La partita che si gioca dietro il disegno di legge di
riforma dell'editoria è molto più ampia di quanto
appare dalla proteste che in questi giorni si levano
contro il testo che vorrebbe dettare la disciplina dei
"prodotti editoriali".
Il prodotto editoriale è una delle infinite possibili
forme di manifestazione del pensiero. Ma non tutte le
manifestazioni del pensiero sono prodotti editoriali.
Per esempio, parlare in pubblico, insultare
pubblicamente qualcuno, portare un distintivo, tenere
un blog sono forme di manifestazione del pensiero.
Anche versare un secchio di colorante rosso nell'acqua
della Fontana di Trevi è una forma di manifestazione
del pensiero (che, come tutte le altre, può
comportare una sanzione se reca un danno
ingiustificato a qualcosa o a qualcuno).
Anche editare un giornale,
sia esso di carta, radiotelevisivo o telematico, è
una forma di manifestazione del pensiero. Ma è una
manifestazione del pensiero che si avvale di
un'organizzazione d'impresa, con un rilevante impegno
economico. Ciò che viene pubblicato è frutto di
un'attività professionale. Il giornalista è una
persona che ha il compito di cercare e interpretare le
notizie, di controllarle, di presentarle nel modo più
chiaro e corretto a un pubblico che si aspetta di
leggere "la verità". Tutto questo (e molto
altro) dà vita a ciò che può essere definito
"prodotto editoriale". La diffusione di
prodotti editoriali comporta responsabilità e
obblighi (per esempio quello di rettifica). A questi
fanno da contrappeso alcune garanzie, che dovrebbero
assicurare l'indipendenza della testata e dei
giornalista e quindi rendere più credibile il loro
operato.
Fin qui l'inevitabile premessa. Ora dobbiamo vedere
quali sono i problemi sollevati dal disegno di legge
in questione. Primo problema: fa di ogni erba un
fascio. Sottopone infatti alle stesse regole il
prodotto editoriale in senso proprio e la libera
manifestazione del pensiero. Obbliga chiunque curi un
sito "anche in forma non imprenditoriale
per
finalità non lucrative" a iscriversi in un
registro (peraltro quasi impossibile da realizzare,
per la quantità di siti che vi dovrebbero essere
elencati). In buona sostanza: una schedatura.
L'iscrizione potrebbe comportare il pagamento di un
balzello, che sarebbe una specie di tassa
sull'informazione. L'assurdità di queste previsioni
ha provocato prese di distanza da parte di diverse
personalità politiche, compreso lo stesso
sottosegretario Levi, estensore del DDL (il che è
quantomeno curioso).
E' curioso anche che il putiferio di questi giorni sia stato
scatenato da una lettura troppo frettolosa del testo
governativo: nel DDL non c'è nulla che possa far
ipotizzare una "tassa sull'internet".
Secondo problema: nella sostanza il testo riforma
molto poco rispetto alla confusa legge 62/01. L'unica
differenza - non da poco - è l'obbligo di iscrizione
al Registro degli operatori di comunicazione (ROC),
tenuto dall'Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni, per tutti "i prodotti
editoriali". Fino a oggi l'obbligo riguarda solo
le testate per le quali "si prevedono
ricavi" o si intende accedere ai contributi
statali. Quello che resta immutato è il pasticcio
della sostituzione della registrazione al tribunale
con l'iscrizione al ROC. Il DDL abroga espressamente
l'art. 5 della legge 47/48, ma lascia in piedi tutto
il vecchio edificio normativo.
Inoltre estende "l’applicazione delle norme sulla
responsabilità connessa ai reati a mezzo stampa"
a "colui che ha il compito di autorizzare la
pubblicazione delle informazioni": un altro
pasticcio. La responsabilità per omesso controllo è
tipica della figura del direttore responsabile, un
soggetto iscritto in un albo professionale, che si
suppone preparato al compito. Ma nell'ordinamento
della stampa si distingue tra la responsabilità del
direttore e quella di chi scrive la notizia o il
commento. Qui invece, ancora una volta, si fa di ogni
erba un fascio. Ma il punto più grave è che si
estendono le responsabilità, ma non le garanzie.
Tutto questo a prescindere dalla vaghezza
dell'espressione "colui che ha il compito di
autorizzare la pubblicazione".
Il problema è serio. Come
ricostruisce puntualmente Daniele Minotti
nell'articolo Responsabilità
e sequestri: l'internet è un altro mondo, il
divieto di sequestro della "stampa" non è
riconosciuto per i siti internet. In questo DDL
sembra di vedere l'intento del legislatore di
attribuire all'informazione spontanea gli stessi
doveri, ma non gli stessi diritti, dell'editoria
tradizionale. E come la mettiamo con l'obbligo di
rettifica?
Sono questioni di rilevanza fondamentale, perché
coinvolgono direttamente la libertà di espressione
sancita dall'articolo 21 della Costituzione.
In tutto questo il disegno di legge prevede che l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni adotti un regolamento per "la definizione dei criteri di individuazione dei soggetti e delle imprese tenuti all'iscrizione". Questo significa che l'AGCOM potrebbe esentare i siti di informazione non professionale (oggi l'obbligo di iscrizione riguarda solo le testate periodiche). Ma si può demandare al
regolamento di organo amministrativo una questione di
portata costituzionale? (vedi anche Ma i ministri hanno letto il DDL
sull'editoria? di Daniele Coliva).
Il DDL dà al governo un anno di tempo per emanare un
testo unico delle norme sull'informazione. Ma nel
frattempo?
Nel frattempo potrebbero emergere le vere questioni
che si nascondo dietro questa sedicente riforma
dell'editoria. Da una parte la necessità di
"mettere una pezza" sulla scandalosa
elargizione di soldi pubblici ai giornali, documentata
nell'aprile scorso da una puntata di Report su Rai3.
Dall'altra un tentativo maldestro di avviare
sommessamente la messa
in liquidazione dell'Ordine dei giornalisti, vincendo
la strenua opposizione di alcuni suoi difensori. A
questo proposito è illuminante il pezzo di Franco
Abruzzo Allarme
- Levi scopre le carte, scritto dopo
l'approvazione preliminare del disegno di legge.
Sembra di cogliere tra le
righe del DDL l'intenzione di costruire per gradi un
sistema in cui non ci sia più la necessità di un
ordine professionale.
Del resto il disegno era abbastanza evidente anche nel
"questionario"
governativo del dicembre 2006, i cui risultati dovrebbero essere
alla base del testo attuale (vedi Informazione e comunicazione, un
cantiere di leggi).
In questa prospettiva l'inclusione dell'informazione
spontanea nella disciplina dei prodotti editoriale
trova un senso. Perverso.
I problemi dell'informazione in Italia sono di tale
gravità che non si possono risolvere con norme
generiche e imprecise e regolamenti amministrativi.
Occorrono interventi decisi, chiari, discussi alla
luce del sole e con motivazioni trasparenti. Il
sistema delle "pezze" lascia il sistema
bloccato, suscita i fantasmi della censura, impedisce
lo sviluppo dell'informazione.
Dobbiamo riflettere ancora una volta su un fatto: l'Italia è l'unico Paese democratico in cui la professione di giornalista non è libera. Anzi, chi si professa giornalista senza essere iscritto all'Ordine
(inventato, ricordiamolo, da Benito Mussolini) rischia una condanna penale.
Vedi anche:
- Riforma dell'editoria: non siamo tutti
giornalisti del 24 settembre
- Il
primo allarme su una "Internet Tax" su
Punto Informatico del 19 ottobre
- L'allarme
in Rete e Le
dichiarazioni di Levi, Folena e altri in difesa del
DDL su Repubblica.it del 19 ottobre.
- La
risposta di Ricardo Franco Levi a Beppe Grillo sul
sito del Governo
- Una ricostruzione storico-giuridica del regime
dell'editoria in Italia dall'Editto del 1848 alla
legge del 2001 è nel saggio di Franco Abruzzo
Testate
on-line, la registrazione presso i tribunali
obbligatoria quando l’editore chiede finanziamenti
pubblici, prevede di conseguire ricavi, rispetta una
regolare periodicità e impiega giornalisti. Nel Roc
soltanto gli editori
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