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Sistema informazione

Quattro domande sulla libertà di stampa

19.04.01

Non si spegne la polemica sulla legge 62/01, che estende all'informazione telematica il sistema illiberale che in Italia regola la stampa da più di mezzo secolo e mantiene in vita norme di polizia scritte sotto il regime fascista. Una sollevazione senza precedenti coinvolge tutta la Rete, costringe i media tradizionali a riferire su problemi che preferirebbero ignorare e, in piena campagna elettorale, impone ai politici prese di posizione che forse vorrebbero evitare.

Il problema non è sorto con la nuova legge sull'editoria. I primi tentativi di porre l'informazione telematica sotto il controllo della corporazione dei giornalisti risalgono all'anno scorso, con la proposta di una sorta di "bollino di qualità" da assegnare ai siti informativi, sulla base di non si sa quali criteri. Ci furono diffuse proteste, che trovarono un autorevole (anche se generico) riscontro del presidente dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni nella sua relazione annuale al Parlamento (vedi Quali regole per l'informazione in rete?).

Verso la fine dell'anno, in una lettera aperta diretta al Ministro della giustizia, il presidente dell'Ordine dei giornalisti lombardo Franco Abruzzo chiedeva esplicitamente l'estensione del regime della stampa all'informazione telematica. Il sito dell'associazione PeaceLink raccoglieva alcune dichiarazioni dello stesso Abruzzo, che anticipavano alcuni emendamenti alla proposta di legge C.7902, relativa a un regime penale meno punitivo per il reato di diffamazione a mezzo stampa. Diceva in sostanza Abruzzo: tutti i siti che fanno informazione, anche non professionale, dovranno registrarsi come testate giornalistiche.
Ma, mentre era in corso la protesta lanciata dalla stessa Peacelink contro gli emendamenti proposti, il Parlamento ha approvato nella legge sui finanziamenti all'editoria una versione ancora più ampia degli stessi emendamenti .

L'allarme era lanciato proprio da questa rivista nell'articolo Non ci resta che chiudere? del 1. marzo scorso. Ma passava quasi inosservato, anche perché in quei tempi teneva banco la polemica contro il disegno di legge "Passigli" sui nomi a dominio.
Il 4 aprile, alla vigilia dell'entrata in vigore della nuova legge, era ancora InterLex a segnalare che, dal giorno dopo, l'assenza di norme transitorie avrebbe posto improvvisamente fuorilegge una buona parte dei siti italiani (Qui succede un "quarantotto"). Il quotidiano Punto informatico riprendeva la notizia e lanciava la petizione (discutibile sotto alcuni punti di vista, ma efficace nella sostanza) che in pochi giorni ha mobilitato tutta la Rete e raccolto decine di migliaia di firme.

A questo punto è iniziato l'incredibile balletto di dichiarazioni e di rassicuranti quanto infondate interpretazioni della legge, tese a negare l'obbligo di iscrizione dell'informazione telematica nei registri della stampa, se non per accedere alle agevolazioni che costituiscono l'oggetto dichiarato della stessa legge. La risposta, che si spera definitiva, è nel testo coordinato delle disposizioni in vigore.

La fantasia si è sbrigliata anche on line: è stato scritto tutto e il contrario di tutto. Tra le stranezze interpretative va segnalato persino il tentativo di ricavare la nozione di "stampa periodica" dal codice postale, come se una norma secondaria di carattere speciale (dettata in funzione delle tariffe di spedizione degli stampati) possa costituire una regola generale per l'interpretazione di una legge.
Su un portale è stato scritto anche che l'obbligo di registrazione riguarderebbe solo le testate pubblicate sotto un dominio di secondo livello, mentre quelle pubblicate sotto un dominio di terzo livello sarebbero in regola, se il livello superiore fosse registrato come testata giornalistica.  Con evidenti ritorni economici e di immagine per il portale stesso...

Questa e altre soluzioni avanzate da varie parti (come quella di proporsi come "prestanome" in funzione di direttore responsabile) possono essere pericolose. Infatti il ruolo non è formale, ma comporta precise responsabilità, perché il direttore risponde effettivamente dei contenuti della pubblicazione. Non sono pochi i casi, anche recenti, di condanne per "omesso controllo" ai sensi dell'articolo 57 del codice penale.
Ora, al di là delle polemiche a ruota libera (che costituiscono uno dei punti di forza della Rete), è necessario riportare il dibattito ai suoi termini essenziali, che possono essere sintetizzati in quattro domande.

Prima domanda. E' degno di una nazione democratica il fatto che un cittadino compia un reato se pubblica notizie o opinioni senza aver compiuto una serie di adempimenti amministrativi preliminari che, fra l'altro, non sono alla portata di tutti?

Seconda domanda. Nel caso di risposta affermativa alla prima domanda, è giusto o utile che le disposizioni sulla stampa siano estese all'internet, dove la libertà di espressione è comunque garantita dalla natura stessa del mezzo e quindi ogni limitazione può essere aggirata più o meno facilmente?

Terza domanda. Nel caso di risposte affermative alle domande precedenti, è giusto o utile che siano i giornalisti a decidere chi può pubblicare qualcosa e chi no, attraverso l'ammissione all'ordine professionale o "ospitando" gli scritti nelle pubblicazioni registrate?

Quarta domanda. In caso di risposte negative alle domande precedenti, è meglio abbattere l'intero sistema o si devono dettare regole nuove, che da una parte assicurino la libertà di espressione e dall'altra garantiscano ai cittadini una qualità minima dell'informazione e ai giornalisti di svolgere il loro compito con gli strumenti e con l'indipendenza che sono necessari?

Dalla risposta a quest'ultima domanda dipende non solo il futuro dell'internet, ma di tutto il sistema dell'informazione in Italia. Alla soluzione "totalitaria" imposta dalla legge 62/01 si contrappone una visione "libertaria", espressa con molta efficacia da Attardi in questo stesso numero: Voglio anch'io il First Amendment.
In ogni discussione in cui i contendenti si arroccano su posizioni contrapposte è difficile trovare un punto di incontro. E' vero, come dice Attardi, che il Congresso degli USA "non può" fare leggi che limitino la libertà di espressione (probabilmente questa è la migliore definizione della libertà di stampa, e risale al 1790!), ma è anche vero che l'informazione americana è soggetta a un'autodisciplina molto severa e generalmente rispettata.

Hanno in parte ragione i giornalisti - non tutti - che sostengono la necessità di stabilire una forma di "garanzia di qualità" dell'informazione telematica. Ma, tanto per incominciare, dovrebbero chiedersi se l'attuale ordinamento assicuri la qualità dell'informazione stampata e radiotelevisiva, sulla quale è giustificato nutrire qualche dubbio. E soprattutto se questa garanzia di qualità possa provenire dagli stessi giornalisti, riuniti in una corporazione che decide anche chi può essere giornalista e chi no.

Fare il giornalista è un "mestiere" difficile e non privo di responsabilità e di rischi, che richiede una lunga preparazione. In una società democratica non si può negare a nessuno il diritto di diffondere le proprie idee e le proprie opinioni, ma è necessario distinguere tra chi fa informazione come attività professionale e chi si avvale semplicemente della libertà di manifestare il proprio pensiero. L'attuale ordinamento non assicura questo diritto e dunque va cambiato.
Entra quindi in discussione, prima ancora dell'ordinamento della professione giornalistica, il regime della stampa dettato dalla legge del 1948.

Questa legge fu compilata in fretta dall'Assemblea costituente, con lo scopo principale di abrogare il RDL 14 gennaio 1944, che sottoponeva la stampa a un'autorizzazione preventiva ed era quindi incompatibile con l'art. 21 della Costituzione. Però fu introdotto l'obbligo della registrazione presso il tribunale del luogo di pubblicazione, con il fine dichiarato di determinare uno status di immunità da possibili azioni giudiziarie limitative della libertà di espressione. In realtà anche nell'Assemblea costituente erano presenti voci contrarie a una illimitata libertà di stampa, sicché il testo che ancora oggi regola l'informazioni in Italia è frutto del difficile compromesso raggiunto in una democrazia ancora immatura.

In conclusione, occorre tornare alle radici della libertà di espressione e della libertà di stampa, abbattendo le barriere legali e burocratiche che si oppongono all'esercizio di queste libertà. E, anche, limitando il potere dei professionisti dell'informazione di intervenire sull'informazione non professionale: il solo limite alla libertà di espressione di un cittadino può risiedere nelle leggi che puniscono l'abuso o la commissione di atti illeciti.
Dunque, ancora una volta, la sola regola che può essere imposta all'informazione spontanea è la "reperibilità" dell'autore dell'informazione stessa, affinché egli possa rispondere delle notizie o delle opinioni che ha diffuso. Il risultato può essere raggiunto senza violare il diritto alla riservatezza, grazie alla soluzione del cosiddetto "anonimato protetto".

Poi si potranno trovare le soluzioni più efficaci per garantire l'accesso alla professione giornalistica, con le garanzie e le responsabilità conseguenti allo status di giornalista, e anche le misure tecniche e organizzative opportune per ottenere la "garanzia di qualità" dell'informazione professionale.
La sola cosa che non si deve fare è andare avanti con leggi liberticide, oltre che confuse e inapplicabili.

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