Molti consensi, qualche distinguo e qualche critica al
provvedimento del Garante per la protezione dei dati
personali sulla pubblicazione di notizie che
riguardano la vita sessuale di persone coinvolte in
indagini giudiziarie.
"Sciacallaggio" è in molti casi la parola
giusta per descrivere questa forma di giornalismo e
tutti sono d'accordo che è necessario rispettare
certi limiti.
Fa bene il Garante a segnalare, stigmatizzare,
adottare i provvedimenti che gli competono in forza
della legge e del Codice di deontologia, concordato
con i giornalisti. Ma questa volta l'organismo di
tutela della riservatezza è andato oltre le proprie
competenze, come è già accaduto alcuni mesi fa per
il servizio delle Iene sull'uso di stupefacenti da
parte di alcuni parlamentari (vedi Contratto, censure, la
libertà negata e, su InterLex, Libertà
di informazione e diritto di sapere e Il
caso “Le Iene” e la funzione del Garante di
Andrea Monti).Il caso di cui ci occupiamo oggi è diverso da
quello delle Iene: lì si trattava di un'inchiesta di
stampo giornalistico, oggi c'è la pubblicazione di
atti che dovrebbero essere coperti dal segreto
istruttorio. Ma la sostanza è la stessa: un'autorità
amministrativa che vieta una pubblicazione. Esercita
cioè una forma di censura non ammessa dalla nostra
Costituzione, che all'articolo 21 afferma con assoluta
chiarezza "La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o
censure".
Il Garante "VIETA con effetto immediato a tutti i titolari del
trattamento in ambito giornalistico... di
diffondere dati personali...". Secondo quanto si
legge nel provvedimento (che riguarda solo l'indagine
di Potenza e non ha quindi valore generale), il
divieto sarebbe legittimato dagli articoli 139, comma
5, 143, comma 1, lett. c) e 154, comma 1, lett. d)
decreto legislativo 196/03 (Codice in materia di
protezione dei dati personali). Infatti, ai sensi del'ultima
norma citata, il Garante può "vietare anche
d'ufficio, in tutto o in parte, il trattamento
illecito o non corretto dei dati o disporne il blocco
ai sensi dell'articolo 143, e di adottare gli altri
provvedimenti previsti dalla disciplina applicabile al
trattamento dei dati personali".
Lasciamo perdere le disquisizioni sulla differenza
tra "illecito" e "non corretto",
per ricordare che il "trattamento" è
"qualunque operazione o complesso di operazioni,
effettuati anche senza l'ausilio di strumenti
elettronici, concernenti la raccolta, la
registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la
consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la
selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo,
l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la
diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati,
anche se non registrati in una banca di
dati"(art. 4, c. 1, a) del codice).
Dunque il Garante può intervenire in qualsiasi
operazione di trattamento di dati in ambito
giornalistico, per esempio sui termini o sulle
modalità della conservazione di particolari
informazioni nell'archivio. Ma per la
"diffusione" (cioè la pubblicazione)
all'azione del Garante si oppone l'articolo 21 della
Costituzione, nel punto in cui afferma, con una norma
di chiarezza assoluta, che "la stampa non può
essere soggetta ad autorizzazioni o censure". E
nessuno può dubitare che il divieto preventivo di
pubblicazione rappresenti una forma di censura a tutti
gli effetti.
Le polemiche che in questi giorni hanno avuto come
bersaglio il provvedimento del Garante sembrano
ignorare questo elementare principio. L'art. 154 del
cosiddetto "Codice della privacy" non può
scavalcare l'articolo 21 della Costituzione, sulla
base del principio della "gerarchia delle
norme". Dunque il provvedimento è illegittimo.
Censura: per il Devoto-Oli "Controllo
preventivo delle opere da diffondere o da
rappresentare il pubblico"
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