Rileggiamo l'articolo di tre settimane fa, "Servizio pubblico",
il significato di un'idea. E aggiungiamo qualche
motivo di riflessione, perché il Servizio pubblico
di Michele Santoro è partito giovedì scorso. Con un
grande quanto prevedibile successo: oltre tre milioni di
spettatori, tra Sky, televisioni locali e web. Non è la
novità assoluta che cambia la televisione, come ha
detto qualcuno. Nel maggio dell'anno scorso Raiperunanotte
aveva avuto risultati simili (per chi non lo ricordasse,
era un Annozero in piazza, perché la Rai aveva
dovuto subire l'assurda decisione di spegnere i talk
show durante la campagna elettorale).
Dunque la formula funziona: si può raggiungere un
pubblico molto vasto anche senza passare per le antenne
di un'emittente nazionale. Fra l'altro, l'ascolto di Servizio
pubblico dal satellite di Sky si è rivelato
marginale. Niente di strano, se si considera che Sky è
un'emittente a pagamento e che il suo target è fatto
soprattutto di appassionati di sport e di cinema.
Comunque è un dato interessante per capire la
situazione.
La novità è questa: un evento interessante, in
grado di richiamare un pubblico numeroso, può essere
diffuso con successo da molte TV
commerciali e siti web. Il grande broadcaster non
serve più. E' una svolta decisiva. La
televisione diventa "crossmediale". E dilaga
anche sui social network. Così raggiunge anche quel
pubblico giovane che non guarda più la televisione
tradizionale. Ma a questo punto anche la nozione di
"servizio pubblico", inteso come compito di un
ente apposito, può essere messa in discussione.
Ora il punto è: il Servizio pubblico di
Santoro è un "servizio pubblico"? Si pensa
che tra i compiti del servizio pubblico (ormai ex-radiotelevisivo) ci sia quello di trasmettere
contenuti che i privati non hanno interesse a
trasmettere. Evidentemente non è questo il caso,
perché un programma che fa milioni di spettatori può
mantenersi benissimo con la pubblicità (infatti,
perdendo Santoro la Rai ha perso una bella fetta di
introiti).
Invece, se il servizio pubblico deve dare spazio a tutte
le voci, e oggi non lo fa, allora l'idea di Santoro è
giusta.
Questo può avere conseguenze molto pesanti sul
futuro del servizio pubblico. Infatti in questo periodo
ritornano con insistenza le proposte di privatizzazione
della Rai. Una Rai che va in pezzi, sempre più in cattive
acque, che tra un po' si potrebbe acquistare a un prezzo
da fallimento. Il che fa sospettare che l'opera di
smantellamento dell'azienda non sia motivata solo da
questioni politiche.
Alla proposta di privatizzazione totale
dell'azienda di viale Mazzini si affianca da tempo
quella di dividerla in due: una parte di servizio
pubblico, finanziato dal canone o comunque dalla
collettività, e una parte commerciale, in concorrenza
con le emittenti private.
L'idea è stata rilanciata da Matteo Renzi nelle cento
proposte (non sono un po' troppe?) lanciate nella
manifestazione alla stazione Leopolda di Firenze. Si legge:
16. Cambiare la Rai per creare concorrenza sul mercato tv e rilanciare il Servizio Pubblico. Oggi la Rai ha 15 canali, dei quali solo 8 hanno una valenza “pubblica”. Questi vanno finanziati esclusivamente attraverso il canone. Gli altri, inclusi Rai 1 e Rai 2, devono essere da subito finanziati esclusivamente con la pubblicità, con affollamenti pari a quelli delle reti private, e successivamente privatizzati. Il canone va formulato come imposta sul possesso del televisore, rivalutato su standard europei e riscosso dall’Agenzia delle Entrate. La Rai deve poter contare su risorse certe, in base ad un nuovo Contratto di Servizio con lo Stato.
17. Fuori i partiti dalla Rai. La governance della Tv pubblica dev’essere riformulata sul modello BBC (Comitato Strategico nominato dal Presidente della Repubblica che nomina i membri del Comitato Esecutivo, composto da manager, e l’Amministratore Delegato). L’obiettivo è tenere i partiti politici fuori dalla gestione della televisione
pubblica.
Proposte alquanto confusionarie, con un eccesso di
iniziali maiuscole che offende l'ortografia della lingua
italiana. Il modello BBC, invocato da tutti quelli che
sognano una TV pubblica indipendente, comprende canali
di servizio pubblico e canali commerciali - pubblici,
non privati - che possono
contribuire a finanziare la parte di servizio pubblico. L'idea del
canone come imposta di possesso sui televisori è nipote del Regio decreto-legge 21 febbraio
1938, n. 246. Oggi che tutti dispongono di apparecchi in
grado di ricevere le trasmissioni, PC e telefonini
compresi, è evidente che si deve trovare una soluzione
diversa, anche per combattere l'evasione.
Nessuno tiene conto del fatto che quando
incominceranno le trasmissioni regolari in alta
definizione - forse fra un paio di anni - si scoprirà
che per ogni canale occorre più banda di quella che
oggi si usa per comprimere molte emittenti in un MUX.
Inoltre il numero delle
frequenze disponibili per i servizi radiotelevisivi sta
per subire sensibili tagli. E
quindi né la Rai né altre emittenti potranno più
trasmettere tanti canali come oggi. Sono comunque troppi
già adesso, considerando i costi e la difficoltà di produrre o
acquistare contenuti per giustificarne
l'esistenza.
E' necessario fare chiarezza su questi punti, anche perché non è
così lontano il 2016, quando scadrà la concessione del
servizio pubblico alla Rai. Allora potrebbe succedere di
tutto, anche che i compiti di servizio pubblico siano
assegnati a una o più emittenti commerciali.
Dimenticando che i "compiti" sono una cosa e
la "missione" è cosa ben diversa. E che la
missione commerciale non è compatibile con la missione
pubblica. Che la Rai ha svolto ha svolto bene fino a
quando non è stata messa in concorrenza con i privati,
ma che in parte svolge ancora oggi, con programmi di
alta qualità che le emittenti commerciali non si
possono permettere.
Così ritorniamo alla domanda se trasmissioni
come quella di Santoro siano un servizio pubblico, o
semplicemente programmi di alta qualità, che attraggono
milioni di spettatori e che qualsiasi emittente può
produrre. La risposta è nei fatti, anzi nei numeri, che
sanciscono il successo di un'idea a prescindere dal
marchio di fabbrica. Ma un servizio pubblico che si
rispetti di queste trasmissioni deve cercare di farne il più possibile, non di
cancellarle perché presentano un quadro
"scomodo" della realtà.
Ora, mentre sembra che sia sul punto di finire l'era
del conflitto di interessi e del potere quasi totale
sulla televisione, è il momento di aprire una
discussione sul futuro del servizio dei media pubblici
in Italia. Non solo della televisione, perché la
televisione che bene o male ci ha fatto crescere non
c'è più (con buona pace degli "innovatori"
della Leopolda). E i nuovi media pongono problemi nuovi.
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