A quasi tre anni dall’emanazione della direttiva e a oltre un anno dalla
pubblicazione della legge delega, è stato pubblicato il decreto legislativo
di attuazione, nel nostro Paese, della direttiva 2000/31/CE
"relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione,
in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno", in breve
la "direttiva sul commercio elettronico".
Purtroppo il testo del decreto legislativo 70/03
delude le grandi aspettative che attorno ad esso si erano create e non appare
neppure rispondente alle finalità ed agli obiettivi individuati dal
legislatore comunitario.
La pubblicità on line, i contratti telematici e la responsabilità degli
intermediari dell’informazione costituivano, infatti, e costituiscono
tuttora - stante la già denunziata insufficienza dell’articolato
governativo - tematiche di fondamentale importanza per lo sviluppo del
commercio elettronico e per una crescita dell’uso di Internet quale nuovo
mezzo di comunicazione di massa.
Ci si attendeva, pertanto, che il legislatore si mostrasse più attento a tali
problematiche e si sforzasse di dar vita ad un articolato strutturato in
maniera efficacie ed intelligente e denso di risposte puntuali ed univoche
alle molte questioni aperte dall’inarrestabile diffondersi delle nuove
tecnologie informatiche e telematiche.
Lo schema di decreto legislativo pubblicato nei giorni scorsi costituisce,
invece, solo un maldestro tentativo di imitazione della direttiva comunitaria,
una distratta e pedissequa attuazione della delega parlamentare e,
soprattutto, un coacervo di ovvietà e di risposte confuse e contraddittorie
che non possono che lasciare insoddisfatti tanto i "prestatori dei
servizi della società dell’informazione" che i "destinatari"
di tali servizi ma che, soprattutto, appaiono difficilmente conciliabili con
tutta una serie di altre previsioni contenute nella vigente normativa.
Sagezza e pazienza - antiche virtù troppo spesso dimenticate -
suggeriscono di lasciar decantare il testo del provvedimento e di ponderarne
più attentamente il contenuto e la portata prima di addentrarsi nella sua
analisi.
Ci sono, tuttavia, trentuno parole (numeri inclusi) del testo, in relazione
alle quali attendere sarebbe inutile e ben difficilmente varrebbe a modificare
le conclusioni che si possono trarre già da una prima attenta lettura. Ci si
riferisce al terzo comma dell’art. 7
del decreto legislativo, secondo cui "la registrazione della testata
editoriale telematica è obbligatoria esclusivamente per le attività per le
quali i prestatori del servizio intendano avvalersi delle provvidenze previste
dalla legge 7 marzo 2001, n. 62".
La disposizione - frutto di un cattivo "suggerimento" del
legislatore delegante prontamente raccolto dall’esecutivo - è infatti
caratterizzata da una concentrazione di errori e sviste linguistiche prima
ancora che giuridiche, tale da rendere inutile e superflua ogni prova d’appello.
Ma andiamo con ordine.
1. E’ innanzitutto difficile comprendere quale sia la
disposizione o il principio sancito dalla direttiva 2000/31 che il legislatore
nazionale ha inteso attuare attraverso detta previsione.
La sua collocazione tra le informazioni che il prestatore dei servizi della
società dell’informazione dovrà rendere accessibili ai destinatari di
detti servizi ed alle competenti autorità non fornisce alcun aiuto al
riguardo ed anzi appare suscettibile di ingenerare ulteriore confusione; a ben
vedere, anzi, costituisce essa stessa un primo errore di tecnica normativa nel
quale è incorso il legislatore delegato.
Solo con un notevole sforzo esegetico - ma forse sarebbe più corretto
parlare di fantasia o immaginazione - può ipotizzarsi che il legislatore,
delegante prima e delegato poi, abbiano ritenuto necessario inserire detta
previsione in attuazione del principio di assenza di autorizzazione preventiva
per l’accesso e l’esercizio dell’attività dei prestatori dei servizi
della società dell’informazione sancito all’art.
4.1 della direttiva.
Se tale interpretazione fosse corretta, tuttavia, occorrerebbe concludere
che il legislatore ha -per usare un eufemismo - frainteso il significato e la
portata giuridica del concetto di "autorizzazione preventiva" e, ad
un tempo, completamente omesso di tener conto del limite posto dallo stesso
legislatore comunitario all’ampiezza del principio di "assenza di
autorizzazione" attraverso la previsione secondo cui detto principio
"fa salvi i sistemi di autorizzazione che non riguardano specificatamente
ed esclusivamente i servizi della società dell’informazione" (art.
4.2).
E’, infatti, evidente che l’obbligo di registrazione di una testata
telematica, per un verso non avrebbe costituito un sistema di autorizzazione
preventiva e, per altro verso, sarebbe stato, in ogni caso, giustificato dalla
circostanza di non riguardare "specificatamente ed esclusivamente i
servizi della società dell’informazione".
La disposizione di cui al terzo comma dell’art. 7, pertanto, appare
orfana di ogni riferimento nella direttiva comunitaria con la conseguenza che
il suo inserimento nel decreto legislativo di attuazione è privo di ogni
giustificazione ed anzi suscettibile - per quanto si dirà più oltre - di
ingenerare ulteriore confusione tra gli operatori di un settore - quello dell’informazione
telematica - in cui già sussistono ben poche certezze in relazione al quadro
normativo di riferimento.
2. Nella disposizione in commento si parla di " testata
editoriale telematica".
L’associazione dell’aggettivo "editoriale" al sostantivo
"testata" - anch’essa portato del testo della legge delega -
costituisce un unicum nel panorama legislativo nazionale ma,
soprattutto, appare difficile da decifrare e tradurre su di un piano
linguistico prima ancora che giuridico.
Non si comprende, in particolare, quale debba essere il significato da
attribuire all’aggettivo "editoriale" nell’accezione utilizzata
dal legislatore né quale specifico messaggio - attraverso il ricorso a tale
ridondante aggettivazione - si sia voluto comunicare.
Al riguardo, neppure il dizionario della lingua italiana appare
suscettibile di venire in soccorso.
Secondo il dizionario Devoto-Oli, infatti, per "editoriale" deve
intendersi "relativo all’editoria" e cioè all’industria del
libro o, comunque al "complesso degli editori e delle attività attinenti
all’industria libraria".
Il "combinato disposto" di tale definizione e della scelta
legislativa di associare detto aggettivo all’espressione "testata
telematica" sembrerebbe legittimare la conclusione secondo cui esistono
testate telematiche non editoriali e dunque estranee alle attività attinenti
all’editoria (evidentemente telematica), conclusione, che, tuttavia, non
trova alcun riscontro nella realtà.
Non si tratta di essere sofisti; il problema è un altro e ben più serio.
Questo articolo, i molti altri che affollano le pagine delle testate
(editoriali) telematiche e non, gli atti e le memorie degli avvocati, i libri
di romanzieri e giornalisti sono densi di eccessi di parole, aggettivi,
sostantivi, verbi ed avverbi buttati li nel tentativo - non sempre riuscito -
di conferire musicalità, forza persuasiva e ritmo allo scritto piuttosto che
di contribuire nella trasmissione ed espressione del contenuto; a ciò siamo
abituati, possiamo tollerarlo e, forse, a volte, persino ci piace.
Nel redigere un testo di legge, invece, non ci si può permettere certi
lussi, certi preziosismi stilistici o grammaticali: meglio che sia piatto,
cacofonico - se necessario -, ripetitivo e noioso ma chiaro, inequivoco ed
univoco, scritto come se si predisponesse una funzione matematica e con l’unica
preoccupazione di esprimere un precetto, una norma, una sanzione.
3. Pur a prescindere, poi, dai problemi di forma che, tra l’altro,
talvolta - il caso in esame ne è un esempio - sono anche di sostanza, l’espressione
"registrazione della testata editoriale telematica" solleva ben
altri dubbi e perplessità.
Né il legislatore delegante (lo sottolineava già Manlio Cammarata in "Rendere esplicito", questo è il problema)
né quello delegato, infatti, chiariscono a quale registrazione intendano far
riferimento con tale espressione: quella nel registro della stampa istituito
con la legge 8
febbraio 1948, n. 47 e tenuto presso tutti i tribunali della Repubblica
o, piuttosto, quella nel vecchio Registro nazionale della stampa, un tempo
tenuto dal Garante per la radiodiffusione e l’editoria ed oggi confluito nel
ROC (Registro degli operatori della comunicazione) tenuto dall’Autorità per
le garanzie nelle comunicazioni?
Il nodo da sciogliere per effetto dell’infelice e poco accorta
formulazione legislativa non è di poco conto. Come è noto, infatti, i due
registri hanno funzioni, obiettivi e strutture sensibilmente differenti.
Il primo quello della stampa è un registro delle testate nel quale, a norma
dell’art. 5 della legge 47/48 che lo ha
istituito, deve obbligatoriamente essere iscritto ogni "giornale o
periodico" prima di poter essere pubblicato, il secondo, il vecchio
Registro nazionale della stampa, invece, è un registro degli editori - oggi
operatori della comunicazione - istituito per finalità antitrust e
finanziarie (le famose provvidenze all’editoria).
L’assoluta mancanza di chiarezza del testo impone, ancora una volta - la
seconda o la terza in appena due righe di disposizione - un notevole sforzo
interpretativo che, tuttavia, consente, al più, di avanzare delle ipotesi:
ciò con buona pace del principio della certezza del diritto e della regola di
tecnica normativa della chiarezza ed univocità del precetto.
Ricorrendo al criterio dell’interpretazione letterale e considerato che il
legislatore parla di "registrazione della testata" e non di
"registrazione dell’editore e/o operatore della comunicazione"
dovrebbe pervenirsi alla conclusione che si sia inteso far riferimento al
Registro della stampa di cui alla legge 47/48; come si è detto, l’unico
registro per testate, attualmente esistente nel nostro Paese.
Detta conclusione, tuttavia, avrebbe una portata a dir poco dirompente.
Dovrebbe, infatti, ritenersi che il legislatore - dopo aver di fatto
equiparato con la legge 62/01 le testate
telematiche a quelle cartacee - abbia inteso introdurre - peraltro attraverso
una disposizione avente tutt’altra ratio
e finalità - un regime affatto nuovo e diverso per le testate telematiche,
sollevandole dall’obbligo di registrazione o, ancor meglio, trasformando
detto obbligo in un semplice onere cui adempiere qualora i relativi editori
fossero interessati ad accedere alle provvidenze all’editoria.
Così facendo, attraverso una disposizione volta all’attuazione di una
direttiva comunitaria in materia di commercio elettronico si sarebbe finiti
con lo stravolgere il sistema della stampa costruendo - magari senza neppure
rendersene conto - un doppio binario normativo a seconda che le informazioni
siano diffuse attraverso l’inchiostro o piuttosto in bit.
Si tratta di una lettura dalla quale occorre necessariamente rifuggire a pena
di essere costretti ad esprimere un giudizio ancor più severo e negativo nei
confronti del legislatore.
L’alternativa è quella di ritenere che nel porre mano al terzo comma
dell’art. 7 del decreto legislativo di attuazione si sia voluto far
riferimento all’iscrizione presso il ROC.
Tale interpretazione, pur apparendo più ragionevole sotto un profilo logico
in quanto la disciplina dettata dalla legge 62/01 - richiamata nella
disposizione in commento - è effettivamente volta a riformare la disciplina
dell’editoria con particolare riferimento alle nuove realtà telematiche,
incontra tuttavia insormontabili ostacoli su di un piano letterale,
sistematico e giuridico.
Vediamoli schematicamente in rapida successione:
a) il ROC, come si è anticipato, non è un registro delle testate ma degli
editori/operatori della comunicazione; a seguire tale interpretazione, quindi,
risulterebbe difficile comprendere il riferimento esplicito alla
"registrazione della testata";
b) la legge 31 luglio 1997, n. 249 con la
quale sono stati istituiti l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni
ed il Registro degli operatori della comunicazione, ha sancito, al comma 6
dell’art. 1 un obbligo di iscrizione
nel predetto registro per tutta una serie di soggetti tra i quali, come
chiarito da ultimo all’art. 2 del regolamento
per l’organizzazione e la tenuta del registro degli operatori della
comunicazione rientrano anche "i soggetti esercenti l’attività
elettronica e digitale" (tralasciamo il fatto che nella legge non si
parla di "soggetti", ma di "imprese" e quindi il
regolamento potrebbe presentare un profilo di illegittimità).
Una lettura della disposizione in esame come quella che si sta valutando
condurrebbe dunque alla conclusione di ritenere che il legislatore abbia
inteso radicalmente modificare - sebbene senza neppure farvi riferimento - la
portata di detta disposizione di legge facendo venir meno detto obbligo.
Diverse interpretazioni non appaiono neppure astrattamente possibili e dunque
i dubbi restano e vanno ad aggiungersi - anziché dissiparli - a quelli già
sorti all’indomani della pubblicazione della legge 62/01.
4. Quale che sia l’interpretazione che si vuole preferire, la
disposizione in commento, resta comunque non condivisibile nella sostanza e
giuridicamente scorretta nella sua formulazione.
Attraverso essa, infatti, il legislatore - pur non essendovi affatto tenuto in
ossequio alle disposizioni comunitarie - ha sostanzialmente inteso trasformare
un obbligo di registrazione - previsto nel nostro ordinamento per finalità
pubblicistiche - in un semplice onere affidando così al privato la scelta tra
il procedere o meno alla registrazione in relazione al perseguimento di
interessi di stampo esclusivamente privatistico: l’accesso alle provvidenze
per l’editoria.
In tale prospettiva l’espressione "la registrazione della testata
editoriale telematica è obbligatoria…" è giuridicamente scorretta in
quanto si sarebbe dovuto piuttosto statuire che l’obbligo di registrazione
deve considerarsi trasformato in un mero onere il cui adempimento è
necessario ai fini dell’accesso alle speciali provvidenze… obbligo ed
onere richiamano, da sempre, alla mente del giurista concetti e nozioni
differenti ed infungibili.
Sul piano sostanziale, poi, la portata della previsione è in ogni caso
dirompente per l’intera disciplina della comunicazione e dell’informazione.
L’infelice formulazione della norma trasforma, infatti, un obbligo previsto,
come anticipato, per funzioni pubblicistiche - ben diverse ed ulteriori
rispetto alla disciplina all’accesso alle provvidenze all’editoria - in un
mero presupposto per un’istanza di finanziamento, un onere, appunto.
Si tratta, probabilmente, dell’ennesima, ulteriore, grave svista legislativa
contenuta nelle medesime 31 parole (numeri inclusi).
Si è più volte riflettuto sulla possibilità di lasciare che sia il
computer a formulare i testi di legge interpretando ed esprimendo la volontà
del legislatore secondo precise e puntuali funzioni matematiche.
Forse i tempi non sono ancora maturi per un così radicale passaggio di
consegne del quale pure si avverte urgente la necessità ma, almeno, potrebbe
abbandonarsi quel metodo - per contro sempre più di frequente adottato in
sede legislativa - di studiare ed elaborare testi di legge nel segreto del
Palazzo e lontano da ogni processo di consultazione con le parti interessate,
gli addetti ai lavori ed il mondo dell’università: tanto per evitare brutte
figure.
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