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Televisione

Il successo di Santoro chiama a una riflessione sulla nuova TV

La Rai "a pezzi" e il futuro del servizio pubblico

Se "Servizio pubblico" è un servizio pubblico, allora quest'ultimo deve essere ripensato anche in funzione dei nuovi media. La novità è che non serve più un broadcaster nazionale per raggiungere in una serata milioni di spettatori.

07.11.11

Rileggiamo l'articolo di tre settimane fa, "Servizio pubblico", il significato di un'idea. E aggiungiamo qualche motivo di riflessione, perché il Servizio pubblico di Michele Santoro è partito giovedì scorso. Con un grande quanto prevedibile successo: oltre tre milioni di spettatori, tra Sky, televisioni locali e web. Non è la novità assoluta che cambia la televisione, come ha detto qualcuno. Nel maggio dell'anno scorso Raiperunanotte aveva avuto risultati simili (per chi non lo ricordasse, era un Annozero in piazza, perché la Rai aveva dovuto subire l'assurda decisione di spegnere i talk show durante la campagna elettorale).

Dunque la formula funziona: si può raggiungere un pubblico molto vasto anche senza passare per le antenne di un'emittente nazionale. Fra l'altro, l'ascolto di Servizio pubblico dal satellite di Sky si è rivelato marginale. Niente di strano, se si considera che Sky è un'emittente a pagamento e che il suo target è fatto soprattutto di appassionati di sport e di cinema. Comunque è un dato interessante per capire la situazione.

La novità è questa: un evento interessante, in grado di richiamare un pubblico numeroso, può essere diffuso con successo da molte TV commerciali e siti web. Il grande broadcaster non serve più. E' una svolta decisiva. La televisione diventa "crossmediale". E dilaga anche sui social network. Così raggiunge anche quel pubblico giovane che non guarda più la televisione tradizionale. Ma a questo punto anche la nozione di "servizio pubblico", inteso come compito di un ente apposito, può essere messa in discussione.

Ora il punto è: il Servizio pubblico di Santoro è un "servizio pubblico"? Si pensa che tra i compiti del servizio pubblico (ormai ex-radiotelevisivo) ci sia quello di trasmettere contenuti che i privati non hanno interesse a trasmettere. Evidentemente non è questo il caso, perché un programma che fa milioni di spettatori può mantenersi benissimo con la pubblicità (infatti, perdendo Santoro la Rai ha perso una bella fetta di introiti).
Invece, se il servizio pubblico deve dare spazio a tutte le voci, e oggi non lo fa, allora l'idea di Santoro è giusta. 

Questo può avere conseguenze molto pesanti sul futuro del servizio pubblico. Infatti in questo periodo ritornano con insistenza le proposte di privatizzazione della Rai. Una Rai che va in pezzi, sempre più in cattive acque, che tra un po' si potrebbe acquistare a un prezzo da fallimento. Il che fa sospettare che l'opera di smantellamento dell'azienda non sia motivata solo da questioni politiche.

Alla proposta di privatizzazione totale dell'azienda di viale Mazzini si affianca da tempo quella di dividerla in due: una parte di servizio pubblico, finanziato dal canone o comunque dalla collettività, e una parte commerciale, in concorrenza con le emittenti private.
L'idea è stata rilanciata da Matteo Renzi nelle cento proposte (non sono un po' troppe?) lanciate nella manifestazione alla stazione Leopolda di Firenze. Si legge: 

16. Cambiare la Rai per creare concorrenza sul mercato tv e rilanciare il Servizio Pubblico. Oggi la Rai ha 15 canali, dei quali solo 8 hanno una valenza “pubblica”. Questi vanno finanziati esclusivamente attraverso il canone. Gli altri, inclusi Rai 1 e Rai 2, devono essere da subito finanziati esclusivamente con la pubblicità, con affollamenti pari a quelli delle reti private, e successivamente privatizzati. Il canone va formulato come imposta sul possesso del televisore, rivalutato su standard europei e riscosso dall’Agenzia delle Entrate. La Rai deve poter contare su risorse certe, in base ad un nuovo Contratto di Servizio con lo Stato.

17. Fuori i partiti dalla Rai. La governance della Tv pubblica dev’essere riformulata sul modello BBC (Comitato Strategico nominato dal Presidente della Repubblica che nomina i membri del Comitato Esecutivo, composto da manager, e l’Amministratore Delegato). L’obiettivo è tenere i partiti politici fuori dalla gestione della televisione pubblica
.

Proposte alquanto confusionarie, con un eccesso di iniziali maiuscole che offende l'ortografia della lingua italiana. Il modello BBC, invocato da tutti quelli che sognano una TV pubblica indipendente, comprende canali di servizio pubblico e canali commerciali - pubblici, non privati - che possono contribuire a finanziare la parte di servizio pubblico. L'idea del canone come imposta di possesso sui televisori è nipote del Regio decreto-legge 21 febbraio 1938, n. 246. Oggi che tutti dispongono di apparecchi in grado di ricevere le trasmissioni, PC e telefonini compresi, è evidente che si deve trovare una soluzione diversa, anche per combattere l'evasione.

Nessuno tiene conto del fatto che quando incominceranno le trasmissioni regolari in alta definizione - forse fra un paio di anni - si scoprirà che per ogni canale occorre più banda di quella che oggi si usa per comprimere molte emittenti in un MUX. Inoltre il numero delle frequenze disponibili per i servizi radiotelevisivi sta per subire sensibili tagli. E quindi né la Rai né altre emittenti potranno più trasmettere tanti canali come oggi. Sono comunque troppi già adesso, considerando i costi e la difficoltà di produrre o acquistare contenuti per giustificarne l'esistenza. 

E' necessario fare chiarezza su questi punti, anche perché non è così lontano il 2016, quando scadrà la concessione del servizio pubblico alla Rai. Allora potrebbe succedere di tutto, anche che i compiti di servizio pubblico siano assegnati a una o più emittenti commerciali. Dimenticando che i "compiti" sono una cosa e la "missione" è cosa ben diversa. E che la missione commerciale non è compatibile con la missione pubblica. Che la Rai ha svolto ha svolto bene fino a quando non è stata messa in concorrenza con i privati, ma che in parte svolge ancora oggi, con programmi di alta qualità che le emittenti commerciali non si possono permettere.

Così ritorniamo alla domanda se trasmissioni come quella di Santoro siano un servizio pubblico, o semplicemente programmi di alta qualità, che attraggono milioni di spettatori e che qualsiasi emittente può produrre. La risposta è nei fatti, anzi nei numeri, che sanciscono il successo di un'idea a prescindere dal marchio di fabbrica. Ma un servizio pubblico che si rispetti di queste trasmissioni  deve cercare di farne il più possibile, non di cancellarle perché presentano un quadro "scomodo" della realtà.

Ora, mentre sembra che sia sul punto di finire l'era del conflitto di interessi e del potere quasi totale sulla televisione, è il momento di aprire una discussione sul futuro del servizio dei media pubblici in Italia. Non solo della televisione, perché la televisione che bene o male ci ha fatto crescere non c'è più (con buona pace degli "innovatori" della Leopolda). E i nuovi media pongono problemi nuovi.

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