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2 luglio 1973. Il Messaggero, il divorzio e i due
direttori |
Fotografie inedite di una pagina
dimenticata del giornalismo italiano |
2 luglio 2020 |
«Hanno licenziato il direttore! Sciopero!
Sciopero!». Il grido riecheggia nei corridoi
dell'antico palazzo del Messaggero. E' il
pomeriggio del 2 luglio 1973.
Sono davanti al grande Gianni Melidoni, capo della
redazione sport, che mi ha appena comperato un
servizio. Ci guardiamo increduli.
Licenziato il direttore?
Scendiamo di corsa nell'ufficio grafico, il cuore pulsante del
giornale (oggi si
chiama desk). C'è trambusto. Si discute, si disegnano
manifesti. E' pronto un cartello con la scritta
"Barzini" disegnata come un fascio littorio. Che
cosa è successo?
E' successo che Ferdinando Perrone, presidente
e proprietario con
le due sorelle del 50
per cento della casa editrice, ha venduto la sua quota all'editore
Rusconi e licenziato il direttore, il cugino
Alessandro. Questi, a sua volta con
due sorelle, è proprietario dell'altra metà. E,
da diversi anni, fa un giornale innovativo,
bellissimo, decisamente orientato a sinistra. Mentre
Ferdinando e l'acquirente Rusconi sono campioni
della destra.
Rusconi ha nominato direttore il noto giornalista Luigi Barzini
iunior. E Barzini si è presentato
all'ingresso del palazzo di via del Tritone per insediarsi sulla
poltrona di direttore, scortato dal celebre avvocato Pietro
Nuvolone. |
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Ma Barzini non riesce neanche a raggiungere la
redazione, al secondo piano. Alessandro Perrone lo riceve, con la
sua impeccabile cortesia, negli uffici della pubblicità, al piano
terra. Due stanze più in là, l'avvocato Fabrizio Menghini, capo
della cronaca giudiziaria, coordina la controffensiva legale.
(Nella foto, da sinistra, il capo della pagina politica Felice La
Rocca, al telefono Fabrizio Menghini e a destra il grafico
Piergiorgio Maoloni). Il contesto: incombe il referendum per l'abrogazione della legge sul
divorzio. Il Messaggero appoggia il fronte divorzista, il fronte
del "NO". E' un giornale molto seguito, una spina nel fianco della
Democrazia Cristiana e della destra
antidivorzista.
Il licenziamento del
direttore è l'ultimo atto di un dissidio che dura da anni. La
redazione è divisa in due: da una parte i sostenitori di
Ferdinando, (detto "l'Ingegnere") che è presidente
della società, dall'altra i fedelissimi di Alessandro, che sono la maggioranza. Sono questi che si
mobilitano in difesa del direttore, insieme ai poligrafici. Si raccolgono nell'atrio, attaccano
cartelli. Altri restano alle scrivanie, molti aspettano di capire chi
vincerà.
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Nell'atrio c'è attesa, aria di cospirazione, toni bellicosi. Toni che ricordano il '68, come quel "BARZINI GO HOME" che riecheggia le scritte "YANKEE GO HOME" contro la guerra in Viet Nam (che nel 1973 non è finita e durerà ancora due anni).
Si difende non solo l'indipendenza, ma anche un modello unico di giornale.
Alessandro Perrone ("Sandrino" per gli amici, "il Principe" per la redazione) dirige
un quotidiano che dal 1968 ha rivoluzionato il modello tradizionale, fatto di colonne di piombo e qualche foto qua e là.
L'art director Pasquale Prunas e i grafici capeggiati da Piergiorgio Maoloni disegnano pagine che comunicano per immagini prima che con le parole scritte. Al Messaggero collaborano i migliori fotografi italiani. Il giornale supera la dimensione locale, fa concorrenza ai grandi quotidiani nazionali.
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La notizia della crisi al Messaggero corre tra le redazioni
(Momento Sera è a un passo, Il Tempo poco più in là). Una piccola
folla si assiepa davanti all'ingresso, insieme ai redattori e ai
poligrafici in sciopero.
È chiaro a tutti che non si tratta di una semplice lite tra due ricchi
cugini. È una partita molto più grossa. Sono gli anni '70, anni di
passioni politiche e di grande crescita civile: c'è lo Statuto dei
lavoratori, c'è la legge sul divorzio, all'orizzonte si profila quella
sull'aborto. Ma sono anche gli anni delle Brigate Rosse.
Li chiameremo poi "anni di piombo", ma non furono solo
piombo. |
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Molti fotografi accorrono in via del Tritone e riprendono i fatti (qui
a destra Sandro Becchetti, reporter e ritrattista straordinario, uno dei migliori fotografi di quel
periodo). Ma nessuna immagine sarà pubblicata nei giorni successivi, perché viene esercitata una stretta censura. Il capo-archivista del giornale chiama i reporter e acquista senza badare a spese tutte le fotografie scattate in quelle ore, negativi compresi.
E' facile capire che la nuova (mezza) proprietà non vuole che la vicenda del Messaggero diventi un
"caso" che può minare la credibilità del giornale. E non solo: le foto potranno essere utili in vista di probabili processi.
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La trattativa è lunga. Dagli uffici
della pubblicità filtrano poche notizie.
Scende la sera e in via del Tritone la folla è cresciuta, blocca il traffico.Finalmente arriva la
voce che la trattativa è finita e Barzini è
sconfitto. Risuonano applausi. Ma la tensione resta. Si capisce che
la vendita di metà del Messaggero a un editore di destra non può
restare senza conseguenze per il giornale e per la redazione.
Ma non è il momento delle riflessioni, si aspetta l'uscita degli
"invasori" respinti.
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Luigi Barzini esce al braccio del suo
avvocato ed è coperto di insulti. Forse nella calca riceve qualche
spintone.
Come altri fotografi, scatto qualche istantanea alla
cieca, con la macchina alta sopra la testa. Solo dopo avere stampato
le foto scopro che cosa ho ripreso nella bolgia: sembra che Ruggero Guarini, capo delle pagine
culturali e fedelissimo di Alessandro Perrone, cerchi di aggredire il direttore mancato. Qualcuno lo
trattiene.
(Non ricordo chi è il barbuto che placca Guarini. E, a quasi
mezzo secolo di distanza, potrei ricordare male qualche dettaglio o
confondere qualche nome.
Sarò grato a chi voglia correggere o completare i miei
ricordi).
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Ecco il dettaglio
dell'immagine precedente. Oggi posso dire che mi ha cambiato la
vita. Sembra infatti che solo io abbia colto questo momento, tra
tanti fotografi presenti (ma dovrebbe esserci almeno il
filmato di Fabrizio Zampa, che si vede in posizione favorevole con
una cinepresa Super8).
La foto sarebbe un elemento di prova nelle prevedibili cause
legali che seguiranno i fatti del 2 luglio. Il capo archivista la
osserva a lungo, insiste, è pronto a pagare profumatamente tutto il servizio, negativi compresi.
Sono disposto a vendere le foto, ma non i negativi. E questo rifiuto
segna la fine della mia vagheggiata carriera nel quotidiano di via del
Tritone.
Però, se avessi ceduto i negativi, oggi non potrei documentare
un fatto di cronaca quasi dimenticato, eppure significativo nella
storia del nostro Paese.
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Nei giorni che seguono
un pezzo d'Italia si mobilita in difesa di Alessandro Perrone e
dell'indipendenza del Messaggero. Da subito sembra chiaro (ma non è
mai stato provato) che dietro "l'operazione Messaggero" ci sia Amintore
Fanfani, ispiratore e guida degli anti-divorzisti: per descrivere la
situazione politica si inventa la definizione di "Fanfascismo".
Marco Pannella si mette alla testa delle manifestazioni
pro-Messaggero e la sede del Partito Radicale, in via di Torre
Argentina 18, diventa il quartier generale delle iniziative in difesa della
libertà del giornale. Nella foto qui a sinistra una riunione, con
il famoso giornalista della Rai Ruggero Orlando al microfono.
All'altra estremità del tavolo si riconosce l'avvocato Mauro Mellini,
fondatore delle LID, Lega italiana per il divorzio.
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Pochi giorni dopo i fatti del
2 luglio piazza Navona è gremita, in difesa del Messaggero e
dell'indipendenza della stampa. Parlano Marco Pannella,
Ruggero Orlando, Lucio Manisco (corrispondente del giornale dagli
USA), Loris Fortuna (primo firmatario, con Antonio Baslini, della
legge sul divorzio), Aldo Tortorella (PCI) e tanti altri. È
una battaglia perduta. Un anno dopo, nella stessa piazza si
festeggerà la vittoria del "NO" al referendum, ma Alessandro
Perrone dovrà vendere alla Montedison (azienda in mano pubblica) la sua quota del Messaggero.
Si chiuderà un'epoca, un capitolo straordinario della storia del
giornalismo italiano.
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