La vicenda del disegno di legge sull’editoria
ha dimostrato, qualora ce ne fosse ancora bisogno, la
capacità di aggregazione e di pressione che il
meccanismo dell’internet consente. Certo, non sempre
la piazza ha ragione, ma nel caso di specie è dalla
parte del giusto, anche se in questo caso non coglie
appieno i difetti della proposta normativa (vedi Editoria:
fermare la riforma che non piace a nessuno di
Manlio Cammarata).
I fatti sono noti: il Consiglio dei Ministri approva
il disegno di legge di riforma dell’editoria che
ridefinisce i concetti normativi di prodotto ed
attività editoriale. Sul primo si è scatenata la
polemica, in quanto all’art. 2 si definisce prodotto
editoriale “qualsiasi prodotto
contraddistinto da finalità di informazione, di
formazione, di divulgazione, di intrattenimento, che
sia destinato alla pubblicazione, quali che siano la
forma nella quale esso è realizzato e il mezzo con il
quale esso viene diffuso”, con esclusione di
quelli destinati alla sola informazione aziendale,
interna e rivolta al pubblico.
Il senso letterale della disposizione, applicata all’internet,
è chiarissimo: qualsiasi sito web avente contenuto
informativo, divulgativo o istruttivo è prodotto
editoriale, ad eccezione dei siti aziendali (quindi
anche con finalità pubblicitarie).
L’art. 5 del DDL chiude il cerchio per così dire, dal
momento che se esiste un prodotto, esiste anche un’attività
volta alla sua creazione e distribuzione: “Per
attività editoriale si intende ogni attività
diretta alla realizzazione e distribuzione di prodotti
editoriali, nonché alla relativa raccolta
pubblicitaria. L’esercizio dell’attività
editoriale può essere svolto anche in forma non
imprenditoriale per finalità non lucrative”.
Questa norma va poi collegata, ed è questa la pietra
dello scandalo, al successivo art. 6 che impone a chi
eserciti attività editoriale l’iscrizione al
Registro degli operatori di comunicazione (ROC),
presso l’Autorità garante delle comunicazioni.
La sequenza logica è chiara, e i relativi
sillogismi molto semplici da costruire: la conclusione
è che l’autore/produttore di un prodotto
editoriale, anche se non a fine di lucro, è obbligato
all’iscrizione al ROC.
L’impatto è evidente. Se in precedenza occorreva l’iscrizione
al registro della stampa presso il Tribunale, con
obbligo di un professionista abilitato quale direttore
responsabile, solo per le pubblicazioni periodiche, e
quindi con una caratteristica presuntiva di
professionalità, da intendersi anche come sinonimo di
imprenditorialità, con il DDL in questione si passa
ad un regime generalizzato di iscrizione (o
schedatura?), che include anche il “povero”
blogger che tenga un semplice diario personale sulla
rete da condividere con amici e non.
L’amplissima portata dell’obbligo di registrazione
collide a prima vista con le finalità generali
proclamate all’art. 1 del medesimo DDL, di tutela e
promozione del principio di libera informazione di cui
all’art. 21 della Costituzione, e, soprattutto, con
il secondo comma, nel quale si afferma che la
disciplina prevista dal ddl “…mira all’arricchimento
della produzione e della circolazione dei prodotti
editoriali, allo sviluppo delle imprese e del settore
editoriale in conformità ai principi della
concorrenza e del pluralismo, al sostegno all’innovazione
e all’occupazione, alla
razionalizzazione e alla trasparenza delle provvidenze
pubbliche…”. Finalità alquanto encomiabile,
ma perché all’art. 5 si include nell’attività
editoriale anche quella svolta in forma non
imprenditoriale per finalità non lucrative?
Svista? Eccesso di zelo?
La risposta
del ministro Gentiloni è estremamente
insoddisfacente: “…va corretto perché la norma
sulla registrazione dei siti internet non è chiara e
lascia spazio a interpretazioni assurde e restrittive…”.
Signor Ministro, la norma, anzi le norme sono
chiarissime e non lasciano spazio ad alcuna
interpretazione assurda e restrittiva, è il concetto
espresso dalla norma ad essere assurdamente
restrittivo e contrario alla premessa di ossequio all’art.
21 della Costituzione. Tralasciamo il fatto che il DDL
non sia stato riletto durante il Consiglio dei
ministri, tuttavia rimane l’interrogativo del
perché, e dove sia stato divisato questo obbligo
generale di registrazione. Questa è la domanda che
merita una risposta, e ad oggi ci sono state solo
giustificazioni ben poco credibili.
Non basta.
Vi è un altro aspetto del DDL che merita una
riflessione. All’art. 6, comma 4, si demanda all’Autorità
per le garanzie nelle comunicazioni l’adozione di un
regolamento (cioè un atto amministrativo) che
riguarda non solo l’organizzazione e la tenuta del
ROC, ma anche “la definizione dei criteri di
individuazione dei soggetti e delle imprese tenuti
all'iscrizione, ai sensi della presente legge”.
E’ un altro esempio della scarsa capacità di
formulazione di leggi che siano in grado di camminare
con le loro gambe; occorre sempre un regolamento di
attuazione, una circolare. Nel caso di specie,
tuttavia, la “protesi” regolamentare va oltre la
sua funzione, in quanto rimette ad una autorità
amministrativa, ancorché indipendente e di garanzia,
la previsione del filtro di accesso al ROC, in
presenza della disposizione del primo comma dell’art.
6, che con estrema chiarezza afferma che tutti i
soggetti che esercitano l’attività editoriale sono
tenuti all’iscrizione nel ROC.
Sul punto sorprendono nuovamente le dichiarazioni
del sottosegretario Franco Levi in risposta alla
domanda se anche Grillo dovrà sottostare alla
iscrizione al ROC: “Non spetta al governo
stabilirlo. Sarà l'Autorità per le Comunicazioni a
indicare, con un suo regolamento, quali soggetti e
quali imprese siano tenute davvero alla registrazione.
E il regolamento arriverà solo dopo che la legge
sarà stata discussa e approvata dalle Camere”.
L’impressione è che nemmeno il sottosegretario
Levi, al pari del ministro Gentiloni, abbia letto il
DDL, altrimenti non avrebbe fatto un’affermazione
così inesatta, dal momento che l’obbligo di
iscrizione al ROC anche per Grillo sta chiaramente
scritto nel testo della legge. E, come si sa, in
claris non fit interpretatio.
Peraltro, il sottosegretario Levi ha detto una cosa
esatta, e cioè che non spetta al governo stabilire l’estensione
dell’obbligo di registrazione. Solo la legge,
infatti, deve, in una democrazia, prevedere obblighi o
filtri all’esercizio del diritto di manifestazione
del pensiero, non il governo né, tanto meno, un’autorità
amministrativa con un provvedimento unilaterale e
adottato al di fuori del Parlamento.
E’ anche opportuna una considerazione pratica: l’attuale
struttura di gestione del ROC sarebbe in grado di
sopportare l’impatto dell’enorme quantità di
richieste di iscrizione qualora fosse adottata la
disciplina del DDL? In proposito è utile rammentare
quanto accadde in relazione alla notificazione dei
trattamenti di dati personali prevista dal testo
originario della l. 675/96. In un primo momento l’obbligo
di notificazione era generalizzato, poi, resisi conto
della pratica ingestibilità (e conseguente
inutilità) di centinaia di migliaia di notificazioni,
l’obbligo fu man mano ristretto, trasformandolo da
regola in eccezione. Per farlo, però, fu cambiata la
legge.
Mai come su diritti delicati e fondamentali come
questi è doveroso che sia la legge a disporre, senza
deleghe esplicite od implicite a terzi, anche se
qualificati.
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