Procede lentamente alla Camera dei deputati la
discussione sulla legge finanziaria 2007. Si farà in
tempo a discutere dell'articolo
122 "transizione alla televisione
digitale" o il Governo porrà la questione di
fiducia prima che si arrivi a quel punto? Il
dibattito sarebbe interessante, perché ci aiuterebbe
a capire come in Parlamento si immagina il futuro della
televisione. Comunque ne vedremo delle belle quando
approderà all'aula il "disegno di legge
Gentiloni" (C.1825),
che si intitola "disposizioni per la disciplina
del settore televisivo nella fase di transizione alla
tecnologia digitale" e ha già suscitato violente
reazioni dell'opposizione.
Dunque nello stesso tempo ci sono due proposte normative sulla stessa
materia, lo sviluppo della DTT, mentre non si parla di
riforma complessiva del sistema. Nella finanziaria è proposto uno
stanziamento di 40 milioni di euro: ma è così importante il
digitale terrestre?Certamente
sì, perché costituisce l'unico grimaldello oggi
utilizzabile per scardinare il duopolio Rai-Mediaset,
che soffoca il nostro sistema televisivo. Con la
redistribuzione delle frequenze (per la quale
serviranno un paio d'anni), e con l'aumento del numero
dei canali reso possibile dalla tecnologia digitale,
dovrebbe essere possibile realizzare quel pluralismo
informativo che tanto serve al nostro Paese. Almeno in
teoria.
Nella sostanza le proposte di Gentiloni appaiono
prudenti, addirittura timide, e gli effetti si
vedranno non prima del biennio 2008-2009.
Giovanni Minoli, ospite di Fabio Fazio a "Che
tempo che fa" domenica scorsa, ha detto che il
DDL Gentiloni è l'inizio di un percorso, non il punto
di arrivo, "un inizio di trattativa".
Visto il fuoco di sbarramento aperto dal partito
di Mediaset alla presentazione del testo, forse
sarebbe stato utile un progetto meno prudente, posto
che in ogni trattativa qualcuno deve concedere
qualcosa all'interlocutore.
Comunque, anche senza introdurre modifiche
sostanziali nel regime attuale, il testo di Gentiloni
va al di là della pura transizione al digitale
terrestre. Cerca di superare il famigerato SIC
(Sistema integrato delle comunicazioni) della legge
Gasparri, cerca di rendere più efficace il sistema
sanzionatorio per gli operatori che non rispettano le
regole, introduce un tetto del 45 per cento della
raccolta pubblicitaria totale nel settore televisivo.
Ma basta riflettere un attimo su questo dato per
capire che siamo lontani da soluzioni veramente
efficaci: 45 alla Rai, 45 a Mediaset, resta un misero
10 per cento per tutti gli altri, compresi quelli che,
nelle speranze di Gentiloni, dovrebbero entrare nel
mercato.
Minoli ha detto altre cose interessanti,
soprattutto per quanto riguarda la cosiddetta
"televisione di qualità". Il problema è,
ha affermato Minoli, che la Rai fa molta televisione
di qualità, che raggiunge anche elevati indici di
ascolto, ma va in onda in orari
"catacombali".
Sorge a questo punto una domanda: se le trasmissioni
"di qualità" ottengono il gradimento di
significative fasce di pubblico, perché non vengono
proposte in orari di grande ascolto? Ma forse si
dovrebbe rovesciare la domanda e chiedere perché nelle fasce di
punta si vedano tanti programmi-schifezza.
La risposta dei signori del marketing è che i
programmi-schifezza ottengono comunque uno share
più alto, il che significa battere la concorrenza e
avere più pubblicità.
Così si arriva alla questione essenziale: perché il
sistema televisivo pubblico deve essere in concorrenza
con quello privato? I fini sono diversi. La
televisione pubblica deve essere una televisione
"di servizio", servizio pagato dai cittadini
attraverso una tassa chiamata
"canone". Invece la televisione commerciale si deve
alimentare con la pubblicità per ottenere il giusto
profitto d'impresa.
La televisione pubblica che insegue l'impresa
privata sul terreno del profitto, e per questo
sacrifica la sua funzione di servizio, viene meno al
suo compito. Naturalmente nulla impedisce che anche la
Rai produca programmi commerciali e guadagni, ma
allora si dovrebbe separare la programmazione fatta
con i nostri soldi da quella fatta con i soldi della
pubblicità.
Non si dica che una televisione solo "di
servizio", solo "di qualità" sarebbe
noiosa. Pensiamo a un canale sul quale si alternino,
in prima serata, Dario Fo con le "lezioni"
su Mantegna (magari seguito dalle chicche di
"PassepARTout di Philippe Daverio), l'indomani
Piero e Alberto Angela, un altro giorno i misteri di
Carlo Lucarelli, poi le inchieste di Rai News 24, per non parlare de "La storia
siamo noi" di Minoli. E si potrebbe continuare a
lungo, perché nei palinsesti della Rai ci sono
molti programmi di eccellente livello.
Un canale così, un canale veramente "di
servizio" potrà trovare spazio nel digitale
terrestre. Ma dovremo aspettare anni. Invece di una
buona televisione abbiamo bisogno subito. Dunque si
deve lavorare sulla Rai di oggi. Il fatto è che
le decisioni su come la televisione pubblica debba
svolgere i suoi compiti sono nelle mani della
politica.
La politica è il vero "padrone" della Rai. Forse sono i politici, al di là delle
dichiarazioni di facciata, a non volere una
televisione pubblica di qualità?
Alla domanda di Fazio perché la politica dovrebbe
uscire dalla televisione, Minoli ha risposto:
"Perché non è in grado di occuparsene, o se ne
occupa troppo in un modo che non favorisce né lo
sviluppo né il miglioramento del prodotto... O il
prodotto è centrale, o non ha senso parlare di
servizio pubblico".
Parole da sottoscrivere. Ricordando che esiste una
proposta di una legge di iniziativa popolare "per
un'altra TV" (vedi La Rai non sarà la BBC, ma si deve tentare).
Dal sito
dedicato all'iniziativa si apprende che il testo
è stato assegnato alle commissioni riunite cultura e
trasporti della Camera e sarà discusso insieme al
disegno di legge Gentiloni.
Il punto fondamentale della proposta è l'indipendenza
del servizio pubblico televisivo dal controllo della
politica. Ma perché nessuno ne parla?
|