Cambia il Testo
unico della radiotelevisione, cioè il decreto legislativo 31 luglio
2005, n. 177, figlio della legge Gasparri che ha disegnato l'attuale assetto del
nostro sistema. Il testo cambia perché cambia
l'universo dei media: una direttiva europea prende atto
della nuova situazione e aggiorna il quadro normativo
comunitario.
La chiave per capire il cambiamento è nel titolo: nella
prima versione la direttiva
89/552/CEE del Consiglio, del 3 ottobre 1989, relativa
al coordinamento di determinate disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative degli Stati
Membri concernenti l'esercizio delle attività
televisive era intitolata "Televisione senza
frontiere". Ora, dopo la direttiva
2007/65/CE si
intitola "Direttiva sui servizi di media
audiovisivi" e comprende una serie di disposizioni
che riguardano anche l'internet.
Il termine per l'attuazione da parte degli Stati
membri scadeva il 19 dicembre 2009. Il nostro governo ha
licenziato il testo del decreto legislativo il 17,
dunque l'attuazione effettiva avverrà con qualche
ritardo, perché l'articolato deve passare al vaglio
delle competenti commissioni parlamentari. Ma il fatto è che che il Governo è andato molto più in là del
semplice recepimento delle disposizioni comunitarie. Ha
approfittato dell'occasione per modificare in più punti
il testo unico, anche con disposizioni che potranno
avere effetti nefasti sull'assetto del sistema
radiotelevisivo italiano.
Sono molti i passaggi in cui il decreto di attuazione
peggiora le norme attuali, approfittando dei margini di
autonomia che la direttiva lascia agli Stati membri: l'inclusione dell'internet nelle regole sulla TV pone
pesanti interrogativi sul futuro della responsabilità
dei provider; i "diritti residui" sulle
produzioni televisive restano alle emittenti, invece che
tornare agli autori; sono tagliate le quote
obbligatorie di produzioni italiane, anche a carico del
servizio pubblico.
Qui limitiamo l'analisi a due punti significativi, ahinoi,
dell'anomalia italiana. Il primo è una polpetta
avvelenata contro le regole antitrust, mascherata con
una specie di gioco di parole. Vediamo come.
Nelle "definizioni" del testo ora all'esame
della Camera dei deputati ce n'è una nuova:
g) "palinsesto televisivo" e "palinsesto
radiofonico", l'insieme, predisposto da
un'emittente televisiva o radiofonica, analogica o
digitale, di una serie di programmi unificati da un
medesimo marchio editoriale e destinato alla fruizione
del pubblico, diverso dalla trasmissione differita dello
stesso palinsesto, dalle trasmissioni meramente
ripetitive, ovvero dalla prestazione, a pagamento, di
singoli programmi, o pacchetti di programmi..."
"Diverso dalla trasmissione differita dello
stesso palinsesto" dovrebbe significare che, tanto per fare un esempio,
Rete 4 e Rete 4+1 sono la stessa cosa poiché diffondono lo stesso
palinsesto. Sembra non contare il fatto che, nella
sostanza, con la formula x+1 l'offerta di programmi
raddoppia: lo spettatore può scegliere tra il contenuto
corrente e quello di un'ora prima. Senza contare che
vengono impegnati due canali al posto di uno.
Ora la domanda è quale sia il senso di questa innovazione normativa.
La chiave viene dalla definizione successiva, nella
quale si legge:
h) ...All'interno del presente testo unico,
l'espressione "programmi televisivi" deve
intendersi equivalente a quella di "palinsesti
televisivi" di cui alla lettera g). Applichiamo
al testo vigente questa disposizione, sorvolando sul perché
il decreto non provveda direttamente a modificarlo nei punti in cui ricorre l'espressione. Leggiamo i commi 7 e 8 dell'art.
43 (Posizioni
dominanti nel sistema integrato delle comunicazioni), non
modificati dal testo del decreto legislativo in
discussione, sostituendo
l'espressione "programmi" con
"palinsesti":
7. All'atto della completa attuazione del piano
nazionale di assegnazione delle frequenze radiofoniche e
televisive in tecnica digitale, uno stesso fornitore di
contenuti, anche attraverso società qualificabili come
controllate o collegate ... non può essere titolare di
autorizzazioni che consentano di diffondere più del 20
per cento del totale dei palinsesti televisivi
o più del 20 per cento dei programmi radiofonici
irradiabili su frequenze terrestri in ambito nazionale
mediante le reti previste dal medesimo piano.
8. Fino alla completa attuazione del piano nazionale
di assegnazione delle frequenze televisive in tecnica
digitale, il limite al numero complessivo di palinsesti
per ogni soggetto e' del 20 per cento ed e' calcolato
sul numero complessivo dei palinsesti televisivi
concessi o irradiati anche ai sensi dell'articolo 23,
comma 1, della legge n. 112 del 2004, in ambito
nazionale su frequenze terrestri indifferentemente in
tecnica analogica o in tecnica digitale. I palinsesti televisivi
irradiati in tecnica digitale possono
concorrere a formare la base di calcolo ove raggiungano
una copertura pari al 50 per cento della popolazione. Al
fine del rispetto del limite del 20 per cento non sono
computati i palinsesti che costituiscono la
replica simultanea di programmi irradiati in tecnica
analogica. Il presente criterio di calcolo si applica
solo ai soggetti i quali trasmettono in tecnica digitale
palinsesti che raggiungono una copertura pari al
50 per cento della popolazione nazionale.
A questo punto sembra chiaro il significato
dell'introduzione della definizione di
"palinsesto" e della contorta precisazione
sulla trasmissione in differita: la presenza di canali
"ripetitivi" non influisce sul computo dei
palinsesti trasmessi da uno stesso fornitore di
contenuti, ai fini del divieto di posizioni dominanti.
Non occorre un grande acume per capire che questa
novità favorisce Mediaset ai danni della concorrenza,
perché le consente di raddoppiare la propria offerta
senza cadere nell'abuso di posizione dominante. E' difficile capire se
oggi la doppia offerta di Rete 4,
Canale 5 e Italia 1, in aggiunta agli altri canali
Mediaset, ecceda il 20 per cento del totale
dei programmi irradiabili sul digitale terrestre in
ambito nazionale, perché nelle regioni "all
digital" regna ancora il caos. E comunque i
cambiamenti sono già previsti, fino alla fine del 2012.
Ma, a switch-off
compiuto, la nuova norma porterebbe
un non trascurabile vantaggio all'azienda del Presidente
del Consiglio, consentendole di irradiare più canali di
quelli consentiti dalla normativa attuale.
E' utile aggiungere che la direttiva europea non
contiene alcuna disposizione di questo segno. Un'altra
disposizione in odore di anomalia riguarda la
pubblicità ed è contenuta nell'art. 12 (Limiti di
affollamento) dello schema di decreto legislativo: 5.
La trasmissione di spot pubblicitari televisivi da parte
di emittenti a pagamento, anche analogiche, non può
eccedere, per l'anno 2010 il 16 per cento, per l'anno
2011 il 14 per cento, e, a decorrere dall'anno 2012, il
12 per cento di una determinata e distinta ora di
programmazione... Il limite attuale, secondo l'art. 38
dell'attuale testo unico, è del 18 per cento e riguarda
indistintamente le emittenti in chiaro e a pagamento.
Significa, per Sky, un taglio di un terzo in tre anni
degli introiti pubblicitari. E' da notare che non è una
misura imposta dalla direttiva europea, che su questa
materia lascia agli Stati membri una notevole libertà
di azione. Che l'affollamento pubblicitario sui canali
a pagamento sia ai limiti della sopportabilità è un
dato di fatto e la sua riduzione è chiesta da più
parti. Se limiti più stretti fossero introdotti, magari
con qualche compensazione, da un governo al di sopra
delle parti (televisive), sarebbe accettabile e forse
benvenuta. Ma qui viene imposta dal padrone della
concorrenza, nella sua veste di capo del Governo, e
appare come un'altra polpetta avvelenata.
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