Qual è lo stato di salute delle comunicazioni in
Italia? Difficile trovare qualche risposta sintetica
nelle quattrocentodieci pagine di dati, diagrammi,
riferimenti normativi che costituiscono la relazione
annuale al Parlamento dell'Autorità per le
garanzie nelle comunicazioni. E' meglio leggere il discorso
di presentazione del presidente Corrado Calabrò,
che riassume i punti significativi: la crisi
dell'editoria tradizionale di fronte all'avanzata dei
nuovi media (che però sono ancora a percentuali di
utilizzo molto basse); le tariffe troppo alte praticate
dagli operatori di telefonia mobile; l'urgenza di dotare
l'Italia di un'infrastruttura efficiente a larga banda.
Sono i punti più evidenti e anche più condivisibili.
Ma la curiosità del lettore riguarda soprattutto la televisione.
Come vede il Garante l'anomalia italiana? La risposta è
semplice: non la vede.
[Top]
Dice il presidente dell'AGCOM "La TV è una finestra aperta sul pianeta. La
nostra è spesso una finestra sul cortile. E’
ripiegata sui fatti di casa nostra, specie di cronaca
nera. E’ una grande TV locale. Il che induce un
effetto di chiusura mentale da considerare, poiché per
una gran parte dei telespettatori la televisione ha una
funzione di validazione della realtà: i fatti non
riportati in televisione vengono ritenuti per ciò
stesso irrilevanti". Un discorso "alto", che potrebbe
condurre a valutazioni molto critiche.
Infatti Calabrò rileva, fra l'altro, l'inadeguatezza della normativa sulla
par condicio: "In televisione si assiste ad un
proliferare di trasmissioni di approfondimento
informativo che utilizzano format analoghi a quelli
della comunicazione politica vera e propria, il che
rende davvero difficoltoso coniugare i principi di
autonomia editoriale e giornalistica e di attualità
della cronaca – tipici dell’informazione – con
quelli di parità di accesso e trattamento – tipici
della comunicazione politica. Ripropongo pertanto l’opportunità
di una riflessione su una riforma legislativa che tenga
conto dei cambiamenti intervenuti, garantendo pluralismo
ed equilibrio in un contesto moderno e molto più
diversificato rispetto all’epoca di emanazione della
legge. Emerge, al tempo stesso, un problema di
completezza e obiettività dell’informazione, specie
nei telegiornali, anche fuori dal periodo elettorale".
Senza dimenticare che "resta scetticamente inevasa l’esigenza della
riforma della Rai, tuttavia irrinunciabile se non altro
per dare alla gestione maggiore efficienza e alle
testate maggiore indipendenza dalla politica".
Poi sembra affrontare il tema dell'anomalia
televisiva. Riassume il lavoro svolto
dall'Autorità, rimettendo ordine nelle frequenze
televisive dopo trent'anni di caos e sotto la spada di
Damocle di una procedura d'infrazione europea. Dice
Calabrò: "Nel settembre 2008 il Governo, d’intesa
con l’Autorità, ha stabilito il calendario del
passaggio dal sistema trasmissivo analogico a quello
digitale. Era l’occasione attesa per il riordino del
settore [...] L’Autorità ha adottato una delibera che detta i criteri per il passaggio al
digitale, risolvendo al contempo la situazione country
specific. Mediaset e Rai ridurranno le loro reti da 5 a
4; anche Telecom Italia scenderà da 4 a 3. Le altre
emittenti nazionali manterranno invece le loro reti.
Europa 7 ha la sua rete, ponendo termine così a un
contenzioso decennale".
Dunque, secondo il presidente dell'organismo
"per le garanzie", è tutto a posto. Come
vuole una specie di parola d'ordine che negli ultimi
tempi sembra adottata sia dalla maggioranza
telegovernativa - ed è normale - sia dall'opposizione.
E questo è molto meno normale.
Perché l'anomalia televisiva italiana resta sempre
uguale. Con un solo soggetto che controlla quasi tutto
il sistema televisivo pubblico e privato. Con il
passaggio al digitale terrestre che vede le reti
Mediaset automaticamente ai primi posti nella lista dei
ricevitori e i nuovi canali occupati da emittenti
specialistiche o criptate, che non influsicono sugli
effetti dell'emittenza generalista unificata dal signore
delle televisioni.
Con la sola rete che potrebbe costituire
un'alternativa, Europa 7, ancora costretta al silenzio
da una non-soluzione al problema delle frequenze.
Perché, mentre le altre emittenti siedono intorno a un
tavolo e si spartiscono i canali migliori, Europa 7 è
stata astutamente confinata su una sola frequenza che
non le permette di coprire tutto il territorio
nazionale, almeno per un paio d'anni. Il che significa
non poter trasmettere, perché, come dice il patron
Francesco Di Stefano, non si possono sostenere i costi
di un'emittente nazionale senza le entrate pubblicitarie
di un'emittente che copre tutto il territorio.
Ma il presidente Calabrò, serissimo, ci racconta che
Rai e Mediaset rinunceranno a una rete ciascuna,
passando da cinque a quattro, per soddisfare le
indicazioni che vengono dalla UE. Chi ha già un
ricevitore digitale terrestre, in Sardegna dove è tutto
digitale, o a Roma o in altre zone in cui si avvicina lo
switch-off, può contare quanti canali ha la Rai e
quanti ne ha Mediaset. E forse può capire perché non
si arrabbiano alla prospettiva del taglio annunciato
(come si arrabbia Fedele Confalonieri quando qualcuno
dice che Rete 4 è abusiva): una parte del
"dividendo digitale" di fatto è già
assegnata (vedi TV digitali, grandi manovre in
terra e in cielo).
Il quadro è distorto anche da un'altro recente luogo
comune, tanto efficace quanto inesatta: Sky è il
secondo operatore nazionale, avendo superato Mediaset
per fatturato pubblicitario. Dunque, si dice, il
duopolio non c'è più, i protagonisti dell'emittenza
sono tre. Ma, a parte la provvisorietà di questo
risultato, non si può confrontare il numero di
spettatori che vedono la TV generalista gratuita e i
suoi telegiornali con il numero di quelli che pagano per
vedere lo sport o il cinema.
Dunque la storia che l'anomalia televisiva italiana
è risolta e il pluralismo trionfa si rivela un inganno.
Come dicono a Roma, una "bufala". Pericolosa,
perché distoglie la già scarsa attenzione generale da
un problema sempre più serio, quello dell'informazione
televisiva a senso unico, intollerabile in un sistema
democratico.
|