Avvertenza. State per leggere un articolo politicamente
scorretto, perché non mi schiero con la maggioranza che
difende Alessandro Sallusti. L'ex-direttore di Libero
ha commesso la violazione più grave che possa essere
addebitata a un giornalista: si è basato su fatti non
verificati per attaccare un magistrato e, quando è stata
accertata la falsità della notizia, non ha pubblicato una
rettifica.
C'è grande strepito sulle motivazioni della sentenza
con la quale la Corte di Cassazione ha confermato la
condanna per diffamazione del giornalista Alessandro
Sallusti. Quattordici mesi di carcere, come tutti sanno,
per un articolo
pubblicato nel 2007 e firmato Dreyfus (al
secolo Renato Farina, radiato dall'ordine dei giornalisti
per collaborazione con i servizi segreti e ora deputato
del PDL).
Le critiche alla sentenza si intrecciano con quelle
sul disegno di legge AS 3491 (Modifiche alla legge 8
febbraio 1948, n. 47, e al codice penale in materia di
diffamazione). Il DDL è stato affrontato dal Senato in
gran fretta, proprio in conseguenza della condanna
definitiva dell'ex-direttore di Libero, pronunciata
il 26 settembre scorso.
Il testo uscito dalla Commissione e passato ieri all'esame
dell'Aula non è ancora stato pubblicato. Circolano
stralci dei quali non posso verificare la correttezza.
Quindi, come al solito, mi astengo dal commentare notizie
di seconda mano. Ritorno alla "sentenza Sallusti".
Nelle ventisei pagine della decisione, il passaggio che
suscita i commenti più sdegnati è quello della
"spiccata capacità a delinquere". Citato in
continuazione da chi non ha letto il testo, perché non è
una valutazione dei giudici della Cassazione, ma solo un
richiamo alla sentenza di merito.
Sintesi dei commenti: un giornalista trattato come un
delinquente è un attentato alla libertà di stampa.
Sallusti nega di essere un delinquente, ma questo non
significa nulla: tutti i delinquenti, a parte i rei
confessi, si proclamano innocenti e, se possibile, anche
perseguitati.
Per capire come stanno le cose si devono confrontare
gli argomenti della decisione dei giudici con le norme di
legge. Prima di tutto va ricordato che può essere
definito "delinquente" chi abbia commesso un
delitto accertato con una sentenza definitiva. E questo è
il caso di Alessandro Sallusti. Ricordano i giudici "le
pregresse condanne per diffamazione (7, di cui 6 in
reazione all'ipotesi ex art. 75 c.p.)". Tecnicamente
è recidivo, e questo giustifica la detenzione. Anche per
"la gravità del fatto delineata dalla modalità di
commissione di fatti caratterizzati da particolare
negatività".
Il punto-chiave di tutta la vicenda è questo: la
notizia alla base dell'articolo presunto diffamatorio era
falsa. Le critiche all'operato del giudice Cocilovo,
contenute nel pezzo di "Dreyfus", avrebbero
potuto essere legittime se la notizia fosse stata vera. Ma
la sua falsità era stata corretta poche ore dopo la
pubblicazione. Sallusti non aveva tenuto conto delle
smentite, insistendo su notizie riconosciute come false.
Quindi il giornalista è venuto meno a due principi
deontologici fondamentali della professione: la verifica
delle notizie e la rettifica di quelle false.
Alessandro Sallusti non è nuovo a
"incidenti" di questo tipo. Se i colleghi che
oggi si strappano i capelli in sua difesa potessero
trattare la vicenda con maggiore distacco, lo
definirebbero un "diffamatore seriale". Ma ora a
tutti sembra di sentire il rumore metallico delle manette,
quando scrivono qualcosa che può dispiacere a qualcuno. Questo
è un problema serio: un giornalista non può
lavorare sotto la continua minaccia di finire in gattabuia
per le cose che scrive.
Lo afferma anche la Corte europea dei diritti (e la
Cassazione lo ricorda a chiare lettere): la detenzione per
il delitto di diffamazione è un'ipotesi eccezionale, ma
legittima nel caso di "condotte lesive dei diritti
fondamentali". Siamo di fronte a un caso eccezionale
di "condotta lesiva dei diritti fondamentali"?
Sembra difficile negarlo.
Ma facciamo finta che il caso non sia eccezionale e
quindi si debba applicare il principio generalmente
accettato che a un
giornalista non si possano comminare pene detentive
se commette il reato di diffamazione. Resta però l'evidente
violazione della deontologia professionale, in particolare
per la mancata rettifica. Non dovrebbe essere questo un
buon motivo per una sanzione esemplare da parte della
"giustizia interna" della professione? Non si
dovrebbe impedire a un "diffamatore seriale" di
continuare la sua attività?
Questo è il problema che deve essere risolto. Non è
con la difesa di casta che si difende la credibilità e
l'autorevolezza della professione.
(Vedi anche Diffamazione
e responsabilità dell'informazione)
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