"Gattopardesco" è il primo aggettivo che
viene in mente leggendo lo schema di disegno di legge
di riforma dell'editoria approvato dal Governo in via
preliminare il 3 agosto scorso: "cambiare tutto
per non cambiare nulla". A una più attenta
lettura l'aggettivo si rivela sbagliato, perché il
testo messo a punto dal sottosegretario Levi nella
sostanza cambia poco o niente.
Tanto per incominciare, ancora una volta si mettono
insieme due problemi diversi: l'assetto generale del
settore editoriale, che attende da tempo una seria
riforma, e il regime delle "provvidenze",
che in un sistema sano dovrebbero essere del tutto
marginali.
I primi commentatori hanno puntato l'attenzione sul
secondo tema, quello dei contributi, ma i veri
problemi sono nella prima parte del DDL. Vediamoli in
sintesi scorrendo il testo.
L'art.
2 dello schema di disegno di legge riprende, con
maggiore chiarezza, l'art. 1 della famigerata legge
62/01, esplicitamente abrogato dall'art.
31 dello stesso schema. La definizione di
"prodotto editoriale" comprende quindi
l'editoria on line e si sovrappone all'art.
1 della legge 47/48, che non è abrogato
esplicitamente.
L'art. 5
dello schema è molto importante, perché comprende
nella definizione di "attività editoriale"
anche quella che "può
essere svolta anche in forma non imprenditoriale per
finalità non lucrative": in pratica tutti i siti
internet che in qualche modo danno informazioni.
L'art.
6 al comma 1 stabilisce che "tutti
i soggetti che esercitano l’attività editoriale
sono tenuti all’iscrizione nel Registro degli
operatori di comunicazione": quindi anche coloro
che la esercitano "in forma non imprenditoriale
per finalità non lucrative", cioè tutti i siti
internet italiani, con l'eccezione di quelli che fanno
solo commercio elettronico o altre attività "non
editoriali".
Il secondo comma dello stesso articolo dice "L’iscrizione
al Registro degli operatori di comunicazione è
condizione per l’inizio delle pubblicazioni dei
quotidiani e dei periodici, e sostituisce a tutti gli
effetti la registrazione presso il Tribunale, di cui
all’articolo 5 della legge 8 febbraio 1948, n.
47". In sostanza riprende le disposizioni dell'art.
16 della 62/01, che non viene abrogato
espressamente, mentre viene abrogato l'art.
5 della legge del '48 (art. 31 dello schema).
Le conseguenze di queste
disposizioni, se fossero confermate nel testo
definitivo del DDL e poi approvate dal Parlamento,
sarebbero quantomeno bizzarre. Tanto per incominciare,
l'abrogazione dell'art. 5 della legge del '48 farebbe
sparire il riferimento normativo del secondo comma
dell'art. 6 dello schema in questione. D'accordo, è
solo una questione di tecnica legislativa.
L'importante sono le conseguenze sostanziali: con la
cancellazione dell'art. 5 della 47/48 si cancella
anche la norma che prevede la presentazione di "un documento da cui risulti l'iscrizione nell'albo dei giornalisti, nei casi
in cui questa sia richiesta dalle leggi sull'ordinamento professionale": un
modo contorto di porre le premesse per l'abolizione
dell'Ordine dei giornalisti (vedi Abolire l'Ordine? E' una proposta
troppo "radicale").
Ma resterebbero in piedi tutte le altre
disposizioni della normativa sulla stampa che fanno
riferimento all'art. 5. Si prolungherebbe così la
confusione determinata dalla legge del 2001, almeno
fino all'emanazione del testo unico delle norme
sull'editoria. Che, secondo l'art.
29 dello schema e salvo proroghe, dovrebbe
avvenire entro un anno dall'entrata in vigore della
legge di riforma.
Ma non è tutto. Scorrendo il testo si incontra l'art.
7, che al comma 1 stabilisce: "L’iscrizione
al Registro degli operatori di comunicazione dei
soggetti che svolgono attività editoriale su internet
rileva anche ai fini dell’applicazione delle norme
sulla responsabilità connessa ai reati a mezzo
stampa".
Il combinato disposto di questo comma con il comma 1
dell'art. 6 comporta dunque l'estensione delle
previsioni di reati commessi a mezzo stampa anche a
coloro che esercitano on line attività editoriali "in
forma non imprenditoriale per finalità non lucrative".
Cioè i milioni di persone che hanno un blog o un sito
dal quale diffondono informazioni. Questi soggetti
avrebbero gli stessi obblighi dei giornalisti
professionali, ma senza le garanzie che tutelano
l'attività giornalistica.
In sostanza il legislatore continua con la
confusione tra chi "fa informazione"
come attività professionale e chi "dà
informazioni" nel puro ambito garantito dall'art.
21 della Costituzione (vedi "Fare informazione" e
"dare informazioni" sono cose diverse di Andrea Monti). Non
si possono estendere i doveri senza estendere i
diritti che ne costituiscono il presupposto
essenziale. Ma è difficile immaginare che per il
legislatore italiano tutti quelli che in qualche modo
danno informazioni siano da considerare giornalisti.
Tutto questo è molto grave. L'Italia è l'unico
paese democratico in cui la professione giornalistica
non è aperta a tutti (anzi, qualcuno la vorrebbe
sempre più chiusa). Ora si vuole sottoporre a un
regime restrittivo anche l'informazione spontanea,
dimenticando che nell'era dell'internet qualsiasi
tentativo di limitare la libertà di espressione è
destinato, prima o poi, al fallimento.
Una vera riforma dell'editoria dovrebbe passare,
prima di tutto, per la completa riscrittura di due
leggi fondamentali: quella del 1948 sulla stampa e quella
del 1963 sulla professione giornalistica,
nell'ottica di quella che continuiamo a chiamare
"società dell'informazione". Non ci sono
altre strade.
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