Duopolio. Par condicio. Conflitto di interessi. Concorrenza tra pubblico e
privato. Televisione "di qualità" contro "televisione
deficiente". Imparzialità e pluralismo. E ancora...
Parole-chiave di una discussione che va avanti dagli anni '70,
quando incominciarono a nascere le televisioni private. Si inserirono nel varco
aperto da una sentenza della Corte costituzionale, che pose fine al monopolio
televisivo di stato e lasciò un vuoto normativo che la politica non seppe o
non volle colmare nel modo giusto.Né la legge 103/75 "Nuove norme in materia
di diffusione radiofonica e televisiva" né la 223/90 "Mammì"
riuscirono a mettere ordine. Anzi, si limitarono a "fotografare" e
quindi congelare la situazione.
Poi altre sentenze della Corte
costituzionale (puntualmente aggirate) e altre leggi, da ultima la
112/2004 "Gasparri", hanno prodotto il sistema che conosciamo. Siamo
arrivati al punto di un consiglio di amministrazione della Rai, nominato per
maggiore "imparzialità" dai presidenti delle Camere, composto da soli
appartenenti alla maggioranza. Con la beffa di un presidente "di
garanzia", che non poteva garantire un bel nulla perché sarebbe stato sempre e
comunque in minoranza.
A nulla sono valsi gli ammonimenti dell'allora presidente della Repubblica:
il messaggio di Ciampi nel 2002 conteneva
tutti i principi ai quali avrebbe dovuto ispirarsi una seria riforma (vedi
"Legge di sistema" o bavaglio sistematico?),
ma è rimasto lettera morta.
Così nei mesi scorsi abbiamo visto il presidente del consiglio in carica
dilagare per settimane su tutte le reti televisive, approfittando del vuoto di
regole che precede il periodo di par condicio nella campagna elettorale.
Senza possibilità di replica da parte dell'opposizione.
Ora che il padrone delle televisioni private non può più influire
pesantemente sulla Rai è possibile pensare a una riforma seria. Una riforma che
sottragga il controllo della televisione pubblica alla maggioranza parlamentare,
controllo esercitato attraverso la commissione di indirizzo generale e vigilanza.
La quale, essendo appunto "parlamentare", non può che riflettere la maggioranza che sostiene
l'esecutivo. Con la conseguenza che questo si sente legittimato a "governare" la
televisione pubblica, anche se nessuna legge gli consente di interventi diretti
o indiretti come quelli che abbiamo visto, dal cosiddetto "editto
bulgaro" alle nomine dei vertici dell'ente.
Questo è il nodo centrale del progetto
di legge di iniziativa popolare messo in cantiere da un gruppo di personaggi
dello spettacolo (in prima fila Sabina Guzzanti), intellettuali, politici,
giornalisti. Si intitola "Per un'altra TV". Tutte le informazioni sono
sul sito
dedicato all'iniziativa, comprese quelle per la raccolta
delle firme (ne occorrono 50.000).
La proposta ha un valore importante. Disegna un modello forse possibile di
televisione pubblica e in qualche modo indipendente. Il punto chiave è l'abolizione della
commissione parlamentare di "vigilanza e indirizzo", sostituita da un
organismo rappresentativo della società italiana, il "Consiglio per le
comunicazioni audiovisive" (art. 2)
Il progetto presenta qualche punto discutibile. In generale mantiene il
linguaggio abbastanza criptico, fatto di perifrasi e rinvii, che caratterizza la
produzione normativa italiana di questi anni. Non soddisfa l'art. 4 sul
pluralismo informativo, anche perché non è ben definito il contesto della
comunicazione elettronica nel suo insieme e nel rapporto con il sistema
complessivo della comunicazione e dell'informazione.
Anche il concetto di "servizio pubblico" resta vago. Se ne indicano i
compiti, ma non si dice che cosa è servizio pubblico e che
cosa non lo è. Non si tocca quindi la situazione attuale, che vede in
concorrenza due sistemi che dovrebbero avere obiettivi diversi e quindi non
essere concorrenti.
Una precisa definizione del servizio pubblico consentirebbe di sottrarre la
Rai alla dittatura del famigerato Auditel, facendo cessare la concorrenza al
ribasso sulla qualità dei programmi e al rialzo sui compensi dei personaggi
più quotati.
Non sono dettagli, ma in ogni caso non tolgono valore alla proposta, che è
giusto sottoscrivere per inviare al Parlamento un segnale netto del desiderio
degli italiani di cambiare sistema.
E di sistemi possibili ce ne sono diversi, come mostrano quelli, descritti nel
sito della proposta di legge, di Gran
Bretagna, Germania e
Spagna.
La Rai come la BBC? Utopia, forse, ma è importante guardare il modello e
cercare di farlo nostro, fin dove è possibile. Gli spunti, nel progetto di
legge, non mancano. E non mancano dettagli significativi, come l'art. 5, che riprende la normativa sul decoder unico
platealmente violata da Sky Italia con il colpevole beneplacito delle autorità
competenti: E' un elemento essenziale, senza il quale non può esistere
alcun reale pluralismo informativo (vedi i numerosi articoli sull'argomento nell'indice
della sezione "Sistema informazione" di InterLex).
Ma la nostra classe politica, l'attuale maggioranza, saprà rinunciare a
questo formidabile strumento di potere? Riuscirà a farlo solo se rifletterà
sul fatto che un domani, a un cambio di maggioranza, un sistema non diverso da
quello attuale consentirà a quella che oggi è l'opposizione di riprendere il controllo
totale dell'informazione televisiva. Anche se una legge
equilibrata sul conflitto di interessi potrebbe evitare gli eccessi che abbiamo
sperimentato.
Insomma, mettiamo via la pistola per evitare che altri, prima o poi, possano di
nuovo trasformarla in un cannone.
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