Il fatto. Il 4 dicembre il New York Post pubblica
in prima pagina la drammatica immagine di un uomo che sta
per essere travolto e ucciso da un convoglio della
metropolitana, dopo che uno squilibrato lo ha spinto sui
binari. L'immagine è stata ripresa da un fotografo free-lance
che si trovava lì per caso.
La polemica. "Il fotografo doveva salvare
quell'uomo, invece di scattare". "Il giornale
non doveva pubblicare la fotografia". Queste le
critiche che si spandono sulla Rete. Moralismo inutile,
perché nessuno dei presenti ha cercato di fare qualcosa.
Erano gente qualsiasi, quella che poi va a cercare
"il sangue" sui giornali. Ma la vicenda richiama
la questione sempre aperta dell'etica dell'informazione, ripresa su
queste pagine proprio qualche giorno fa da Ercole
Tagliaferri in Estetica
dell'omicidio.
Una semplice analisi della foto rivela due aspetti che
non possono essere trascurati: il primo è che il
fotografo non aveva alcuna possibilità di salvare l'uomo,
almeno nei momenti che si possono immaginare prima dello scatto. Avrebbe corso lui
stesso il rischio di essere travolto, perché sollevare di
peso una persona in pochi istanti richiede lo sforzo
sincrono di due uomini molto robusti.
Il secondo aspetto è che, con ogni probabilità, il
fotografo ha ripreso altre immagini, ben più drammatiche,
subito dopo quella che è oggetto della polemica. Ma il giornale non le ha pubblicate,
almeno in prima pagina, esercitando un'opportuna
autocensura.
Ma resta il problema di capire qual è il limite, se un
limite c'è, nella ripresa e nella
pubblicazione di immagini dal forte impatto emotivo, che
possono suscitare reazioni sgradevoli in chi le guarda.
Disgusto, raccapriccio, terrore sono sensazioni che molti
provano nel vedere fotografie - e video - che documentano
fatti tragici. Non si devono pubblicare?
Per rispondere si deve prima di tutto si deve tenere presente che la
pubblicazione di un'immagine su un organo di stampa non è
mai la conseguenza di una decisione del fotografo
(naturalmente lo stesso discorso vale per un filmato in
un'emittente televisiva). Il reporter scatta, documenta
tutto quello che è possibile documentare. Poi la
pubblicazione di un'immagine o di un'altra è una scelta
della redazione. A volte sofferta, accompagnata da accese
discussioni.
"La ricerca dello scoop è un atto compulsivo,
atteso, cercato spasmodicamente in anni di vita nelle
redazioni dei giornali. E’ inutile nascondersi. L’educazione
all’orrore si fa da anni nei giornali, i capiredattori,
i direttori chiedono sangue. In Italia e anche altrove. In
tutto il mondo. La foto, soprattutto la più drammatica,
la più acerba, la più terribile, quella che sembra
impossibile, raccapricciante, è la più ricercata, la
più voluta e richiesta. E anche pagata. Benissimo.
Inutile mentire".
Così scrive Paola Pastacaldi sul sito di Franco
Abruzzo. Ma, almeno in parte, sbaglia. E' vero che, in
alcune testate, "i direttori chiedono il
sangue" (perché lo richiede il pubblico). E' anche vero che lo scoop è una
speranza costante di ogni giornalista free-lance, anche perché il
lavoro di routine spesso non basta per conciliare il
pranzo con la cena. Per inciso, che la foto -scoop sia
"pagata benissimo" è un'opinione come un'altra.
In ogni caso, il reporter che si trova sulla scena di un fatto
documenta tutto quello che è possibile documentare. L'autocensura
di solito non può scattare nel momento del dramma,
quando ogni frazione di secondo può fare la differenza
tra un servizio riuscito o un buco nell'acqua. Se mai, la
scelta critica verrà dopo.
Il reporter è il testimone, non il protagonista di un
fatto.
Testimone qualificato, e perciò credibile dal
pubblico, fino a prova contraria. Anche perché le
emozioni si attenuano, quando un professionista
impugna la macchina fotografica o la telecamera. Tra l'occhio e il cuore si alza una
barriera che rende possibile lavorare in ogni condizione.
E' il mestiere del reporter: la mano non deve
tremare.
Di questo posso dare una testimonianza diretta: il 5
agosto scorso ho visto la mia casa sfiorata dal fuoco,
come ho documentato nel video Scene da un incendio (si
è salvata solo per un provvidenziale cambio di vento).
Sono scappato con solo la telecamera in mano, ho fatto in
tempo a vedere le fiamme che incenerivano le piante sul
balcone e mi sono dovuto allontanare perché il fumo e il
calore erano insopportabili.
A quel punto gli occhi mi bruciavano. Non potevo
guardare nel mirino. Ma non ho rinunciato a registrare
l'audio che descriveva il dramma. Poi ho ricominciato a
girare: quella che si intravede tra il fumo a 0:20"
è la mia casa. Tremavo, il cuore mi batteva
all'impazzata, vedevo tutta la mia vita sul punto di
bruciare. E dei pompieri neanche l'ombra. Ma la mano era
ferma. Quando un amico mi ha chiesto come avevo fatto a
mantenermi così calmo, gli ho risposto che non ero
affatto calmo: ero disperato e terrorizzato. Ma ero anche
un reporter.
Un reporter che certo in quel momento non pensava allo
scoop. E che sapeva che difficilmente avrebbe venduto quel
video: giornali e televisioni non spendono un euro per
documenti come questo, dove non c'è "il
sangue". Per riempire pagine e minuti fanno man
bassa, gratis, di quello che si trova sulla Rete. Poco
importa se la qualità non è quella che possono dare i
professionisti. Pensano che la gente abbia ormai fatto
l'abitudine a immagini - e testi - di livello schifoso.
Certo, l'immagine del sangue aiuta a vendere. E chi
campa di immagini non può porsi, sul momento, il problema
di qualcuno che potrebbe essere disturbato dalla visione.
Ma c'è un limite che non dovrebbe essere valicato: quello
dell'autenticità della scena. Il fotografo che - si
sospetta - abbia spostato il corpo della ragazzina uccisa
ad Haiti, per aumentare l'impatto dell'inquadratura,
avrebbe commesso un falso. Avrebbe smesso di essere
testimone per "entrare nella scena",
contraddicendo il senso stesso della sua professione (vedi
appunto Estetica dell'omicidio).
Ma il discorso sull'etica del reporter e del giornale
non si chiude qui. Perché oggi l'informazione
professionale deve confrontarsi con quella non
professionale, che pervade la Rete cioè con una smisurata
quantità di immagini. Diffuse direttamente dagli autori,
senza il filtro di una redazione, senza qualità né
credibilità, ma spesso unica testimonianza di un fatto.
Ora proviamo a chiederci che cosa sarebbe accaduto se
il New York Post avesse pubblicato non la foto di
un professionista, ma lo scatto di qualcuno presente alla
scena con un telefonino in mano. Qualcuno lo accuserebbe
di non avere tentato di salvare l'uomo in pericolo?
Pensiamoci bene. Il vero problema è l'indifferenza dei
presenti, documentata con forza dall'immagine. Nessuno,
sembra di capire, si avvicina al malcapitato, mentre il
reporter non può fare altro che scattare.
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