Il messaggio sul pluralismo e
l'imparzialità dell'informazione che il presidente Ciampi ha inviato alle
Camere è stato accolto da un consenso quasi unanime. Consenso scontato, perché
il testo afferma principi consolidati e rifugge da questioni critiche che
potrebbero essere oggetto di polemiche.
A una prima lettura sembra che il Presidente della Repubblica abbia ben presente
il quadro dell'informazione che si sta delineando da alcuni anni, con la
digitalizzazione dell'intero sistema e la "convergenza" dei media in
un sistema globale di comunicazione.
Infatti nel messaggio si invoca l'emanazione di una "legge di
sistema": un'espressione entrata nel lessico politico corrente nel giro di
pochi giorni, con la relazione annuale del presidente dell'Autorità per le
garanzie nelle comunicazioni e l'affermazione del ministro competente
"siamo già al lavoro in questa direzione".
Ma che significa "legge di sistema"? Sembra che al centro del discorso
ci sia l'attuale universo televisivo con la prospettiva (ottimistica) del
passaggio al digitale terrestre nel giro di pochi anni e la conseguente
moltiplicazione dei canali disponibili. Quindi con la necessità di regole che
impediscano la formazione di posizioni dominanti nel nuovo quadro mediatico.
Scrive il Presidente che la vigilanza del Parlamento, in coordinamento con
l'Autorità di garanzia, potrebbe estendersi all'intero circuito mediatico,
pubblico e privato, allo scopo di rendere uniforme ed omogeneo il principio
della ''par condicio". E molti si dichiarano d'accordo con questa
affermazione di principio.
Ma non dovrebbe essere difficile capire che in questo modo si blocca qualsiasi
possibilità di realizzare l'imparzialità dell'informazione nel suo insieme,
perpetuando ed estendendo all'intero sistema la tecnica di imbavagliamento
dell'informazione non allineata, collaudata con successo ormai da molti anni.
In Italia la televisione pubblica è completamente nelle mani della
maggioranza parlamentare, attraverso la Commissione di vigilanza, che rispecchia
la composizione delle Camere, l'Autorità di garanzia, di nomina parlamentare,
con il presidente indicato dal Presidente del consiglio e dal Ministro per le
comunicazioni), e il consiglio di amministrazione nominato dai presidenti delle
Camere. Il governo stesso influisce direttamente sulla televisione pubblica
attraverso il Ministero delle comunicazioni.
Tutte queste autorità dovrebbero assicurare il "pluralismo
dell'informazione". Quale pluralismo?
E' facile capirlo rileggendo tante recenti affermazioni di esponenti della
maggioranza: "Noi faremo una televisione pluralista, mica faziosa come
quella che ha fatto il governo precedente". E su quest'ultimo punto hanno
in parte ragione. Ma, se dopo le prossime elezioni politiche quella che oggi è
opposizione diventasse maggioranza, direbbe con la stessa sicurezza: "Noi
faremo una televisione pluralista, mica faziosa come quella che ha fatto il
governo precedente". E avrebbe a sua volta ragione. Forse, per assicurare
un più compiuto pluralismo, manderebbe a casa qualche giornalista
"fazioso" o addirittura "criminale" ben visto dalla
maggioranza precedente...
Ma per realizzare il pluralismo è necessario aggiungere voci, non toglierne!
Quello che di fatto si realizza nel sistema attuale è un "pluralismo
maggioritario", una contraddizione in termini se intende il concetto di
pluralismo sostanzialmente coincidente con quello della par condicio,
come fa il Presidente della Repubblica nel suo messaggio.
L'imparzialità - questa è la parola chiave - si può realizzare solo se
tutte le parti interessate hanno uguali possibilità da far udire la propria
voce. Altrimenti la maggioranza ha più forza comunicativa dell'opposizione, per
semplice logica numerica, e quindi le pari condizioni non ci sono: la
televisione è sempre espressione del Governo. In questo quadro il conflitto di
interessi peggiora la situazione, ma non ne cambia la sostanza.
Dunque la proposta di estendere le competenza della Commissione parlamentare
anche all'emittenza privata e, nell'ottica della convergenza, anche agli altri
media potrebbe rivelarsi addirittura catastrofica per l'imparzialità
dell'informazione. Si imporrebbe il "pluralismo maggioritario"
all'intero sistema dell'informazione, relegando in una specie di riserva indiana
ogni voce minoritaria, come nella TV pubblica di oggi.
Pensiamo a che cosa potrebbe accadere nel momento di un'alternanza
parlamentare: la televisione privata, oggi in buona parte controllata dal
Presidente del consiglio e quindi nell'ambito della maggioranza, diventerebbe la
televisione dell'opposizione. Accetterebbe l'ex presidente, come qualsiasi altro
imprenditore privato, il controllo della maggioranza parlamentare sui contenuti
dei programmi realizzati nello svolgimento della sua libera attività economica?
E' impensabile.
La soluzione non può essere che in un consiglio di amministrazione formato
da personalità indipendenti, nominato al di fuori delle logiche parlamentari,
controllato da un comitato di garanti al di sopra di ogni sospetto. Difficile da
realizzare, addirittura impossibile, se si considera il fatto che nessuna parte
politica è intenzionata a rinunciare anche a una piccola parte del potere che
il controllo parlamentare assicura anche alla minoranza del momento. Un'utopia,
dunque, ma che deve comunque essere enunciata per amore della verità.
Ma non è tutto. Nel quadro futuro dell'informazione multimediale, regolata
da un'unica "legge di sistema", il discorso del controllo sulla
televisione da parte del potere di turno non può essere diviso da quello
sull'informazione on line. Lo sviluppo della multimedialità è già visibile:
pensiamo ai siti della Rai, quelli dei radio e telegiornali, o RaiNews24 o
Rai.net,dove il confine tra l'internet e televisione e già difficilmente
distinguibile. O ai siti dei giornali, in cui l'informazione cartacea si fonde
con quella telematica (se i siti sono ben fatti).
Ebbene, la legge 62/01ha sostanzialmente posto l'informazione on line sotto
il controllo dell'Ordine dei giornalisti, un ente pubblico che non ha mai
dimostrato particolare indipendenza dai governi. Come ho più volte dimostrato
su queste pagine, in punta di diritto, questa legge stabilisce che nessuno può
pubblicare un periodico on line se non c'è un direttore responsabile iscritto
all'Ordine (vedi, fra gli altri articoli sull'argomento, L'alternativa
è tra giornalista e delinquente). Tutto il potenziale di libertà di
espressione del pensiero che altrove è stato liberato dallo sviluppo
dell'internet, in Italia è limitato dalle disposizioni sulla stampa emanate nel
1948. Il giorno in cui qualche magistrato decidesse di procedere contro i siti
che non rispettano le disposizioni del terzo comma dell'art. 1, sarebbe una strage.
La previsione dell'art. 31 della legge
comunitaria 2001 "deve essere reso esplicito che l'obbligo di
registrazione della testata editoriale telematica si applica esclusivamente alle
attività per le quali i prestatori del servizio intendano avvalersi delle
provvidenze previste dalla legge 7 marzo 2001, n. 62, o che comunque ne facciano
specifica richiesta" non cambia la sostanza del discorso, perché non può
riferirsi che al registro degli operatori di comunicazione, non all'iscrizione
nei registri della stampa dei tribunali (vedi "Rendere
esplicito", questo è il problema).
Intanto si prospetta una riforma dell'Ordine dei giornalisti che renderebbe
ancora più rigida la selezione per ottenere il tesserino: per accedere
all'esame - che ora è una prova di idoneità e si vuole trasformare in esame di
stato - sarebbe necessaria una laurea specifica, come per fare il medico o
l'avvocato (si veda il progetto di legge C.224).
A sostegno di questa proposta si porta ora anche un discutibile parere del Consiglio di Stato, dove si afferma
che l'equiparazione della professione giornalistica alle altre professioni
regolamentate non è in contrasto con la normativa comunitaria. Si tratta per
l'appunto di un "parere" giuridicamente non vincolante e che non
esclude una soluzione diversa. Non di una "decisione", come afferma il
documento preparato dalla commissione
giuridica dell'Ordine dei giornalisti.
E l'Ordine , con il documento approvato il 4 luglio scorso, chiede a gran
voce la blindatura dell'accesso, seguendo le indicazioni del solito da Franco
Abruzzo (vedi Giornalisti nella Costituzione e accesso
soltanto via università e Il disegno di legge
"Abruzzo" presentato al Senato). Il presidente dell'Ordine
lombardo si spinge ancora più in là, chiedendo addirittura una modifica della
Costituzione in cui si affermi che "i giornalisti sono soggetti soltanto
alla deontologia professionale" (cioè al di sopra dei giudici, che
"sono soggetti soltanto alla legge". Così i giornalisti
diventerebbero a tutti gli effetti il "quarto potere" dello Stato,
trasformando in realtà una metafora di altri tempi e di altri luoghi(1).
Evidentemente a qualcuno sfuggono le fondamentali differenze tra le
professioni regolamentate e quella giornalistica. In primo luogo è ben diverso
il rapporto tra il cittadino e il "professionista": il cittadino ha un
rapporto diretto con il medico, l'avvocato o il commercialista, senza poterne
valutare direttamente le capacità. Gli ordini professionali, con la
certificazione della preparazione del professionista e la sorveglianza del
rispetto della deontologia, costituiscono l'unica difesa possibile. Invece il
rapporto tra il cittadino è il giornalista è mediato dall'editore e dalla
struttura commerciale: non si compera una notizia dal suo redattore, ma si
acquista in edicola un prodotto industriale. In teoria si potrebbe raggiungere
il risultato di proteggere il pubblico dalla cattiva informazione imponendo agli
editori il rispetto di un codice deontologico.
Ma c'è un altro aspetto fondamentale: mentre per la preparazione di un
medico o di un avvocato sono necessari anni di studio e di tirocinio, tutti sono
in qualche misura capaci di raccontare fatti esprimere le proprie idee. E la
Costituzione sancisce per tutti i cittadini il diritto di "manifestare
liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di
diffusione", mentre si guarda bene dal dichiarare che tutti hanno il
diritto di curare le malattie degli altri o di difenderli davanti al giudice!
Questa è la differenza essenziale tra la professione giornalistica, per la
quale solo in Italia esiste un ordine professionale, e le altre, che sono
ovunque regolamentate con strutture di questo tipo.
Un albo professionale dei giornalisti è indispensabile, per distinguere chi
ha scelto l'informazione come "mestiere", e deve quindi rispettare
certe regole e avere certe garanzie di indipendenza. Ma, tra le norme oggi in
vigore e quelle che si vorrebbe fossero scritte, si cerca di costituire una
"casta" inaccessibile, sotto la tutela dello Stato.
Così torniamo all'inizio: la libertà di espressione sancita dall'art. 21 della
nostra Carta costituzionale è di fatto controllata dalla maggioranza
parlamentare nel campo radiotelevisivo o da un ente di stato per l'internet e la
carta stampata. In questo modo si realizza il "pluralismo
maggioritario" e le pari condizioni sono irrealizzabili.
Nessuna voce sembra levarsi per sostenere idee così semplici. Forse la
"vigilanza di sistema" funziona già, non occorre fare una legge per
istituirla.
(1) "Voi siete il quarto potere"
esclamò lo statista inglese Edmund Burke (1728-1797) rivolto ai giornalisti che
lavoravano nella tribuna riservata alla stampa nel Parlamento. Per comprendere
il valore della frase di Burke si deve ricordare che solo nel 1792 si erano
definitivamente concluse le lotte per la libertà di stampa, iniziate in
Inghilterra nei primi decenni del '600, e che nello stesso periodo si affermava
la dottrina di Montesquieu della tripartizione dei poteri (legislativo,
esecutivo e giudiziario). Dottrina che ebbe sbocco nella Rivoluzione francese,
quando con la "Carta dei diritti dell'uomo e del cittadino" del 1789
fu affermato anche che "La libera comunicazione dei pensieri e delle
opinioni è uno dei diritti più preziosi dell'uomo: ogni cittadino può dunque
parlare, scrivere e stampare liberamente, salvo rispondere degli abusi di questa
libertà, nei casi determinati dalla legge".
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