Un'associazione per delinquere messa in piedi dal
responsabile della sicurezza di Telecom Italia avrebbe
condotto per anni un'estesa attività di "dossieraggio"
a carico di un grande numero di cittadini (il
condizionale è d'obbligo perché non c'è una
sentenza definitiva di condanna e quindi gli indagati
- non ancora imputati - devono essere considerati
innocenti). Questa è la sostanza dello "scandalo
Telecom" di cui si parla in questi giorni .
L'informazione, soprattutto all'inizio, non è stata
sempre corretta e non ha messo nella giusta luce
alcuni problemi molto seri, e ben noti agli addetti ai
lavori, che riguardano la protezione dei dati
personali nel nostro Paese.
Per capire meglio i termini della questione, si
dovrebbe leggere con attenzione l'ordinanza di
applicazione di misure cautelari e sequestri emessa
dal giudice per le indagini preliminari Paola Belsito.
"Misure cautelari",
per inciso, non significa condanna e neppure rinvio a
giudizio, ma solo che dalle indagini condotte fino a
questo punto emerge la necessità di arrestare alcuni
indagati e sequestrare determinati beni.
Sono trecentoquarantaquattro pagine, con lunghi
elenchi di spioni e di spiati ma, avverte il giudice,
non è tutto: l'inchiesta prosegue e ci saranno altri
elenchi di spioni e di spiati.
Il primo dato che salta all'occhio di ha la
pazienza di leggere l'ordinanza, è che tra gli
illeciti contestati dalla Procura di Milano non ci
sono intercettazioni. C'è solo il caso del ritrovamento
di una microspia nell'automobile dell'allora
amministratore delegato di Telecom, Bondi,
presumibilmente piazzata dalla stessa persona che poi
ha fatto finta di "scovarla". Dunque c'è
stata un'informazione imprecisa, perché fino a questo
punto delle indagini non risulterebbe che la macchina
spionistica illegale abbia compiuto intercettazioni
telefoniche o telematiche, ma solo accessi abusivi a
banche dati. Questo getta sulla vicenda una luce
diversa, forse ancora più preoccupante.
Vediamo infatti da quali fonti gli indagati
attingevano i dati. Si legge nell'ordinanza a pagina
173: "...informazioni raccolte presso il Centro elaborazione dati delle forze di polizia e che riguardano tutti i soggetti presenti sul territorio dello stato, e all'interno della Comunità. Informazioni e dati che attengono all'ordine ed alla sicurezza pubblica, alla prevenzione e alla repressione della criminalità, ivi comprese le notizie relative alla situazione bancaria e alle operazioni compiute dai singoli".
Nelle pagine seguenti si aggiungono le informazioni dell'anagrafe tributaria e soprattutto, i data base della stessa Telecom, con tutti i dati di traffico contenuti nei tabulati telefonici.
Impressionante l'elenco delle informazioni: "precedenti di polizia, precedenti penali e casellari giudiziali, conti correnti, auto, patenti, hotel, controlli su strada, dichiarazioni dei redditi e quant'altro
necessario". Ancora, servizi di pedinamento, cariche riservate partecipazioni e protesti.
Ed è singolare che gli spioni della società
telefonica non abbiano mai usato gli strumenti che
avevano più a portata di mano, le intercettazioni
telefoniche e telematiche. Emergerà qualcosa nel
prosieguo dell'inchiesta?
Ma ecco il dato più inquietante, sempre nelle
parole del giudice: "I due [Tavaroli e Cipriani,
n.d.r.] hanno costruito un sistema apparentemente perfetto. Esso si è sviluppato con la formazione di un archivio da far invidia a un servizio segreto, e ciò attraverso l'acquisizione, tra l'altro, di informazioni
abusivamente ottenute [...] per mezzo di una rete di pubblici ufficiali e di incaricati di pubblico servizio compiacenti, e/o corrotti, che utilizzavano gli strumenti di conoscenza forniti loro per ragioni d'ufficio per propalare informazioni riservate sui cittadini. In altri termini i due, mettendo insieme dati provenienti da più banche delle forze dell'ordine e/o di organi pubblici, avevano finito per avere la disponibilità di un centro di raccolta di informazioni più completo, addirittura, di quelli delle forze
dell'ordine"(pag. 287 dell'ordinanza).
E se tutto questo non basta, ecco la notizia
recentissima di un'altra inchiesta della Procura di
Milano su altri spioni, persino negli uffici della
stessa Procura.
Che cosa sta succedendo? Quali rischi corriamo,
inconsapevoli cittadini, evidentemente controllati e
schedati per 24 ore al giorno?
La risposta, purtroppo, è semplice. Una massa enorme
di informazioni che ci riguardano è presente in un
numero impressionante di banche di dati, alcune
legali, alcune illegali o gestite senza troppi
riguardi. Particolarmente ricche di informazioni
quelle a disposizione delle forze dell'ordine. Le
tecnologie dell'informazione aiutano ad analizzare e
correlare questi dati fino a tracciare un profilo
dettagliato di ogni cittadino. Siamo nudi.
Qualcuno dirà c'è una quantità di norme -
troppe? - che dovrebbero proteggere questi dati da
occhi estranei e impedirne la divulgazione.
Evidentemente non bastano.
C'è un'autorità indipendente, il Garante per la
protezione dei dati personali, che dovrebbe vigilare
sui trattamenti, bloccare quelli illeciti o svolti
senza le necessarie garanzie, sanzionare i titolari
che non rispettano le regole. Ma la sua azione non è
incisiva: lo stesso presidente del Garante, il
professor Pizzetti, ha candidamente dichiarato
martedì scorso a Ballarò che nel dicembre 2005 le
ispezioni avevano accertato i rischi e ai gestori
telefonici erano stati dati 180 giorni per mettere a
posto le cose. Scaduto il termine, è stata concessa
una proroga di altri 90 giorni.
Ma come? Dopo otto anni dalla sua entrata in
funzione, dopo almeno altrettanti anni di illeciti,
solo alla fine del '95 il Garante si accorge che i
data base delle compagnie telefoniche sono colabrodi?
E qual è la sua prima iniziativa quando apprende
dello scandalo? Un bel comunicato: "Nessuno
pubblichi i contenuti dei dossier illegali"!
Che accompagna il decreto-legge
varato in fretta e furia dal Governo, che impone la
distruzione dei dossier e prevede pesantissime
sanzioni per chi ne divulgasse i contenuti.
Come giornalisti tutto questo ci riguarda
direttamente. E solleva ancora una volta le questioni
della libertà di stampa tante volte richiamate per la
pubblicazione di atti giudiziari sui quali vige il
segreto istruttorio. "Ho una notizia, la
pubblico", è la risposta che nella maggior parte
dei casi viene data da chi, in forza del
diritto-dovere di cronaca, ha concorso a violare un
segreto. Molte volte, però, ci dovremmo chiedere se
l'esercizio di questo diritto-dovere non danneggi
gravemente persone estranee, o che si riveleranno
successivamente estranee all'inchiesta in corso.
Dovrebbe essere una decisione indipendente o
l'applicazione di un principio deontologico, non
un'imposizione di legge, perché ogni norma che incide
sulla libertà di stampa colpisce la democrazia.
Le dimensioni dello scandalo Telecom, con la
violazione del fondamentale diritto alla riservatezza
di migliaia di cittadini, possono giustificare un
fermo e assoluto divieto di pubblicazione? Tra i due
beni in gioco, quello della libertà di stampa e
quello della privacy, quale deve prevalere?
Se al diritto-dovere di informare da parte della
stampa corrisponde il diritto del cittadino di essere
informato, in un caso di questa gravità, quando
l'informazione è frutto di una così pesante serie di
atti illeciti, può essere accettabile una
compressione di questi diritti. Se da fascicoli
illegali, destinati per legge a essere distrutti,
nemmeno il pubblico ministero può ricavare notizie di
reato, allora si giustifica la prevalenza del
diritto alla reputazione e alla riservatezza dei
cittadini, con una del tutto occasionale limitazione
della libertà di stampa.
Ma questo non risolve tutti gli altri problemi.
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