Ogni marca di fotocamere digitali ha un'app dedicata, che offre diverse funzioni: molto utile è l'invio a un sistema remoto delle foto appena scattate.
In casa Nikon l'app SmartBridge è il solo mezzo per controllare a distanza la D3500, ma è inutilmente complicata da usare.
Dopo due ore di inutili tentativi, ho rinunciato ad accoppiarla alla D7500 (e non sono un novellino delle tecnologie). Il conflitto tra Bluetooth e Wi-Fi sembra insanabile. 

Il progresso: per scattare una foto, telefona alla fotocamera

(C'era una volta lo "scatto flessibile")

17 gennaio 2022
Mi serviva una reflex abbastanza piccola e leggera da portare in viaggio senza problemi. Dunque una "mezzoformato" (leggi APS-C), perché con un solo obiettivo zoom abbastanza esteso può fare quasi tutto. La più adatta mi era sembrata la D3500, la entry level di Nikon.
Primo viaggio, tutto bene (o quasi). Poi mi viene la voglia di fare qualche foto notturna. Servono un treppiede e uno scatto a distanza, per non muovere l'apparecchio con la pressione sul pulsante. Nessun problema per il treppiede, ma lo scatto a filo avrà lo stesso attacco delle altre Nikon recenti? Sorpresa: non c'è l'attacco per un telecomando a filo. Userò quello a infrarossi, se è compatibile. Seconda sorpresa: non c'è il sensore per il telecomando a infrarossi. Ma allora, come si fa a fotografare senza il rischio di muovere l'apparecchio schiacciando il bottone?

RTFM, ovvero Read The Fucking Manual, Leggi il Fottuto Manuale, dicono i saccenti delle tecnologie. Ma nella scatola il Fottuto Manuale non c'è. E' solo online e non è stampabile (con l'apparecchio ti danno una specie di bugiardino da medicinale, non ci si capisce nulla). Finalmente scopro che far scattare l'apparecchio a distanza gli devo... telefonare. Cioè devo usare uno smartphone (in italiano: furbòfono), sul quale installare l'apposita app. E allora SCARICALÀPP!
Fatto. Quella di Nikon si chiama SnapBridge e, come tutte le app, non si fa i fatti suoi e raccoglie dati personali a man salva (per di più non compare l'informativa di legge). L'accoppiamento via Bluetooth è inutilmente complicato, snervante.
Ma così va il mondo di oggi: il furbofono serve a fare qualsiasi cosa, anche operazioni che si potrebbero fare in modo più semplice con dispositivi per nulla "intelligenti".

Indietro nel tempo. Dall'alto il collegamento per il telecomando della Nikon F3 motorizzata, in mezzo quello delle prime Nikon digitali, in basso l'attuale (quando c'è).

Una Icarette 946 del 1912 con montato lo "scatto flessibile", un accessorio semplicissimo, di uso universale. Tanto universale che lo ritroviamo, qui a destra, su una Nikon F3 del 1980. La filettatura conica è stata uno standard per un secolo. Veniva usata anche per le cineprese.

 

Il problema è elementare: come far scattare l'otturatore a distanza, in particolare per evitare vibrazioni dell'apparecchio montato su un treppiede, quando si usano teleobiettivi o in caso di lunghe esposizioni.
Nella storia degli arnesi fotografici ce n'è uno, semplicissimo, che per almeno un secolo è stato di uso quotidiano per tutti i fotografi: lo scatto flessibile. Le foto spiegano di che si tratta meglio delle parole. La caratteristica essenziale è il collegamento alla macchina per mezzo di una filettatura conica standard, comune alla maggior parte delle fotocamere di qualsiasi tipo, professionali e amatoriali. Solo le Leica con l'attacco degli obiettivi a vite usavano un attacco diverso, adottato poi dalle Nikon F e F2. Le Leica a baionetta del secondo dopoguerra e, nel 1980, la Nikon F3 si adeguarono al resto del mondo. In ogni caso, un semplice adattatore consentiva di usare gli scatti flessibili standard anche con le macchine che usavano la filettatura tipo Leica.

Ma poi arrivarono le fotocamere con il motore elettrico. Avevano il vantaggio di poter scattare più foto a distanza, senza dover trascinare la pellicola e armare l'otturatore ogni volta. Bastava un contatto elettrico momentaneo, un pulsante qualsiasi. Ma qui incominciarono i problemi. Per esempio, il motore della della Nikon F aveva un portabatterie da portare a tracolla (sul quale era posto un secondo pulsante di scatto), collegato al motore con uno spinotto proprietario. Due di questi spinotti erano necessari anche per interporre tra il motore e il portabatterie una "cassetta relay", alla quale si potevano collegare uno scatto a distanza (un pulsante qualsiasi) o altri apparecchi, come un temporizzatore o un radiocomando.
Un sistema decisamente scomodo, e per di più costoso, perché era obbligatorio usare i componenti venduti dalla casa di Tokyo; non c'erano ancora gli accessori "cinesi" di oggi.

Quando si dice "standard": lo scatto flessibile della foto a sinistra, montato su una Nikon F3 del 1980, costruita fino al 2000. Sempre lo stesso attacco, per le fotocamere professionali di grande formato come  per le più semplici amatoriali.
Ci sembrava comodo, il motore F36 con il "portabatterie senza cavo". Aveva solo il problema della procedura per caricare la pellicola, che richiedeva di staccare tutto il blocco dorso-motore-portabatterie. Con una mano tieni il corpo, si diceva, con l'altra tieni il dorso e con la terza metti il rullino...
Non c'è dubbio che il progresso ha migliorato, se non altro, l'ergonomia.
(Immagine da Il libro Nikon del 1970)
Lo scatto flessibile in versione moderna: a filo o a raggi infrarossi (quando la fotocamera lo consente). Ma non c'è uno standard comune, a volte neanche tra apparecchi della stessa marca.
Gli spinotti multipolari "jack micro" sono economici e di uso comune. Potrebbero costituire uno standard per i comandi a distanza, ma sono adottati da pochi fabbricanti. Hanno il difetto di non essere smart, ovvero "intelligenti", e di non catturare dati personali degli utenti.

Poi, negli USA, qualcuno costruì un portabatterie artigianale, da attaccare sotto il motore. La casa madre lo adottò nel 1966. E fu il celebre "portabatterie senza cavo". Un brutto accrocco tutto spigoli, dall'apparenza inaffidabile (ma di fatto quasi indistruttibile). La combinazione fu per una ventina di anni "il" motore del reportage e di qualsiasi altro genere di fotografia su pellicola da 35mm. 
Oggi quel portabatterie può essere preso come esempio di soluzione semplice quanto efficace: l'attacco per lo scatto a distanza era una banale presa domestica americana per la corrente a 110V, reperibile ovunque a un prezzo insignificante. Consentiva di fabbricare in casa qualsiasi tipo di telecomando (come quello nella foto a destra, sotto), mentre per l'alimentazione esterna bastava un comunissimo jack, compreso nella confezione.

Con la diffusione del digitale i produttori hanno dimenticato la parola "standard". Ognuno va per conto suo. Ogni linea di prodotti, spesso anche dello stesso marchio, ha il suo formato RAW, i suoi attacchi, il suo software di elaborazione. E adesso anche le sue infernali app. Eppure per i telecomandi si potrebbero usare gli spinotti "jack" multipolari universalmente diffusi per cuffie, microfoni e altri dispositivi (si trovano solo su qualche fotocamera o videocamera).
Ci sono anche i telecomandi a raggi infrarossi, comodi ed economici (soprattutto i sostituti "cinesi", identici agli originali). Ma anche qui ogni costruttore ha il suo non-standard.

Le inutili complicazioni non finiscono qui: ci sono anche fotocamere che non dispongono di alcuna possibilità di telecomando, né via cavo né a infrarossi, come la Nikon D3500. Per farle funzionare a distanza occorrono le app da scaricare e installare sul furbofono (con i relativi problemi di violazioni dei dati personali – ne parliamo alla fine).
Siamo all'assurdo: in sostanza, per far scattare la fotocamera montata sul treppiede dalla distanza di meno di un metro, le devo telefonare!

E' vero, le app dei furbofoni hanno hanno anche la funzione, a volte molto utile, di trasmettere le foto appena scattate in qualsiasi parte del mondo. Sono gli indiscutibili vantaggi del progresso digitale.
Ma quanti fotografi sfruttano le tante innovazioni offerte dalla tecnologia informatica? O semplicemente le conoscono, ma trovano troppo complicato servirsene? Il manuale della Nikon F2 (il primo che ho tradotto in italiano, in tempi lontani) contava 44 pagine di piccolo formato. Il manuale della D750 conta 540 pagine, in formato grande il doppio.
Cinquecentoquaranta pagine di istruzioni! Tutto questo ha un senso?

Purtroppo lo ha. Ma non è a nostro favore. Conviene all'industria, ai predatori di dati personali che studiano i nostri comportamenti, per influenzarci, per orientare le nostre scelte.
L'app per scattare fotografie non solo registra e comunica a qualcuno dove e quando l'abbiamo scattata (anche, in qualche caso, con chi eravamo), ma copia la nostra rubrica telefonica, prende nota delle email e (sembra di capire dalle informazioni rese nel'app di Panasonic) persino il numero della carta di credito, per gli incauti che usano il telefonino "intelligente" per fare acquisti. Se poi cediamo alla tentazione di usare l'app per condividere le foto sulle piattaforme sociali, ecco un'altra quantità di dati personali a disposizione dei predatori. Che se ne servono per condizionare, a nostra insaputa, i nostri comportamenti e le nostre scelte. Scelte di volta in volta di natura commerciale o politica. E stili di vita sempre più dettati dalla convenienza di chi ha il controllo delle tecnologie.

Questo è il vero risultato delle meraviglie "intelligenti" che da tutte le parti ci convincono – o ci costringono – a usare sempre più spesso. Compreso l'obbligo di telefonare alla fotocamera invece di premere un bottone.

Alle origini dei sistemi proprietari: la Nikon F motorizzata, con il portabatterie a tracolla e "cassetta relay" per collegare i diversi sistemi di comando a distanza.
(Immagine da Il libro Nikon del 1970)

Nostalgia degli anni '70: un telecomando costruito in mezz'ora per il portabatterie senza cavo della Nikon F. Una spina da due soldi, un pezzo di filo elettrico, un pulsante da campanello. E l'impugnatura ricavata da un copripedana di motocicletta.
Qui sotto, l'inizio delle informazioni sul trattamento dei dati personali nell'app delle fotocamere Panasonic. Una lettura noiosa, ma istruttiva, sopratutto cercando di capire il non-detto.
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