Entro nello studio quando il montaggio della scenografia è
appena finito. La prima sensazione è strana, perché di solito
le scene televisive sono coloratissime, mentre qui non ci sono
colori: dal pavimento al fondo tutto è grigio, in diverse
gradazioni. La spiegazione arriva dopo un attimo, quando
incominciano le prove dei sistemi: i colori sono interamente
generati dalle luci e dalle immagini restituite da tutte le
superfici. In sostanza l’intero studio è un insieme di
schermi sui quali appaiono le immagini inviate, con mezzi
diversi, dalla regia. Semplice, ma molto efficace.
Nella scenografia della trasmissione ci sono due
"famiglie" di sistemi di visualizzazione delle
immagini: i videoproiettori e gli schermi a LED. I
videoproiettori sono ben venti, ciascuno dedicato a un elemento
dello studio. Sono di diversi tipi, fra i quali spicca l’insieme
dei ROBEdigital 7000 DT.
Si tratta di apparecchi di notevole potenza (6.500 ANSI lumen)
completamente telecomandabili, nell’elettronica e nella
meccanica di puntamento. Con questo sistema è possibile coprire
con precisione la superficie interessata e combinare più fasci
in una sola immagine continua. Così non è necessario allineare
esattamente l’asse di proiezione, spostando fisicamente l’apparecchio
(che pesa quasi mezzo quintale!): si opera da console,
combinando il movimento dei motori passo-passo con la correzione
delle dimensioni e delle proporzioni dell’immagine, in
particolare le distorsioni (keystone) causate dalla
proiezione fuori asse. Il risultato è quello che vediamo quando
l’intera scena appare "costruita" da una sola
immagine e l’azione sembra svolgersi in un ambiente virtuale.
La struttura visiva del fondale è costituita da tre grandi
pareti: due sono curve e mobili e quando sono accostate
compongono una sola grande superficie senza apparente soluzione
di continuità. Aprendosi rivelano la terza, che si trova pochi
metri più indietro.
I muri di LED
Qui è in gioco la seconda, ma non meno importante tecnologia,
quella che ha più ha suscitato la mia curiosità. Infatti per
queste superfici è difficile che si tratti di una proiezione
frontale come le altre, anche perché ci sarebbero troppi problemi
di sincronizzazione tra lo spostamento dei pannelli e il movimento
dei videoproiettori. Non può essere una singola retroproiezione,
perché non c’è abbastanza spazio dietro gli schermi mobili né
un mosaico, data l’assoluta continuità dell’illuminazione. Né
può essere un grande schermo a LED come quelli che si vedono in
alcuni spettacoli all’aperto, perché la superficie dei due
pannelli laterali è curva.
Ed ecco il trucco: ogni schermo è semplicemente composto da un
mosaico di pannelli di LED, che si incastrano perfettamente l’uno
accanto all’altro, come una parete di mattonelle. Per i fondali e
la postazione sono oltre 300 elementi Barco ILite XP 6. Ogni
pannello è un quadrato di 44,8cm di lato, il passo dei LED a tre
colori è pari a 6mm. Invece l’area centrale del pavimento è
composta da pannelli con una risoluzione più bassa, con una
distanza di 10mm tra un LED e l’altro. Il segnale video è
trasportato da un semplice collegamento seriale con connettori DV-I
come quelli dei nostri personal computer. In pratica basta un solo
cavo per collegare molte decine di "mattonelle". Tutto il
resto è software.
Su ogni pannello compaiono di volta in volta visualizzazioni
diverse, che cambiano, si compongono e si scompongono in immagini
realistiche o pure composizioni grafiche. Gli elementi mobili aperti
diventano le quinte di una scena teatrale, che costituisce un
prolungamento dello studio. Con l’aggiunta delle altre immagini,
sul pavimento, sui lati della postazione del conduttore e dietro l’ospite,
si costruisce una specie di caleidoscopio tridimensionale di
straordinario impatto visivo.
Dal vivo non si percepisce bene l’effetto globale, per la
moltitudine di superfici diverse e isolate. Invece il telespettatore
vede una scena uniforme, in cui tutti gli elementi appaiono fusi
alla perfezione. E’ il frutto del lavoro comune dello scenografo e
del direttore della fotografia, che porta alla definizione di una
serie di inquadrature standard in grado di "ingannare" l’occhio
e generare le sensazioni uniche che sono il segno di una produzione
di alto livello. Nulla è casuale, anche gli imprevisti sono
previsti: un paradosso che si risolve con la prontezza di riflessi
della regia, quando nella "diretta" qualcosa non procede
secondo gli schemi predisposti.
E’ naturale pensare che le tecnologie digitali siano alla base
di questa macchina così complessa e delicata. Invece no, lo studio
TV3 di corso Sempione è ancora in tecnologia analogica (tranne, è
ovvio, le apparecchiature che nascono digitali, come i sistemi di
controllo dei videoproiettori e dei pannelli a LED). Le batterie di
monitor in regia sono composte in gran parte dai classici schermi
CRT. Non c’è l’atmosfera asettica e iper-tecnologica delle
realizzazioni più recenti, ma una solida e tradizionale "aria
di famiglia" televisiva, dove sulla tecnica prevalgono la
professionalità e l’esperienza di ogni operatore.
Qui la creatività e la professionalità non si lasciano guidare,
come accade spesso, dalle possibilità della tecnica. L’uomo usa
le macchine in funzione del risultato che ha in mente e non si
"lascia usare" dalla tecnologia per renderla protagonista
del risultato finale. Una bella lezione di televisione come puro
strumento per comunicare.
"Lavoriamo come serial killer" – Intervista con il
direttore di produzione Enzo D'Urbano
Una trasmissione come "Che tempo che fa" è una
macchina molto complicata. Per farla funzionare serve una
squadra composta da decine di specialisti, agli ordini del
direttore di produzione. Che si chiama Vincenzo D'Urbano (il…
vigile D'Urbano, in uno scherzoso montaggio del manifesto del
film "Il vigile" di Alberto Sordi, che qualcuno ha
affisso dietro la sua scrivania). Enzo per gli amici.
Mi ha fatto girare lo spazio produttivo in lungo e in largo
(a anche in alto e in basso: per produzioni come questa
servono grandi spazi, oltre allo studio di ripresa). Mi ha
fatto parlare con i responsabili dei diversi settori. Ora
manca poco all’inizio dello show, tutto è a posto. D’Urbano
finalmente si rilassa e ne approfitto per riassumere con lui
il senso di questa visita.
Enzo, ho visto qualcosa di diverso dalle aspettative.
Immaginavo un centro all’avanguardia nella produzione
digitale, con un alto tasso di automazione, e invece mi sono
trovato nel vecchio, caro studio televisivo di sempre, con i
mixer analogici nei banchi regia di legno e i monitor a tubo
catodico. Solo alcuni sistemi di recente acquisizione sono
digitali, ma inseriti nella catena produttiva tradizionale.
Insomma, l’hi-tech non è ancora qui.
Per me il low-tech è fondamentale. Il mio problema è
intervenire quando va male qualcosa. Non c'è segnale? Vuol
dire che: a) manca potenza, o b) il cavo è interrotto. Non
posso diventare matto perché il tutto viene gestito da un
computer, che magari ha preso un virus, oppure dobbiamo
intervenire su una matrice senza capire come funziona. Noi
dobbiamo andare in diretta con qualcosa come 68 puntate, se
ricordo bene. Per mettere in piedi il tutto ho quattro ore
scarse, perché devo smontare tutta la scena del giorno prima
e rimontare tutta quella di oggi e domani. Ci riesco perché
il sistema è il più semplice possibile.
Ma il digitale non significa per forza complicazione, se i
sistemi sono progettati e gestiti con criteri corretti.
"Semplice" non vuol dire solo "connnettore
rosso-connettore rosso, clac, connettore blu-connettore blu,
clac. Ma è anche la possibilità di intervento nel caso di
guasto. Per me è fondamentale, perché devo comunque
assicurare che il sabato mattina tutto sia pronto per la
trasmissione. Le cose più belle, fantastiche, purtroppo a
volte non si possono fare, perché sono troppo delicate. Per
esempio, adesso tutti parlano di TV a tre dimensioni. Abbiamo
visto cose incredibili, bellissime. Ma oggi, nella maggior
parte dei casi, sono fatte con una telecamera, un monitor, una
ripresa. Ma pensare a una produzione in 3-D con otto
telecamere... Ho visto le trasmissioni in 3-D delle partite di
rugby in Sud Africa: ma in quello stadio, le telecamere non le
spostano mai, l'impianto è lì, fermo.
Però nei mesi scorsi La7 ha trasmesso alcune partire del
campionato di rugby in 3-D, spostando ogni volta gli impianti
da uno stadio all'altro.
Sì, ma non si può fare nel tempo che ho a disposizione
per montare tutto. Io devo essere pronto nel giro di poche
ore, e con il 3-D è impossibile.
Senza contare la necessità di avere personale con nuove
specializzazioni, per non parlare dei costi.
Noi abbiamo un'organizzazione di lavoro che, senza offesa
per nessuno, non è né giovane né moderna. Però l'operatore
fa l'operatore, l'elettricista fa l'elettricista, il tecnico
del suono fa il tecnico del suono. E' indispensabile per un
lavoro come il nostro, nel quale non si può improvvisare. In
altri settori è diverso. Trent’anni fa, quando sono entrato
qui, per fare un servizio per il telegiornale usciva una
troupe di otto persone: un giornalista, un operatore, un
assistente operatore, un fonico, un microfonista, due
elettricisti un autista…
E quando si rientrava c’era ancora da sviluppare la
pellicola. E quando sono arrivate le prime telecamere
portatili occorreva anche un tipo robusto che seguiva l’operatore
portando il valigione del registratore!
Appunto. Oggi, trent’anni dopo, esce una persona sola,
che spesso è operatore e giornalista nello stesso tempo. Il
risultato è lo stesso. Ma nello studio televisivo c'è ancora
bisogno di una precisa divisione di ruoli, perché dobbiamo
andare in onda sempre. Noi siamo come gli assassini seriali.
Perché alla fine il serial killer viene sempre catturato?
Perché fa sempre le stesse cose e quindi può essere
identificato dal suo modus operandi. Anche noi abbiamo
sempre lo stesso modus operandi, che ci consente di
uccidere, cioè di portare sempre a casa il prodotto. Però le
nuove tecnologie possono darci una mano per quanto riguarda la
semplificazione del lavoro.
Per esempio?
Per esempio la riduzione dei tempi di montaggio. Le nuove
apparecchiature mettono a portata di mano anche risultati
altrimenti impossibili. Guarda i proiettori ROBEdigital 7000:
li muovo, li giro, faccio quello che voglio, non ho la
distanza obbligata dell'ottica fissa. Abbiamo scelto questa
soluzione perché è duttile, perché da console possiamo
anche variare gli assi in tempo reale. Possiamo farlo anche
sugli altri, ma dobbiamo intervenire fisicamente sulla
macchina. Soprattutto possiamo tararli tutti uguali. Tanti
anni fa, quando sono andato a Disneyland, ho visto il cinema a
360 gradi. Un'installazione molto complessa, con una serie di
proiettori da allineare e tarare uno per uno. Ore e ore di
lavoro. Con questi una cosa del genere si può fare in poco
tempo senza nessun problema.
Dunque il nuovo dove è veramente utile e per il resto viva
il low-tech?
Viva il low-tech. Sempre!
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Da sinistra: Raffaello Imparato (fotografia), Duccio Forzano
(regia), Enzo D'Urbano (produzione), Beppe Chiara (aiuto scenografo) |