Il 25 aprile scorso l'ex-comico Beppe Grillo ha
lanciato tre referendum in
materia di informazione, con il solito contorno
di urla e insulti. I media hanno dato grande rilievo
alla notizia, riportando l'affermazione che in un solo
giorno sarebbero state raccolte 450.000 firme.
Dopo pochissimo tempo stampa e TV hanno smesso di
occuparsi della questione. Che cosa è successo? Forse
ci si è accorti che le firme potrebbero non essere
valide perché è impossibile depositarle nei termini
previsti dalla legge? O forse il silenzio è sceso per
uno di quei meccanismi di sparizione delle notizie descritti da Furio Colombo nel suo libretto
sul post-giornalismo?
La materia è troppo delicata perché possa essere
trattata a suon di "vaffa" e invettive. Cerchiamo allora di
ragionare su alcuni punti cruciali.Con la prima delle tre
domande referendarie si chiederebbe l'abolizione dei
finanziamenti pubblici all'editoria, con la seconda
del testo unico della televisione (la cosiddetta
"legge Gasparri"), con la terza della legge
del 1963 istitutiva dell'Ordine dei giornalisti.
Il condizionale è d'obbligo per due motivi: il primo
è che, secondo molti giuristi, le firme non avrebbero
valore. Infatti devono essere raccolte entro tre mesi
dalla richiesta di referendum, ma non possono essere
depositate prima di sei mesi dalla data di
convocazione dei comizi elettorali. Il conto è presto
fatto, partendo dal 6 febbraio, data dello
scioglimento delle Camere e della convocazione dei
comizi.
Il secondo motivo di incertezza riguarda proprio le
richieste di referendum. La ricerca sulla Gazzetta
ufficiale on line porta a questo risultato: il 16
marzo 2008, secondo il comunicato della Corte di
cassazione, è stato richiesto il referendum
sull'abrogazione di norme sui contributi all'editoria.
Degli altri due non c'è traccia. E' uno dei tanti
"buchi di conoscenza" che affliggono la
pubblicazione on line delle nostre leggi, o le
richieste non sono state nemmeno presentate? A favore
di quest'ultima tesi c'è l'inconsistenza dei testi
dei quesiti referendari, così come sono riportati dai
vari siti che raccolgono il verbo dell'ex-comico. In
sostanza essi non soddisfano i requisiti della legge
sui referendum, la n. 352 del 1970, che impone di
riportare per esteso le norme che si vorrebbero
abrogare.
Ma, a parte le questioni formali, è opportuno
approfondire la sostanza delle richieste.
Primo. I contributi pubblici all'editoria sono uno
scandalo italiano che deve cessare (vedi La casta dei
giornali di Beppe Lopez). Un primo tentativo di ridurre l'enorme flusso
di denaro che esce dalle casse dello Stato è stato
fatto durante il precedente governo di centro-destra
con il disegno di legge "Bonaiuti", un altro
con il disegno di legge "Levi" durante la
legislatura appena conclusa. Ambedue sono abortiti. Ma
la questione è all'ordine del giorno e il referendum
(che dovrebbe svolgersi il prossimo anno) potrebbe
arrivare in ritardo.
Secondo. La legge Gasparri è nel mirino
dell'Unione europea perché non apre il mercato del
digitale terrestre. C'è in sospeso anche l'attuazione
della decisione della Corte di giustizia sulla vicenda
di Europa 7 (vedi Europa7.
La fine del duopolio televisivo in Italia?). La revisione
della legge non dovrebbe essere lontana, perché
tutti si dicono d'accordo sulla necessità di rivedere
anche la parte che riguarda la nomina del consiglio di
amministrazione della Rai, che scade alla fine di questo mese.
Dunque anche questo referendum potrebbe essere
cancellato (se mai fosse ammesso) prima di essere
celebrato.
Tutto questo non significa che i due temi non
debbano essere seguiti con molta attenzione. Ce ne
occuperemo presto.
Per ora ci soffermiamo sulla terza questione, relativa
all'abolizione dell'Ordine dei giornalisti. Il
problema non può essere risolto con gli insulti e i
"vaffa" da una parte e con uno sterile
arroccamento dall'altra.
Dei primi non vale la pena di dare conto. Delle
ragioni dei difensori dello status quo è
invece necessario discutere, ricordando che un
referendum sullo stesso tema si tenne nel 1997 (allora
non fu raggiunto il quorum e quindi il
risultato fu nullo, ma circa l'80 per cento dei
votanti si era espresso per l'abolizione dell'Ordine).
Gli argomenti di chi si oppone all'abolizione
dell'Ordine sono sostanzialmente due:
1. Senza l'Ordine verrebbe meno la deontologia e i
giornalisti diventerebbero meri esecutori della
volontà degli editori.
Per capire l'inconsistenza di questi argomenti basta
osservare quanto avviene negli altri paesi
democratici, in nessuno dei quali esiste un organismo
simile al nostro. Al rispetto della deontologia e
della dignità dei giornalisti provvedono libere
associazioni, con risultati spesso migliori di quelli
che vediamo a casa nostra.
2. Sempre secondo i suoi difensori,l'Ordine (al quale si dovrebbe accedere con un
esame di stato), è previsto dalla Costituzione e
dall'ordinamento europeo. In realtà la legge attuale prevede non
un esame di stato, ma una prova di idoneità
professionale.
E' curioso che uno dei più accaniti difensori
dell'organismo, l'ex-presidente dell'Ordine lombardo
Franco Abruzzo, prima abbia chiesto a gran voce che i
giornalisti fossero inseriti nella Costituzione, poi si
sia accorto che ci sono già, in forza dell'art. 33.
Un'interpretazione estensiva, quest'ultima, seguendo
la quale sarebbero previsti dalla carta costituzionale
anche un ordine degli idraulici, uno dei ciabattini e
uno dei conduttori di autobus...
Per quanto riguarda la presunta
"obbligatorietà" dell'esistenza dell'Ordine
in forza di norme europee, basta osservare che i
giornalisti non sono citati in nessuna delle direttive
comunitarie sulle professioni (89/48, 92/51 e
2005/36). E che non solo in nessun paese dell'Unione
esiste un organismo di stato come il nostro, ma che
nessuno progetta di costituirlo.
Il problema non è solo l'esistenza dell'Ordine dei
giornalisti, che è destinato a perire per la forza
stessa dell'evoluzione del sistema dell'informazione
su scala globale. E' l'intero assetto della
comunicazione nel nostro Paese che deve essere rivisto,
dal sistema radiotelevisivo a quello dei giornali.
Qualcuno dovrebbe svolgere una ricerca su quanta parte
dell'informazione è realizzata da giornalisti
professionali e quanta da precari e da volontari
sfruttati e sottopagati a livelli vergognosi. Sarebbe
interessante sapere quanta
professionalità non valorizzata e quanta
non-professionalità concorrano a disegnare un quadro
complessivo ormai indifendibile.
Basta ricordare che i giornalisti dipendenti sono da tre anni senza
contratto. C'è un Ordine che non fa nulla in difesa
della professione, c'è un sindacato che,
evidentemente, non ha la forza di combattere contro lo
strapotere degli editori.
Di fronte a tutto questo i referendum possono essere la
soluzione giusta per cambiare lo stato delle cose?
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