(Vedi anche Il
reporter non ha cuore. E neanche il pubblico)
Eric Kim, uno street photographer giramondo,
pubblica la fotografia del cadavere di una
ragazzina di quindici anni ammazzata dalla polizia di
Haiti – o da qualche mercenario che proteggeva i “signori”
del “paese” – per avere rubato due sedie di plastica
e tre fotografie incorniciate, e le dichiarazioni di Paul
Hansen, il reporter che la ha scattata e che ha “vinto”
il titolo di Best international news image.
E’ la classica foto “choc” che tanto piace a media e
lettori, capace di suscitare in quelli che la vedono i
soliti cori di “vibrante protesta” e di regalare fama
imperitura - e magari l’ingresso nell’Olimpo dei
fotografi - a chi la ha scattata.
Poi - la foto è sempre pubblicata da Eric Kim
ed è scattata da Nathan Weber - si scopre che il povero
corpo della ragazzina è stato ulteriormente violentato da
una torma di fotografi che gli si accaniva attorno per
cercare di ottenere la migliore composizione dell’immagine.
E’ una scena che trasuda cinismo allo stato puro - fate
caso alle espressioni dei volti dei reporter - e che (ri)propone
un tema certo non nuovo nel “sistema informazione,
sintetizzato nel commento di Eric Kim: is this photo
ethical?
Che entrambe le immagini siano (per ragioni diverse)
sgradevolmente dure è evidente. Come è evidente che la
documentazione della morte violenta può essere – è –
una forma di testimonianza e di raccolta della notizia. E
infatti, in difesa di foto del genere, ci sono i soliti
argomenti come: “il fotografo registra la realtà”,
“la fotografia ha una funzione di denuncia sociale”,
“non si può censurare una notizia”.
Nel caso specifico, però, l’effetto provocato dal
mucchio di fotografi che si accalca sul cadavere e dai
loro visi racconta un’altra notizia che nulla ha a che
fare con la vicenda dell’omicidio. Professionisti
sgomitanti che si impegnano a “fare il loro lavoro”,
senza intralciarsi, per ottenere un’immagine quanto più
possibile “monetizzabile”. A qualsiasi costo, compreso
- forse – quello di “ricomporre” il corpicino in una
“posa” più “accattivante”.
Ma costoro - e tutti quelli che, come loro introducono
una componente estetizzante nella fotografia “dura” -
sono realmente da biasimare? E sulla base di quale
criterio? Foto come quelle di Diane Arbus non dovrebbero
essere criticate negli stessi termini?
Forse, e forse no.
Diane Arbus è ricordata per l’incredibile modo in
cui ha saputo fotografare emarginati e freak –
fenomeni – e nessuno oggi la accusa di cinismo o di
qualcosa di peggio. Perché ai fotografi della ragazzina
haitiana non dovremmo applicare lo stesso metro?
Intanto, forse, perché Diane Arbus non vendeva le sue
foto e non le scattava sapendo che sarebbero finite sul
tavolo di un caporedattore che poi avrebbe deciso se
pubblicarle o meno. Quei fotografi, invece, le hanno
scattate consapevoli che ne sarebbe stata scelta uno (o al
massimo, qualcuna) e che le avrebbero potute utilizzare -
come poi è effettivamente accaduto - in mostre e concorsi
internazionali.
Fino a quando un’immagine e la sua composizione hanno
l’obiettivo di documentare e denunciare, ben vengano
dieci, cento, mille fotografi. Ma quando al ruolo
democratico della fotografia si affianca un interesse
privato le cose sono del tutto diverse. E dunque forse
questo è il discrimine fra la documentazione di un
omicidio e l’esaltazione cinica dell’estetica della
morte.
Senza false ipocrisie o ingenuità, c’è una
differenza sostanziale fra chi, in nome del dovere di
informare, cerca di ottenere l’immagine più coerente
con questo scopo (anche in termini “estetici”) e chi,
invece, con in mente l’obiettivo di venderla, “crea”
un’immagine non necessariamente finalizzata a uno scopo
diverso da quello di ottenere uno cheque per il “disturbo”.
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