Bufere dentro e intorno alla Rai. L'ultima notizia è che i contratti
sono stati firmati e Vieni via con me, il programma di
Fabio Fazio e Roberto Saviano, partirà regolarmente l'8
novembre. Ma lo scambio di lettere tra Saviano e il
presidente della Rai Paolo Garimberti resta a
documentare uno stato di tensione mai raggiunto prima.
Se Garimberti deve scrivere "Io sulla libertà non
tratto... Di questa libertà mi faccio garante...",
è lecito immaginare che nel servizio pubblico ci sia un
problema di libertà.
E se un personaggio come Sergio Zavoli,
presidente della Commissione di vigilanza, arriva a dire
che
"bisogna capire se la Rai sia in grado di mediare tra i fatti e
l'opinione pubblica", la questione è
seria.
Sullo sfondo ci sono le polemiche sui programmi
che il direttore generale Mauro Masi cercherebbe di
fermare, sul TG1 troppo "governativo" di
Minzolini e via elencando. Ma cerchiamo di superare le
polemiche e restare ai
fatti.
Primo fatto. Le regole che il direttore generale vorrebbe imporre ai
conduttori dei programmi di approfondimento sono scritte
nero su bianco nella circolare del
24 agosto scorso (di
fatto sconfessata dal consiglio di amministrazione) e in
quella più generica del 17
settembre. Al di là della prosa da verbale di
polizia, al di là di trovate stravaganti come il
divieto di applausi, lo spettro di una censura
preventiva sui programmi di approfondimento è molto
più di una sensazione.
Secondo fatto. Il bilancio dell'azienda che volge al profondo rosso,
come ha riferito
il Corriere della sera pochi giorni fa. Un
buco che per quest'anno potrebbe essere più grave del
previsto e che, in assenza di correttivi, potrebbe superare
il capitale sociale alla fine del 2012. Serve una cura
da cavallo, con vendite di immobili, affidamento di
attività importanti all'esterno e riduzioni di
personale.
Nel disastro dei conti c'è un aspetto singolare:
gli ascolti della Rai sono in crescita (si attestano al
44%), mentre quelli di Mediaset sono stabili (al 38 per
cento). Ma nell'ultimo periodo gli introiti dalla
pubblicità cresciuti solo del 4 per cento, contro l'8
per cento dell'azienda di Cologno Monzese.
Terzo fatto, legato alle difficoltà di bilancio, ma non solo. La Rai rischia
un pesante arretramento tecnologico a causa dei ritardi
negli investimenti per il rinnovo delle apparecchiature.
Ne parla il numero di Millecanali
di questo mese, con molta cautela. Ma a Saxa Rubra e
negli altri centri di produzione il malcontento è
palpabile: molti sudi funzionano ancora con tecnologie
analogiche, pochi sono pronti per l'alta definizione, i
sistemi di ripresa e di post-produzione sono vecchi, i
guasti frequenti. Colpa, in parte, del fatto che
l'azienda deve rispettare le norme sugli acquisti degli
enti pubblici, con un lente procedure burocratiche.
Il problema, si dice, è aggravato dalle regole emanate dal direttore
generale, che non rispetterebbero le esigenze delle
diverse aree produttive. Molte gare devono essere
indette anche per forniture urgenti, ma pare che
l'ufficio acquisti non sia dimensionato per stare al
passo con le richieste della produzione e le delibere
del consiglio di amministrazione.
Il risultato è che acquisti essenziali, come telecamere
e banchi di regia, richiedono anche un anno e mezzo per
essere portati a termine. E, quando arrivano, gli
apparecchi sono ormai quasi obsoleti.
Dunque le prospettive per l'azienda di viale Mazzini sono nere. In
questo quadro si deve vedere il quarto fatto: la bozza
di progetto di riforma della Rai presentata dal
gruppo di Futuro e Libertà. Un disegno di
privatizzazione che prefigura il sostanziale
smantellamento del servizio pubblico radiotelevisivo.
Gli obblighi di servizio pubblico, che la bozza vorrebbe
assegnare (con relativi finanziamenti) alle emittenti
commerciali diventerebbero un mero adempimento
burocratico. Non sarebbero più una "missione"
come quella che la Rai ha svolto e potrebbe ancora
svolgere al servizio della collettività.
La Rai, si ripete sempre, è la più grande industria culturale del
Paese. E continua, nonostante tutto, a svolgere questa
funzione, anche se offuscata dalla collocazione dei
programmi migliori in orari di scarso ascolto. Ma è
anche la più grande industria dell'informazione: nessun
altro editore ha tante testate e tanti giornalisti (più
di duemila).
C'è poi la parte commerciale, quella in concorrenza con l'emittenza
privata, che è l'aspetto più criticabile dello
sviluppo della televisione pubblica dagli anni '80 del
secolo scorso a oggi. Con la privatizzazione tutta la
produzione sarebbe piegata alle esigenze del mercato,
con la perdita del patrimonio di esperienze che ha fatto
della Rai una delle migliori emittenti pubbliche del
mondo.
In tutto questo rimane il "problema dei problemi", il vizio
genetico di cui soffre il servizio pubblico: la
dipendenza dalla politica. Che, all'epoca del Parlamento
eletto con il sistema proporzionale, portava alla
"lottizzazione" degli spazi e delle persone.
Oggi, con il sistema maggioritario, significa una specie
di "dittatura della maggioranza", che
trasforma il servizio pubblico in servizio del Governo.
I fatti più recenti, sommariamente elencati fino a qui, mostrano come
la situazione sia giunta a un punto di rottura. Insomma,
siamo alla resa dei conti. O si cambia, o il grande
patrimonio della Rai andrà disperso.
E' necessario mettere mano a una seria riforma dell'ente, che lasci la
politica fuori dai cancelli di viale Mazzini, per
ridisegnare una funzione di servizio pubblico adeguata
al nuovo contesto dei media.
E' molto difficile che questo possa avvenire mentre il
signore della televisione privata è capo della
maggioranza parlamentare e del Governo. Ma un progetto
per il futuro si deve impostare oggi. Si deve immaginare
un modello realistico, da realizzare nel momento in cui
sarà possibile. Sperando che questo momento non arrivi
troppo tardi.
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