Tre dirigenti di Google
condannati per la pubblicazione di un video nefando. Ma
il Web è troppo grande perché la sentenza di primo
grado di un tribunale italiano possa metterne in
discussione la libertà o addirittura "l'esistenza
come lo conosciamo", come ha detto la società
americana.
Commentare una sentenza prima di
conoscerne le motivazioni non è una buona abitudine.
Tuttavia il gran clamore sollevato dalla decisione di
Milano impone, se non altro, di mettere a fuoco i
contorni della questione.
Come tutti ormai sanno, la vicenda risale al 2006: un
atto di bullismo ai danni di un disabile, il filmato
caricato su Google Video, la pronta rimozione da parte
dei responsabili del sito. Che però non evita la
denuncia e l'azione penale, giunta ieri al suo primo
giro di boa.
La discussione ruota intorno a due questioni in
apparente conflitto: la prima è il rispetto della
persona umana, la seconda è la responsabilità del
provider per contenuti illeciti immessi da un
"destinatario del servizio". Sullo sfondo
la libertà della Rete, poiché attribuire agli
operatori la responsabilità penale per fatti
commessi da altri può introdurre un'insidiosa forma di
censura o semplicemente la cessazione di un'attività di
grande rilevanza nella società dell'informazione.
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Vediamo prima di tutto le norme sulla responsabilità
degli operatori. Gli articoli 14, 15 e 16 del decreto
legislativo n. 70 del 2003 stabiliscono, in sintesi, che
un "prestatore di servizi" non è responsabile
per i contenuti immessi dai destinatari dei suoi servizi
se si limita a fornire un mero supporto tecnico, senza
intervenire sui contenuti stessi. O se li rimuove appena
"viene effettivamente a conoscenza" del fatto
che l'attività o l'informazione è illecita o o se
riceve un ordine da un'autorità di sorveglianza.
Particolarmente importante, per il caso in questione,
è il successivo art.
17. Esso esclude per i provider un
obbligo generale di sorveglianza o la ricerca attiva di
contenuti illeciti: il fornitore è civilmente
responsabile solo se non provvede
"prontamente", su ordine dell'autorità
competente, a inibire l'accesso ai contenuti illeciti.
Inoltre deve segnalare all'autorità giudiziaria
attività o informazioni illecite delle quali venga a
conoscenza e collaborare per l'individuazione dei
responsabili.
I dirigenti di Google hanno ottemperato a queste
disposizioni. Perché allora il processo e la condanna?
Secondo il pubblico ministero ci sarebbe stata una
condotta illecita nell'ignorare "l'obbligo di
impedire l'evento" in relazione alla normativa sul
trattamento dei dati personali. E questo in funzione
degli interessi economici dell'impresa. Una tesi
suggestiva, che descrive l'azienda americana come un
predatore alla caccia di profitti (da pubblicità) a
qualunque costo.
Qui dobbiamo fermarci, in attesa delle motivazioni.
Dovremo capire le ragioni sulla base delle quali il
giudice ha ritenuto di disapplicare le norme sulla
responsabilità del provider. E quindi valutare i
possibili effetti della sentenza sulle attività
telematiche e sui social network in particolare.
Si deve comunque ricordare che nel nostro ordinamento
una sentenza di primo grado non costituisce un
precedente vincolante per i giudici che dovessero
pronunciarsi su casi analoghi. Ricordate il processo di
Modica, in cui un blogger fu condannato per "stampa
clandestina"? Anche allora si levò un grande
allarme per la libertà dell'internet (vedi Blog e stampa clandestina: aspettiamo la sentenza
e "Stampa clandestina": una sentenza inaccettabile).
Ebbene, solo tre giorni fa dal tribunale di Milano è
arrivata una sentenza di segno opposto (ne parleremo,
anche in questo caso, quando saranno depositate le
motivazioni).
La sentenza Google comunque giustifica qualche
preoccupazione, soprattutto a causa della brutta aria
che tira, non solo in Italia, nei confronti
dell'internet e del suo ruolo nella società.
Significativo il commento alla sentenza del senatore
Gasparri del PdL: "Con una sentenza esemplare il
tribunale di Milano ha condannato alcuni dirigenti di
Google in merito alla vicenda del ragazzo disabile
insultato e picchiato dai compagni di scuola, il cui
video e' circolato a lungo sul famoso motore di
ricerca... Perche' Google non ha, infatti, vigilato e
collaborato per rimuovere in modo tempestivo contenuti
violenti? Ci auguriamo che, anche alla luce di questa
sentenza, si ponga definitivamente il problema e si
trovino tutte le soluzioni normative affinche' non si
sottovaluti piu' l'importanza della vigilanza sui
contenuti immessi in rete, oltre che sulla loro
immediata rimozione".
I tentativi di attribuire ai provider il ruolo di
"sceriffi della rete" non sono nuovi, anche
per cause meno nobili dei diritti fondamentali della
persona (vedi la "dottrina Sarkozy", con le
disconnessioni forzate per presunte violazioni del
copyright). In Italia c'è il recente "decreto
Romani" che cerca di imbrigliare l'internet nelle
regole della televisione, con l'Autorità per le
garanzie nelle comunicazioni nel ruolo di sceriffo.
Sembra che il Governo abbia fatto marcia indietro su
questo punto, ma il nuovo testo non è ancora noto.
Ma tutto questo passa in secondo piano di fronte al
fatto che ha dato origine alla causa. La violenza di
gruppo contro una persona debole, la vanteria nel
pubblicare il terribile documento tra i "video
divertenti"... Su questo dobbiamo riflettere e
chiederci se tutti noi non abbiamo qualche colpa, per la
quale non compariremo mai davanti a un tribunale della
Repubblica.
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