I radicali di nuovo all'attacco
con una loro vecchia
fissazione: l'abolizione
dell'Ordine dei giornalisti. Ci
hanno provato con due
referendum, nel 1974 e nel
1997. La prima volta non
raccolsero nemmeno le firme
necessarie per indire la
consultazione, la seconda
mancò il quorum.
Ora annunciano un progetto
di legge firmato da Capezzone e De
Lucia, che abroga la
legge 69/63, istitutiva
dell'Ordine, e introduce una
"tessera di riconoscimento
professionale", di
competenza dell'Autorità per
le garanzie nelle
comunicazioni.
Ed è subito polemica.Prima di
dare conto delle reazioni alla proposta dei
radicali, occorre una premessa:
il problema non è tanto
nella sopravvivenza o nella
abolizione dell'Ordine, quanto
nelle regole per l'accesso alla
professione, per il rispetto
della deontologia
e per le misure di tutela della
professione, troppo spesso
soggetta ad attacchi che
tendono a minare l'autonomia dei
giornalisti. Su quest'ultimo
aspetto la proposta di legge
non dice nulla. In ultima
analisi può essere considerata
una provocazione, che ha il merito di aprire una
discussione troppo a lungo
rinviata.
Infatti le reazioni non si
fanno attendere. Per il segretario generale
della Federazione
nazionale della stampa, Paolo Serventi
Longhi, "La proposta degli
onorevoli Capezzone e De
Lucia, di abolire
l’Ordine dei gionalisti
e di istituire una carta
professionale, sul modello
francese, non può essere
liquidata con un semplice
'no'. Anzi, va valutata
con estrema attenzione".
Lo rimbrotta Bruno Tucci,
presidente dell'Ordine del
Lazio: "Si preoccupi di più del rinnovo del contratto
di lavoro e meno
dell'abolizione dell'Ordine dei
giornalisti".
Interviene Lorenzo Del Boca, presidente
dell'Ordine del Lazio: "L'Ordine è disposto al
dialogo, ma noi non
condividiamo la
proposta di legge
sull'abolizione
dell'Ordine. Vorremmo che i Radicali
dialoghino anche con
l'Ordine dei giornalisti
sulla nostra proposta, che
prevede di rivedere e
modificare la legge
attuale che risale al
1963, e non di abolire
l'Ordine".
Tuona Franco Abruzzo,
presidente dell'Ordine della
Lombardia. Se si abolisce
l'Ordine, scrive
Abruzzo,
"quella dei giornalisti non
sarà più una professione
intellettuale riconosciuta e
tutelata dalla legge; risulterà abolita la
deontologia professionale
fissata nell’articolo 2
della legge professionale n.
69/1963; cadrà per giornalisti (ed
editori) la norma che impone
il rispetto del segreto
professionale sulla fonte
delle notizie; senza legge professionale,
direttori e redattori saranno
degli impiegati di redazione
vincolati soltanto da un
articolo (2105) del Codice
civile che riguarda gli
obblighi di fedeltà verso
l’azienda. Il direttore non
sarà giuridicamente nelle
condizioni di garantire
l’autonomia della sua
redazione".
Il presidente dell'Ordine
lombardo insiste nella sua
richiesta della laurea
specialistica, seguita da un
esame di stato, come unica via
di accesso alla professione. La
soluzione, dice Abruzzo,
toglierebbe agli
editori il potere di decidere chi può
essere giornalista e chi no.
Dunque sarebbe lo Stato, e per
lui l'ordine professionale, a
dare la "patente" di
giornalista, come quella di
medico, avvocato,
commercialista eccetera.
Si confrontano dunque due
posizioni opposte: quella della
massima apertura, fondata sul
riconoscimento di una
situazione di fatto (almeno
questo sembra lo spirito della
proposta dei radicali) e quella
della chiusura corporativa,
operata attraverso il percorso
obbligatorio della laurea e
dell'esame di stato, come per
le libere professioni per le
quali è prevalente l'esigenza
della tutela del cittadino che
ha un rapporto diretto con il
professionista.
Questo punto è il
presupposto che vizia il
ragionamento di chi sostiene
l'accesso regolato dallo Stato:
la qualificazione dei giornalisti professionisti come
"liberi
professionisti" (per i
quali, fra l'altro, l'Unione
europea chiede di allargare le
maglie dell'accesso, non di
restringerle).
La questione è stata risolta dalla
Corte costituzionale, con la
sentenza n.
214 del 1972, che afferma:
Invero, né i giornalisti
sono liberi professionisti, né la loro cassa di previdenza ha gli stessi
compiti delle casse che gestiscono la previdenza a favore dei
sopraindicati esercenti professioni
liberali [avvocati, dottori
commercialisti, ragionieri,
geometri, NDR]. È vero, peraltro, che
dalla legge che disciplina la loro attività (legge 3 febbraio 1963, n.
69) i giornalisti sono qualificati
giornalisti-professionisti, ma tale
denominazione è loro conferita al solo fine di distinguerli dai
"pubblicisti", per quanto concerne la professionalità
dell'impegno di
lavoro dei primi, che deve essere esclusivo e continuativo, cosa che non
occorre invece per quegli altri che, unitamente all'attività
giornalistica, possono anche esercitare altre professioni o impieghi
(art. 1, comma quarto, detta legge). Comunque sia poi in merito a tale
qualificazione, certo è che i giornalisti-professionisti sono lavoratori
dipendenti, il cui rapporto dì lavoro è regolato da contratti
collettivi, onde è certo che liberi professionisti o professionisti, nel
senso tradizionale, essi non
sono.
Emerge a questo punto con
chiarezza il problema di fondo:
l'ordinamento della professione, così
come è stato disegnato dalla
legge n. 69 del 1963 (che
riprende con poche varianti
il modello pensato da Mussolini
nel 1925) non è adeguato
all'informazione di oggi.
Allora (nel '25, ma anche nel
'63) i giornalisti a tempo
pieno erano per lo più
dipendenti dagli editori, altri
scrivevano "a tempo
perso", avendo un'altra
attività lavorativa. La
distinzione tra
"professionisti"
(leggi:
"professionali" e
"pubblicisti" aveva
un senso.
Non è più così. Oggi c'è
una quantità di giornalisti (e
fotogiornalisti e
videogiornalisti) che svolge la
professione a tempo pieno, ma
senza dipendere da un editore.
Però per la legge sono
giornalisti "a tempo
perso" e di fatto sono
spesso lavoratori precari
malpagati.
Corsi di formazione, lauree
specialistiche, esami di
qualificazione: strumenti
utilissimi per migliorare la
preparazione professionale e
per trovare più facilmente un
lavoro (ma si pone il problema
di capire se gli editori
preferiranno assumere
giornalisti più qualificati,
che dovranno essere pagati di
più, o meno qualificati, per
risparmiare... Oggi come
oggi, la seconda soluzione
sembra più probabile, con
qualche eccezione).
Questo è il primo punto che
deve essere affrontato nella
revisione della normativa. La
qualifica professionale deve
essere riconosciuta a chiunque
faccia il giornalista come
attività prevalente e
continuativa, dipenda o no da
un editore. Se debba o no
superare un esame di
abilitazione è questione da
valutare. In ogni caso questo
professionista
dell'informazione dovrà assumersi precise
responsabilità e dovrà essere
tutelato nella sua indipendenza (che comporta,
fra l'altro, il segreto sulle
fonti).
Il problema è stabilire chi
debba avere il potere di
riconoscere la qualifica di
giornalista professionale e
rilasciare la tessera.
D'accordo sul fatto che non
possono essere gli editori a
detenere le chiavi dell'accesso
alla professione, ma anche
l'attribuzione a un organo
dello Stato (sia esso un ordine
professionale o un'autorità
formalmente indipendente) non
soddisfa. Infatti fa rientrare
dalla finestra una forma
indiretta di
"autorizzazione" che
l'articolo 21 della
Costituzione ha
inequivocabilmente cacciato dalla porta.
La soluzione, come in altri
Paesi democratici, potrebbe
essere nella costituzione di un
organismo associativo la cui
autorità sia riconosciuta
dalla legge. Questo organismo
avrebbe anche il compito di
tutelare l'indipendenza dei
giornalisti e di imporre il
rispetto delle regole
deontologiche.
In ogni caso la ventilata
abolizione dell'Ordine non può
comportare il... dis-ordine,
cioè l'abolizione
della deontologia professionale
e delle norme che oggi (bene o
male) sono poste a difesa
dell'attività giornalistica.
Le leggi si possono cambiare,
alcuni
principi essenziali devono restare
intatti.
Ma non è solo la legge
69/63 che deve essere abrogata
(e sostituita da una nuova, più
articolata di quella
proposta da Capezzone). Tutto
l'ordinamento dell'informazione
deve essere rivisto con una
normativa "di
sistema", che tolga di
mezzo quel relitto
che è la legge
47 del 1948 e
quell'inqualificabile pasticcio
costituito dal tentativo di
aggiornarla con la 62/01
(vedi Editoria, un confuso groviglio normativo
e molti altri articoli nella
sezione Internet
e stampa).
In conclusione, si deve
trovare una via di mezzo tra la soluzione dei radicali e
quella (altrettanto
"radicale"...) di una
parte dell'Ordine dei
giornalisti.
La questione deve essere
affrontata e risolta tenendo
anche presente che un organismo
statale, come l'attuale Ordine
dei giornalisti, non esiste in
nessun altro stato democratico.
Non a caso, come si è detto,
è stato inventato in un
periodo in cui nel nostro Paese
la democrazia era al crepuscolo
e la stampa doveva essere
controllata dalle autorità.
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