Non si spegne la polemica sulla legge 62/01,
che estende all'informazione telematica il sistema illiberale che in Italia
regola la stampa da più di mezzo secolo e mantiene in vita norme di polizia
scritte sotto il regime fascista. Una sollevazione senza precedenti coinvolge
tutta la Rete, costringe i media tradizionali a riferire su problemi che
preferirebbero ignorare e, in piena campagna elettorale, impone ai politici
prese di posizione che forse vorrebbero evitare.
Il problema non è sorto con la nuova legge sull'editoria. I primi tentativi
di porre l'informazione telematica sotto il controllo della corporazione dei
giornalisti risalgono all'anno scorso, con la proposta di una sorta di
"bollino di qualità" da assegnare ai siti informativi, sulla base di
non si sa quali criteri. Ci furono diffuse proteste, che trovarono un autorevole
(anche se generico) riscontro del presidente dell'Autorità per le garanzie
nelle comunicazioni nella sua relazione annuale al Parlamento (vedi Quali
regole per l'informazione in rete?).
Verso la fine dell'anno, in una lettera aperta
diretta al Ministro della giustizia, il presidente dell'Ordine dei giornalisti
lombardo Franco Abruzzo chiedeva esplicitamente l'estensione del regime della
stampa all'informazione telematica. Il sito dell'associazione PeaceLink
raccoglieva alcune dichiarazioni dello stesso Abruzzo, che anticipavano alcuni emendamenti
alla proposta di legge C.7902, relativa a un regime penale meno punitivo per il
reato di diffamazione a mezzo stampa. Diceva in sostanza Abruzzo: tutti i siti
che fanno informazione, anche non professionale, dovranno registrarsi come
testate giornalistiche.
Ma, mentre era in corso la protesta lanciata dalla stessa Peacelink contro gli
emendamenti proposti, il Parlamento ha approvato nella legge sui finanziamenti
all'editoria una versione ancora più ampia degli stessi emendamenti .
L'allarme era lanciato proprio da questa rivista nell'articolo Non
ci resta che chiudere? del 1. marzo scorso. Ma passava quasi inosservato,
anche perché in quei tempi teneva banco la polemica contro il disegno di legge
"Passigli" sui nomi a dominio.
Il 4 aprile, alla vigilia dell'entrata in vigore della nuova legge, era ancora
InterLex a segnalare che, dal giorno dopo, l'assenza di norme transitorie
avrebbe posto improvvisamente fuorilegge una buona parte dei siti italiani (Qui
succede un "quarantotto"). Il quotidiano Punto informatico
riprendeva la notizia e lanciava la petizione
(discutibile sotto alcuni punti di vista, ma efficace nella sostanza) che in
pochi giorni ha mobilitato tutta la Rete e raccolto decine di migliaia di firme.
A questo punto è iniziato l'incredibile balletto di dichiarazioni e di
rassicuranti quanto infondate interpretazioni della legge, tese a negare
l'obbligo di iscrizione dell'informazione telematica nei registri della stampa,
se non per accedere alle agevolazioni che costituiscono l'oggetto dichiarato
della stessa legge. La risposta, che si spera definitiva, è nel testo
coordinato delle disposizioni in vigore.
La fantasia si è sbrigliata anche on line: è stato scritto tutto e il
contrario di tutto. Tra le stranezze interpretative va segnalato persino il
tentativo di ricavare la nozione di "stampa periodica" dal codice
postale, come se una norma secondaria di carattere speciale (dettata in funzione
delle tariffe di spedizione degli stampati) possa costituire una regola generale
per l'interpretazione di una legge.
Su un portale è stato scritto anche che l'obbligo di registrazione
riguarderebbe solo le testate pubblicate sotto un dominio di secondo livello,
mentre quelle pubblicate sotto un dominio di terzo livello sarebbero in regola,
se il livello superiore fosse registrato come testata giornalistica. Con
evidenti ritorni economici e di immagine per il portale stesso...
Questa e altre soluzioni avanzate da varie parti (come quella di proporsi
come "prestanome" in funzione di direttore responsabile) possono
essere pericolose. Infatti il ruolo non è formale, ma comporta precise
responsabilità, perché il direttore risponde effettivamente dei contenuti
della pubblicazione. Non sono pochi i casi, anche recenti, di condanne per
"omesso controllo" ai sensi dell'articolo 57 del codice penale.
Ora, al di là delle polemiche a ruota libera (che costituiscono uno dei punti
di forza della Rete), è necessario riportare il dibattito ai suoi termini
essenziali, che possono essere sintetizzati in quattro domande.
Prima domanda. E' degno di una nazione democratica il fatto che un
cittadino compia un reato se pubblica notizie o opinioni senza aver compiuto una
serie di adempimenti amministrativi preliminari che, fra l'altro, non sono alla
portata di tutti?
Seconda domanda. Nel caso di risposta affermativa alla prima domanda,
è giusto o utile che le disposizioni sulla stampa siano estese all'internet,
dove la libertà di espressione è comunque garantita dalla natura stessa del
mezzo e quindi ogni limitazione può essere aggirata più o meno facilmente?
Terza domanda. Nel caso di risposte affermative alle domande
precedenti, è giusto o utile che siano i giornalisti a decidere chi può
pubblicare qualcosa e chi no, attraverso l'ammissione all'ordine professionale o
"ospitando" gli scritti nelle pubblicazioni registrate?
Quarta domanda. In caso di risposte negative alle domande precedenti,
è meglio abbattere l'intero sistema o si devono dettare regole nuove, che da
una parte assicurino la libertà di espressione e dall'altra garantiscano ai
cittadini una qualità minima dell'informazione e ai giornalisti di svolgere il
loro compito con gli strumenti e con l'indipendenza che sono necessari?
Dalla risposta a quest'ultima domanda dipende non solo il futuro
dell'internet, ma di tutto il sistema dell'informazione in Italia. Alla
soluzione "totalitaria" imposta dalla legge 62/01 si contrappone una
visione "libertaria", espressa con molta efficacia da Attardi in
questo stesso numero: Voglio anch'io il First Amendment.
In ogni discussione in cui i contendenti si arroccano su posizioni contrapposte
è difficile trovare un punto di incontro. E' vero, come dice Attardi, che il
Congresso degli USA "non può" fare leggi che limitino la libertà di
espressione (probabilmente questa è la migliore definizione della libertà di
stampa, e risale al 1790!), ma è anche vero che l'informazione americana è
soggetta a un'autodisciplina molto severa e generalmente rispettata.
Hanno in parte ragione i giornalisti - non tutti - che sostengono la
necessità di stabilire una forma di "garanzia di qualità"
dell'informazione telematica. Ma, tanto per incominciare, dovrebbero chiedersi
se l'attuale ordinamento assicuri la qualità dell'informazione stampata e
radiotelevisiva, sulla quale è giustificato nutrire qualche dubbio. E
soprattutto se questa garanzia di qualità possa provenire dagli stessi
giornalisti, riuniti in una corporazione che decide anche chi può essere
giornalista e chi no.
Fare il giornalista è un "mestiere" difficile e non privo di
responsabilità e di rischi, che richiede una lunga preparazione. In una
società democratica non si può negare a nessuno il diritto di diffondere le
proprie idee e le proprie opinioni, ma è necessario distinguere tra chi fa
informazione come attività professionale e chi si avvale semplicemente della
libertà di manifestare il proprio pensiero. L'attuale ordinamento non assicura
questo diritto e dunque va cambiato.
Entra quindi in discussione, prima ancora dell'ordinamento della professione
giornalistica, il regime della stampa dettato dalla legge del 1948.
Questa legge fu compilata in fretta dall'Assemblea costituente, con lo scopo
principale di abrogare il RDL 14 gennaio 1944, che sottoponeva la stampa a
un'autorizzazione preventiva ed era quindi incompatibile con l'art. 21 della
Costituzione. Però fu introdotto l'obbligo della registrazione presso il
tribunale del luogo di pubblicazione, con il fine dichiarato di determinare uno
status di immunità da possibili azioni giudiziarie limitative della libertà di
espressione. In realtà anche nell'Assemblea costituente erano presenti voci
contrarie a una illimitata libertà di stampa, sicché il testo che ancora oggi
regola l'informazioni in Italia è frutto del difficile compromesso raggiunto in
una democrazia ancora immatura.
In conclusione, occorre tornare alle radici della libertà di espressione e
della libertà di stampa, abbattendo le barriere legali e burocratiche che si
oppongono all'esercizio di queste libertà. E, anche, limitando il potere dei
professionisti dell'informazione di intervenire sull'informazione non
professionale: il solo limite alla libertà di espressione di un cittadino può
risiedere nelle leggi che puniscono l'abuso o la commissione di atti illeciti.
Dunque, ancora una volta, la sola regola che può essere imposta
all'informazione spontanea è la "reperibilità" dell'autore
dell'informazione stessa, affinché egli possa rispondere delle notizie o delle
opinioni che ha diffuso. Il risultato può essere raggiunto senza violare il
diritto alla riservatezza, grazie alla soluzione del cosiddetto "anonimato
protetto".
Poi si potranno trovare le soluzioni più efficaci per garantire l'accesso
alla professione giornalistica, con le garanzie e le responsabilità conseguenti
allo status di giornalista, e anche le misure tecniche e organizzative opportune
per ottenere la "garanzia di qualità" dell'informazione
professionale.
La sola cosa che non si deve fare è andare avanti con leggi liberticide, oltre
che confuse e inapplicabili.
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